L’UOMO CHE UCCISE 17 VOLTE

di Fabio Tiraboschi & Patrice MersaultGenoa News Chronicle / Io, reporter

PROLOGO

Gli omicidi in Italia sono circa mille ogni anno, mediamente tre al giorno. In alcuni casi l’assassino decide di uccidere una persona o più persone a lui anonime. Sono omicidi nei quali ci specchiamo con orrore perchè parlano di noi, perchè ognuno di noi può diventare bersaglio e vittima.

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Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. Io vidi gente sotto infino al ciglio

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Se fosse vissuto al tempo di Dante sarebbe un infelice dannato dell’Inferno, confinato dal Poeta nel primo girone del VII cerchio, quello dei violenti contro il prossimo, gli assassini e i predoni. Immerso fino agli occhi nel sangue bollente del fiume Flegetonte, trafitto dalle frecce dei centauri appostati sulle sponde ogni volta che tenta di uscire da quell’orrendo fiume rosso. Una pena atroce per chi ha provocato cruente sofferenze agli altri. Ma Donato “Walter” Bilancia non è vissuto al tempo di Dante e non sappiamo se la sua anima sia intrappolata in una prigione di castigo eterno. Sappiamo, tuttavia, che il suo nome, qui sulla Terra, sarà per sempre legato alla damnatio memoriae: i suoi crimini, inchiodati alla cronaca e alla storia, perpetueranno la sua fama immonda di “mostro” e inibiranno il perdono, la pietà e la compassione terrena.

BILANCIA SEGRETO

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Ma chi era Donato Bilancia? Una misera persona che ha fatto un macello, secondo Filippo Ricciarelli, il carabiniere che coordinò la sua cattura. Altri particolari che delineano il suo profilo emergono dalla moltitudine di persone che lo hanno incrociato nel corso della vita. Per quasi tutti era la classica “legera” un termine genovese per indicare lo sfaccendato che tira avanti con espedienti che sconfinano spesso nell’illegalità. Nel suo curriculum compare una sola attività presentabile, quella di commerciante, grazie a un negozio di biancheria intima aperto per un breve periodo in Piazza Marsala, nel centro di Genova; alcune commesse e diverse clienti, costrette a subire pesanti avances e in qualche caso abusi sessuali, non conserveranno, di quell’esperienza, un buon ricordo. Donato Bilancia nasce a Potenza, ma è genovese di adozione. Colleziona furti, donne vistose e guai con la giustizia. Lasciata la scuola senza riuscire a passare la terza media, entra presto in contatto con ambienti criminali e si dedica ai furti: nel 1972 viene arrestato per aver rubato un camion carico di panettoni (che cerca improvvidamente di rivendere davanti a un supermercato) e ancora nel 1974 a Como per porto abusivo d’arma da fuoco, nel 1978 in Francia per rapina e nel 1981 per un tentato sequestro nell’entroterra di Genova. E’ un guascone. Nel corso della sua vita diventa ludopatico: ai tavoli da gioco vince molto (arriva ad accumulare 1 miliardo di lire in contanti) e perde tanto: in alcuni periodi è assediato dai debiti, tanto che tra il 1996 e il 1997 – il biennio più nero – è costretto a trasferirsi in un modesto sottoscala. Chiede spesso soldi in prestito e sempre li restituisce. Sa essere elegante e cortese, ma anche maleducato e triviale. E’ fondamentalmente un uomo solo, incapace di instaurare legami profondi. E’ misogino: va sempre a caccia di donne, ma non le ama, anche perchè non riesce a soddisfarle sessualmente. Nella sua fase di killer seriale ne ucciderà otto e tenterà di ammazzarne altre due. 

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Bilancia è anche un incallito puttaniere, insegue i vizi, non si pone limiti e si nutre di perversioni oscene. Due episodi su tutti: durante un soggiorno in Polonia assiste, per caso, alle prove di un balletto nel teatro di un casinò. Osserva le acrobatiche evoluzioni delle ballerine di danza classica e ne rimane folgorato. Tornato in albergo distribuisce mance da capogiro al personale della reception per garantirsi la compagnìa di una ballerina disposta a prostituirsi. Viene accontentato: nella sua camera si presenta una ragazza che – parole sue – “inizia una danza esibendosi in vertiginose spaccate…“. Latitudini diverse, stesso copione. In un quartiere poverissimo della periferia di Caracas, prova un’attrazione irresistibile per una donna non particolarmente bella che sta allattando il suo bambino in pubblico. Il bambino attaccato al seno. Quella provocazione erotica sovrastata dalla funzione nobile della maternità alimenta in lui il desiderio perverso. Attraverso un intermediario le offre una somma di denaro per una prestazione sessuale. La trattativa è breve e la donna accetta. E’ il lato oscuro del killer tracciato dallo psichiatra Vittorino Andreoli.

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E’ lo stesso Bilancia che si racconta. Si scopre, così, che la sua infanzia è segnata negativamente dalla figura del padre (“l’ho sempre considerato una cacca” confiderà più volte). Durante le vacanze estive in Lucania, l’uomo costringe l’allora bambino Donato ad abbassarsi gli slip davanti alle cuginette. I sorrisi ironici delle ragazzine lo offendono, si rende conto che quel divertimento è provocato dalle misure ridottissime dei suoi organi genitali. Soffre anche di enuresi notturna, bagna il letto di pipì fino all’adolescenza e patisce le pene dell’inferno quando i genitori espongono sul balcone di casa il materasso bagnato. Traumi pesanti che nel corso dell’adolescenza si accompagnano a un altro problema fisico: l’atrofia delle gambe. Al mare, Donato, prova vergogna, così cerca di immergersi in acqua il più possibile per nascondere quel difetto; quando invece si sdraia sull’arenile posiziona grossi sassi sotto le cosce e i polpacci per far sembrare le gambe più toniche. Il nome Donato, poi, lo fa infuriare, lo trova orribile. Mette una pezza assumendo il soprannome di marca anglosassone Walter con il quale sarà conosciuto da tutti. E’ il Bilancia segreto, devastato dai complessi, dalle nevrosi, dai traumi angoscianti. La vita gli riserva altre batoste. Nel novembre del 1972 è vittima di un terribile incidente stradale mentre è al volante di un’autobotte. Finisce in rianimazione, ma si riprende. E’ il 1987 quando nella stazione di Genova Pegli, il fratello Michele – tradito dalla moglie – si suicida gettandosi sotto un treno con in braccio il figlioletto Davide di appena 4 anni (l’odio di Bilancia per le donne si rafforza probabilmente dopo quell’episodio). Nel 1990 è a bordo di un’auto guidata da un’amica; la donna esce di strada e si schianta contro un palo. Lei rimane illesa, lui finisce massacrato in ospedale. Qualche anno dopo si trasforma in serial killer, ma questa è la storia dei prossimi capitoli…

DONATO BILANCIA

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Se si escludono i killer della mafia e i bombaroli delle stragi, Donato Bilancia – per numero di vittime e modalità efferate degli omicidi commessi – è considerato il più feroce serial killer italiano. Tra il 1997 e il 1998, in Liguria e nel basso Piemonte, uccide 17 persone, per rendere l’idea, lo stesso numero di morti provocati – il 12 dicembre 1969 – dalla bomba piazzata nell’atrio della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, nel cuore di Milano, la madre di tutte le stragi, il primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra, l’attentato che ha dato il via alla strategia della tensione. Bilancia predatore onnivoro, personificazione della banalità del Male. Tra i 47 e i 48 anni, all’apice della sua carriera di ladro e giocatore d’azzardo compulsivo, la sua unica ragione di vita è stata quella di generare morte, dispensare dolore, seminare terrore. Bilancia ha ucciso per rivalsa, per rapina, per odio, per vendetta o per il solo gusto di uccidere, spesso senza neppure l’ombra di un movente. Ha ucciso perchè ha trovato facile farlo. Delle sue 17 vittime ne conosceva solo 3. Nella sua rete sono caduti tre metronotte, due compagni di bisca e la moglie di uno di loro, una coppia di orefici, due donne scelte a caso sui treni, un benzinaio, due cambiavalute e quattro prostitute.

Mi sedevo sul divano alla sera, mi mettevo il cappello in testa, mi scattava qualcosa, uscivo e andavo a uccidere

Azioni criminali casuali e disordinate. Bilancia è un camaleonte, cambia sempre schema, uccide senza una logica apparente, confonde. Per settimane la Squadra Mobile di Genova, titolare delle indagini sui primi delitti, segue una pista diversa per ogni omicidio. Non esistono correlazioni tra luoghi, ambienti e storie individuali delle vittime. L’unico filo rosso che sembra collegare un omicidio all’altro è rappresentato da due fattori: l’arma, una Smith&Wesson calibro 38, e una ritualità ricorrente: l’assassino, prima di premere il grilletto per il colpo di grazia, copre la testa delle vittime con un indumento. Alcuni omicidi sono vere e proprie esecuzioni, ma sembra comunque impossibile che a colpire sia sempre la stessa mano. Si arriva addirittura ad ipotizzare l’azione congiunta di un killer dei treni che emula un killer delle prostitute, mentre per i delitti dei metronotte e dei cambiavalute si materializza lo spettro di una banda albanese o di una nuova organizzazione criminale sul modello della famigerata Uno bianca. Appaiono invece più chiari i collegamenti tra gli omicidi delle due coppie, gli sposini e gli orefici, ma si indaga (col senno di poi, sbagliando) su malavita, mondo dei ricettatori e clan mafiosi attivi nel business dei videopoker. Nessuno, insomma, crede a un serial killer nostrano, malgrado l’Italia figuri ai primi posti per numero di omicidi seriali nel mondo. Per gli investigatori è un puzzle incomprensibile.

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Qualcosa di inaspettato, tuttavia, getta nuova luce sulle indagini. Bilancia, infatti, inizia a commettere i primi errori, tradito dalla sua spocchia o dal desiderio inconscio di farsi catturare. Le prime informazioni utili fioriscono il 20 marzo 1998. Bilancia ha appena ucciso e rapinato il cambiavalute Enzo Gorni, 46 anni, padre di due bambine. E’ il suo decimo omicidio, ma nessuno ancora lo immagina. Tuttavia, per la prima volta, appare un testimone-chiave: è il cognato della vittima che a pochi metri dal negozio assiste terrorizzato al delitto e vede l’assassino. Descrive un uomo di mezza età, corporatura media, capelli brizzolati che dopo aver ucciso a freddo, sale a bordo di una Mercedes nera. E’ il primo forte indizio da cui partire. Il killer, quel killer, non è più un’ombra.

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Sempre in quei giorni un certo Pino Monello, perseguitato dalle multe per pedaggi non pagati in autostrada, riferisce alla polizia che alcune settimane prima aveva venduto la sua auto, una Mercedes nera, senza redigere alcun passaggio di proprietà. L’acquirente è un suo amico al momento irreperibile. Ovviamente ne comunica le generalità: si chiama Donato Bilancia. E’ lui, spiega Monello, che non paga i pedaggi, accodandosi probabilmente alle auto che lo precedono al casello. E’ un’informazione preziosissima che tuttavia non verrà incrociata subito. Si scoprirà, solo più avanti, che le multe corrispondevano ai luoghi in prossimità dei quali erano stati commessi alcuni omicidi. La svolta decisiva arriva il 24 marzo 1998. A Novi Ligure, nel viale di villa “Minerva” in località Barbellotta, vengono uccisi due metronotte, Candido Randò e Massimiliano Gualillo, ma anche questa volta c’è un supertestimone oculare che per puro miracolo sfiora la morte, scampa alla mattanza e vede tutto: si chiama John Zambrano Castro, alias Lorena, ed è un transessuale venezuelano di 28 anni che si era appartato proprio con il killer a bordo di una Mercedes nera.

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Sconvolta, seminuda e ferita da colpi di arma da fuoco, Lorena, pietrificata dal terrore, attende che il killer si allontani, poi chiama i soccorsi con la radiolina di uno dei metronotte uccisi. All’inizio non viene creduta, dalla centrale pensano a uno scherzo. Eppure quelle urla ripetute trasmettono una disperazione autentica e potente. Si comprende, purtroppo, che alla Barbellotta è accaduto qualcosa di terrificante. Alle due di notte, finalmente arrivano i carabinieri e i colleghi delle due povere vittime. La scena che si presenta ai loro occhi è quella di un massacro. Lorena, la sopravvissuta, racconta agli investigatori che il cliente, un uomo di mezza età, ha sparato a tutti: ai due metronotte che erano intervenuti per un controllo all’interno della proprietà privata, e a lei, scomoda testimone, che raggiunta dai proiettili si è aggrappata all’unica possibilità di salvezza: fingersi morta. Il viado Lorena – sotto protezione – rimarrà in ospedale 40 giorni, segnata per sempre dall’atroce esperienza; la sua descrizione consentirà, però, di tracciare l’identikit dell’assassino (foto sotto) che riconoscerà senza la minima esitazione anche dopo l’arresto, durante un drammatico confronto all’americana nel carcere di Alessandria. A John Zambrano Castro, alias Lorena, l’Italia deve dire grazie.

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E se Bilancia verrà arrestato lo si deve anche alla testmonianza di un’altra vittima designata, Luisa Ciminiello, una escort scampata alla morte il 3 aprile 1998, a Sanremo. Bilancia, pistola in pugno, è sul punto di ucciderla, ma si blocca e rinuncia, colpito dalle parole della donna che in lacrime gli mostra la foto di un bambino: è il suo nipotino, ma in realtà – nel disperato tentativo di impietosire il più possibile l’aggressore – racconta una bugia, una bugia che le salverà la vita: gli dice che è una mamma e che quel bimbo della foto è suo figlio.

“Che cosa vuoi fare? Perchè mi vuoi fare del male? Ho un bambino, un bambino piccolo”

“Non ce l’ho fatta e me ne sono andato – racconterà Bilancia ai Carabinieri dopo l’arresto. Ha avuto solo un minuto per potermi parlare e per farmi presente una storia che mi ha fatto smontare, mi ha fatto rientrare nella realtà. Di solito se io parto per fare una cosa la faccio, non mi può fermare nulla. Invece con quella storia, quella donna mi ha fulminato e sono rimasto lì come un deficiente”.

Il cerchio si stringe, ma Bilancia cambia ancora i suoi piani e si trasforma nel killer dei treni. Nel mese di aprile del 1998 l’opinione pubblica è scossa dagli omicidi abominevoli di due giovani donne: Elisabetta Zoppetti e Maria Angela Rubino. L’Italia precipita nella psicosi. Le autorità invitano le giovani donne a servirsi del treno solo in caso di necessità. La Polfer moltiplica la sorveglianza. Adesso, solo adesso, dopo i delitti dei treni, si parla apertamente di serial killer. A parlare è la pistola P38, firma di tutti gli omicidi commessi tra Liguria e basso Piemonte.

 I DELITTI DEI TRENI

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Pasqua 1998. E’ il 12 aprile. Elisabetta Zoppetti è a bordo dell’intercity La Spezia – Venezia con un biglietto di prima classe regalatole dal marito. Ha 33 anni, è sposata e madre di una bambina di 4. Ha trascorso qualche giorno di vacanza a Lavagna con la famiglia e sta rientrando a Milano per riprendere il lavoro di infermiera presso l’Istituto Tumori. Sono le tre del pomeriggio ed Elisabetta si alza per andare nella toilette. Bilancia la segue. Il treno arriva a Verona, fine corsa. Alcuni passeggeri segnalano ai controllori un bagaglio lasciato incustodito. A chi appartiene? Scattano le ricerche. La porticina di una toilette è chiusa. I controllori la aprono e vengono investiti dall’immagine angosciante di un corpo rannicchiato. Si pensa ad un malore, ma Elisabetta Zoppetti – così recitano i documenti – è stata colpita da un colpo di pistola alla nuca, dopo che l’assassino le ha coperto la testa con una giacca.

18 aprile 1998: sono le 22 e 40 quando due addetti alle pulizie della stazione di Ventimiglia aprono la toilette della seconda carrozza di prima classe. Il treno regionale proveniente da Genova è arrivato da pochi minuti. A terra, senza vita, c’è una giovane donna, i capelli biondi, una chiazza di sangue. I primi rilievi della Scientifica accertano che Maria Angela Rubino è stata uccisa da un colpo di pistola calibro 38. E’ l’orribile fotocopia dell’omicidio commesso sei giorni prima, ma questa volta c’è un particolare in più: l’assassino ha compiuto un atto oltraggioso e ripugnante che, tuttavia, permetterà agli investigatori di isolare il suo DNA. Maria Angela aveva 32 anni. Quella maledetta sera tornava da Albenga dove si era recata per la morte di un parente. Era fidanzata con un poliziotto e lavorava come colf in Riviera e nella vicina Costa Azzurra.

L’ARRESTO

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La Mercedes nera, le testimonianze oculari di Lorena e Luisa, i dettagli importanti riferiti da alcune amiche delle quattro “lucciole” uccise, le pallottole Lapua Patria del revolver P38 (una Smith&Wesson, si saprà in seguito, che Bilancia acquistò da un giocatore rimasto a secco di soldi al casinò di Sanremo), più persone che parlano di un uomo di mezza età, brizzolato, avvistato nei pressi dei luoghi di alcuni delitti. Incrociando questi elementi i Carabinieri del nucleo operativo di Genova guidati da Filippo Ricciarelli e il Ris di Parma (il reparto di analisi scientifica diventato famoso proprio per quell’indagine-capolavoro)  arrivano all’identificazione e alla cattura del killer.

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Per settimane vengono controllate tutte le Mercedes di colore nero, iniziano i pedinamenti nei confronti di quell’uomo sempre solitario così somigliante all’identikit fornito da Lorena, poi l’intuizione “da film” che segna la svolta: la tazzina del caffè, appena consumato dal sospettato in un bar, viene prelevata da un carabiniere per ricavarne il DNA da confrontare con quello trovato sulla scena del delitto di Maria Angela Rubino. E’ il momento decisivo. Mentre un gruppo di carabinieri in borghese non perde mai di vista il presunto “mostro”, dai laboratori di Parma arriva la notizia tanto sperata: i DNA coincidono. Il serial killer è Donato Bilancia. Il 6 maggio 1998 scatta la trappola. Davanti all’ospedale genovese di San Martino, dove si era recato per sottoporsi ad una radiografia ai polmoni (accanito fumatore, soffriva d’asma), Bilancia viene bloccato mentre sta per montare sulla sua Vespa. E’ la fine di un incubo durato sei mesi.

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Il processo lungo e drammatico viene celebrato in un’aula bunker del Tribunale di Genova. Bilancia non si presenta a nessuna udienza “per non incrociare – spiega – gli sguardi dei familiari delle vittime“, ma dalla sua cella segue in tv ogni fase del dibattimento, sintonizzato sulle dirette di Primocanale, emittente privata genovese. Il 12 aprile 2000 la pronuncia della sentenza: 13 ergastoli per 17 omicidi, 28 anni per tentato omicidio, rapina, porto d’armi abusivo più 6 anni per vilipendio di cadavere. Pena poi confermata in Corte d’appello e in Corte di Cassazione. Bilancia conclude, così, la sua esistenza in galera dove cerca visibilità e a volte la ottiene. Famose le sue interviste televisive con Ilaria Cavo e Paolo Bonolis.

CONFESSIONI

Le confessioni del serial killer sono narrazioni di agghiacciante freddezza. Nessun pentimento, nessuna pietà per le vittime. 

IL PRIMO OMICIDIO DEI TRENI

Quella mattina mi sono alzato dal letto e sono andato in stazione per prendere visione di una donna sul treno e ucciderla. Ho preso il treno a Genova, il pendolino che andava a Venezia. In uno scompartimento c’era una donna che io chiaramente non avevo mai visto. Sono rimasto in piedi, in fondo al corridoio. Ho aspettato che lei si recasse in bagno e allora ho aperto la porta con una chiave falsa, una normalissima chiave a quattro. Questa ha iniziato a urlare, io le ho messo la giacca sulla testa e le ho sparato. L’unica cosa che le ho preso è il biglietto, perchè spuntava dalla sua borsa e io non ce l’avevo, avendo preso il treno così, senza niente. Il fatto è accaduto tra Serravalle e Tortona, dove pensavo che quel treno fermasse e invece non ferma. Quindi sono rimasto una ventina di minuti con la signora in bagno. Non l’ho toccata dal punto di vista sessuale. A Voghera sono sceso e ho aspettato un altro treno che andava a Genova. Ho strappato il biglietto e l’ho buttato via.

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IL SECONDO OMICIDIO DEI TRENI

Sono montato sul treno a Sanremo. Io ero nel corridoio e ho visto la signora andare verso il bagno. Ho aspettato qualche minuto, poi sono entrato con la solita chiave. Ho preso la sua giacca (generalmente, quando una donna va in bagno, se ha una giacca se la leva e la lascia appesa da qualche parte), gliel’ho messa sulla testa e ho sparato. A questo punto Bilancia descrive un oltraggio raccapricciante, un vilipendio che abbiamo deciso di omettere. Il tutto è stato una cosa rapidissima, perchè sono montato sul treno a Sanremo e sono sceso a Bordighera. Come si è fermato il treno sono sceso dalla parte sbagliata e difatti sono finito sui binari. Allora, immediatamente, è arrivato uno dei controllori e mi ha detto qualcosa. Uscito dalla stazione, ho preso un taxi e ho chiesto al tassista se mi poteva portare fino a Sanremo, dove avevo la macchina.

IL DUBBIO

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Mai nessuno in Italia ha ucciso così tanto in così poco tempo. Ma Donato Bilancia ha sempre agito da solo? Nella prima lunghissima confessione dopo la cattura ha spiegato di sì. Tuttavia, per il duplice omicidio di Maurizio Parenti e della moglie Carla Scotto, passato alla cronaca come l’omicidio degli sposini o il massacro della Casa del Boia (il delitto avvenne nel palazzo attiguo alla lugubre casa del boia che eseguiva le pene capitali nella Repubblica di Genova), i dubbi rimangono e difficilmente si dissolveranno. Lo stesso Bilancia, nel corso degli anni, ha cambiato versione, insinuando a più riprese la presenza di complici sulla scena del crimine. Dalla sua bocca, tuttavia, non è mai uscito un nome. E’ opportuno, a questo punto, ripercorrere quei primi delitti. Donato Bilancia inizia ad uccidere per vendetta. Il suo odio è rivolto soprattutto contro Giorgio Centanaro e Maurizio Parenti, due compari di gioco d’azzardo che in modo poco limpido, a suo dire, gli avevano svuotato il conto in una bisca clandestina di Bogliasco, località del Golfo Paradiso, vicino a Genova. Quattrocento milioni delle vecchie lire persi in un baleno. Bilancia è convinto di aver subìto uno sgarro. Per Giorgio Centanaro, incrociato mille volte al tavolo verde, nutre da tempo un’avversione viscerale; al contrario considera Maurizio Parenti un amico fraterno e quindi vive la sua combutta con l’odiato Giorgio come un tradimento insanabile. Per lui sono il “gatto” e la “volpe” e decide di eliminarli. Il 14 ottobre 1997 va a trovare Giorgio Centanaro, ma chiaramente non è una visita di cortesia. E’ lo stesso Bilancia a raccontare: 

Quando ha acceso la luce all’interno dell’appartamento, sul suo viso non c’era più quella smorfia di sfida che aveva quasi sempre. Mi sono chiuso la porta alle spalle. L’ho fatto spogliare in maniera che rimanesse solo in mutande e canottiera. Io gli avrei anche sparato, ma se lo uccidevo con la pistola succedeva un casino, perchè lui abitava in una mansarda e per il rumore sarebbe successo un macello. Quindi l’ho legato come un salame dalla testa ai piedi con del nastro adesivo che avevo portato con me. E poi col nastro ho coperto anche la bocca e il naso. Gli ho messo una mano sulla bocca e con l’altra gli ho chiuso il naso, in modo che non potesse respirare. L’ho fatto soffrire molto, perchè più volte ho simulato il soffocamento. Intanto gli spiegavo perchè lo stavo facendo. Ho ultimato il soffocamento sentendo la sua vita fuggire con un’ultima tensione del corpo. Poi gli ho levato tutto il nastro e sono andato via. L’ho lasciato con le mani rivolte al soffitto. Prima di andarmene, gli ho dato un colpo nei testicoli per rendermi conto che fosse realmente morto, e mi sono accorto che si era urinato addosso.

La morte di Giorgio Centanaro viene archiviata come decesso per cause naturali. Sarà lo stesso Bilancia, dopo l’arresto, a “rivendicare” l’omicidio. Dopo otto giorni è la volta di Maurizio Parenti, rappresentante e installatore di videopoker, e della moglie Carla, commessa in un negozio di abbigliamento. E’ sicuramente l’omicidio più controverso. La coppia era appena tornata dal viaggio di nozze (foto sotto).

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Maurizio Parenti era giovane, atletico, alto quasi due metri, molto sveglio. Difficile pensare – come hanno sempre sostenuto i suoi familiari – che non abbia reagito di fronte a un uomo come Bilancia, per età e fisico, indubbiamente più fragile. Eppure il killer, dopo l’arresto, confessa freddamente di aver fatto tutto da solo: 

Siamo entrati nel portone insieme e a quel punto ho spianato la pistola e ho detto: “Non fare casino, perchè altrimenti mi costringi a farti del male”. Gli ho messo le manette e gli ho detto: “Guarda che su in casa ci sono dei miei amici che se sentono partire un colpo fanno del male a tua moglie”. Non era vero niente. L’ho imbavagliato con un giro di nastro perchè non gridasse. Siamo saliti con l’ascensore all’ultimo piano, mi sono fatto dire dove teneva le chiavi e ho aperto. Appena sono entrato ho visto che in camera c’era la moglie che dormiva. L’ho portato in cucina e l’ho fatto sedere vicino alla finestra rinforzandogli il giro del nastro. Gli ho detto: “Dimmi dov’è il denaro” e lui ha risposto: “Di sopra, nella cassaforte”. Intanto la moglie si è svegliata ed è venuta in cucina. Quando ha capito che cosa stava succedendo è tornata in camera da letto. Io l’ho seguita e lì le ho passato due giri di nastro perchè fosse impedita nei movimenti. Allora io e il Parenti siamo saliti di sopra. Poi sono tornato giù a prendere anche lei, perchè lui era preoccupato, la voleva vicino. Allora gliel’ho portata su. Li ho fatti sedere, e mi sono fatto dare la combinazione. Ho aperto la cassaforte. Ho tirato fuori una scatoletta rosa e dentro c’erano degli orologi, del denaro in contanti, esattamente 13 milioni e 500mila lire, e degli assegni. Il furto è stata solo un’operazione per fuorviare le indagini. A questo punto siamo scesi tutti e tre di sotto. In camera li ho fatti sistemare sul letto, gli ho levato il nastro, quindi mi sono messo a passeggiare e gli ho spiegato perchè stava succedendo tutta questa storia. Lui si deve essere reso conto che stava per arrivare il suo momento, perchè ha incominciato ad agitarsi, allora gli ho dato qualche botta nella mascella con il calcio della pistola. La moglie era terrorizzata, non capiva che cosa stava succedendo. Lui, intanto, le si era avvicinato appoggiandole la testa sulla pancia. A quel punto gli ho coperto la testa con il copriletto e gli ho sparato. Dopo il primo colpo ho sentito che si lamentava e allora gliene ho tirato un altro perchè ho pensato che stesse soffrendo. Dopodichè ho sparato nel petto alla donna. Ho preso la borsa con dentro la scatolina e me ne sono andato. Alla fine mi sono disfatto di tutto, ma il denaro l’ho tenuto.

E’ credibile questo orrendo racconto? Secondo gli accertamenti investigativi e le risultanze processuali sì. Luca Parenti, nipote della vittima, all’epoca del fatto, aveva 12 anni. Oggi dice: “L’unica cosa che avrebbe dovuto fare Bilancia sarebbe stata quella di dire la verità, se avesse voluto provare a pulirsi un po’ la coscienza. Invece i nomi dei suoi complici non li ha mai fatti. E si è portato nella tomba quei segreti“.

I MIEI RICORDI

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Ho seguito da giornalista l’intera vicenda criminale di Donato Bilancia. Di seguito i frammenti che non dimenticherò mai: lo strazio muto dei parenti delle vittime durante il processo; il pianto collettivo delle donne nigeriane al funerale di Tessy Adodo; l’impegno civile del Pubblico Ministero Enrico Zucca (si occuperà anche dello sciagurato G8 del 2001); lo sgomento dopo gli omicidi sui treni; il volto di Elisabetta Zoppetti giovane mamma strappata alla figlia; il luogo sfigurato dal sangue di Ljudmyla Zuskova, ucraina, appena assassinata sulle alture di Pietra Ligure; le agghiaccianti testimonianze, al processo, di Lorena Castro e Luisa Ciminiello scampate alla ferocia di Bilancia e decisive per la sua cattura; il malessere di un poliziotto dopo il sopralluogo sulla scena del duplice omicidio degli sposini.

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Infine un aneddoto a margine del processo. Notai tra il pubblico, confusa tra i familiari delle vittime, una ragazza intenta a prendere appunti. Non mancava mai alle udienze. Si sedeva in fondo all’aula bunker e trascriveva i passaggi cruciali del drammatico dibattimento. Incuriosito mi avvicinai per chiederle il motivo di quell’interesse. Lei mi spiegò che era una studiosa di criminologia e per questo voleva analizzare il caso Bilancia, capire la storia del serial killer. Aggiunse che era di Finale Ligure. La intervistai perchè ritenevo che fosse una storia interessante. Alla fine le chiesi il nome per inserirlo nel pezzo. “Mi chiamo Roberta Bruzzone“, mi disse. Diventerà, come noto, la più nota criminologa e psicologa forense italiana. 

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Donato Bilancia è stato stroncato dal Covid il 17 dicembre 2020. Aveva 69 anni. Prima di morire si è rivolto al cappellano del carcere di Padova dove stava scontando i 13 ergastoli e ha pronunciato le sue ultime parole:

Andrò all’inferno, ma chiederò a Dio un attimo per chiedere scusa alle vittime.

di Fabio Tiraboschi & Patrice MersaultGenoa News Chronicle / Io, reporter