G8 2001, IL MALE ITALIANO

TRATTO DALLA GRANDE STORIA – IL G8 DI GENOVA, LA RICERCA DELLA VERITA’

Su quello che è successo a Genova, durante il vertice del G8, tra il 18 e il 22 luglio 2001, esistono migliaia di fotografie, centinaia di ore di riprese e registrazioni audio. Violenze dei black bloc, cariche e violenze della Polizia; la morte di Carlo Giuliani durante gli scontri in Piazza Alimonda e infine l’irruzione della Polizia nella scuola Diaz, in piena notte, e le torture sugli arrestati nella caserma di Bolzaneto. Qualcosa di impensabile in democrazia, per cui la Corte europea dei Diritti dell’Uomo condannerà l’Italia per le torture inflitte a centinaia di cittadini. Ma non dobbiamo credere che la ricerca della verità sia stata facile, anzi. La ricostruzione dei fatti è costata fatica e sacrifici: alcuni testimoni hanno perso il lavoro, i giudici hanno subìto attacchi e i vertici della Polizia sono stati condannati per falso. La Corte europea dice anche che “la Polizia italiana si è impunemente rifiutata di collaborare con la Magistratura, un comportamento eversivo rispetto ai compiti della Polizia, che ha impedito l’accertamento delle responsabilità”. Parole durissime. In effetti, dopo vent’anni da quegli atroci misfatti, abbiamo una ricostruzione giudiziaria solo di alcuni episodi. Su molte vicende non si è indagato, su altre sì. E grazie al lavoro della magistratura abbiamo la ricostruzione dell’accaduto e delle condanne penali proprio degli episodi meno documentati dalle riprese video, cioè dei pestaggi alla scuola Diaz e delle torture nella caserma di Bolzaneto.

Come puntualizzato da Amnesty International a Genova si verificò la più grave violazione dei diritti umani in una democrazia occidentale dal dopoguerra. Intendiamoci, il G8 non rappresenta l’unica ed estesa violazione commessa dalle nostre forze dell’ordine. Purtroppo non si tratta di un fatto isolato. Limitandoci al solo dopoguerra, prima, ma anche dopo il G8, le nostre forze dell’ordine hanno applicato metodi illegali e brutali: dalle torture inflitte a uomini e donne delle Brigate Rosse, fino alle uccisioni violente di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi o al diluvio di violenze scoperte nel 2021 all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, tanto per citare i casi più noti. Scorie da ventennio fascista che ancora oggi inquinano ambienti militari e polizieschi refrattari, purtroppo, a riforme profonde e radicali.  

Per manifestare a Genova, i movimenti critici contro globalizzazione, modelli di mercato e neo-liberismo, si riuniscono nel Genoa Social Forum. E’ una rete di quasi 1200 sigle tra cui sindacati, partiti, associazioni, centri sociali e ONG italiane ed estere; tutte di diverse ideologie e di diversa ispirazione: si vai dai cattolici del movimento Pax Christi fino ai ragazzi del Centro Sociale Leoncavallo, e poi l’Arci, i giovani di Rifondazione Comunista, Legambiente, il WWF. Ci sono anche i movimenti della rete Lilliput ispirati a padre Alex Zanotelli. Genova si annuncia come un evento epocale. Arriveranno manifestanti da tutta Europa, la più grande protesta di massa contro la globalizzazione e il vertice del G8 che la rappresenta. Ma con l’avvicinarsi dell’evento cresce anche la tensione e la preoccupazione per l’ordine pubblico. Infatti, accanto ai manifestanti pacifici, esiste una frangia di violenti esterni al Genoa Social Forum: il temuto Black bloc.

I vestiti di colore nero sono la loro divisa, ma sarebbe sbagliato pensare ai black bloc tedeschi, danesi, turchi, americani o italiani, come a un movimento vero e proprio. Si tratta, piuttosto, di una forma estrema di protesta. A partire dal 1999, a Seattle, i no-global manifestano contro le varie riunioni e conferenze del G8, WTO e Fondo Monetario Internazionale; le frange estreme si scontrano aspramente contro la Polizia. Il 15 giugno, a Goteborg, in Svezia, durante la riunione del Consiglio Europeo, si fronteggiano la Polizia e i black bloc. A fine giornata 7 furgoni bruciati, 40 feriti, 600 arrestati e un ragazzo di 19 anni, gravemente ferito dai colpi di pistola di un poliziotto. Il timore di analoghi scontri induce la Banca Mondiale ad annullare la riunione prevista a Barcellona dal 25 al 27 giugno.

Mancano venti giorni al G8 di Genova, la preoccupazione aumenta. Arrivano alla stampa numerose informative, rivelatesi poi false, che parlano di come si starebbero organizzando attacchi alla Polizia durante il summit. Girano voci di lanci di sangue infetto, di tentativi di rapimenti di poliziotti…la tensione è alle stelle. Ma non si tratta solo di voci. Il 16 luglio, di mattina, alla caserma dei carabinieri di Genova San Fruttuoso, viene recapitato un pacco-bomba che scoppia tra le mani di un carabiniere ferendolo gravemente al volto. Altre due bombe, che per fortuna non scoppiano, vengono rinvenute nei pressi dello Stadio Carlini, uno dei luoghi dove si accampano i manifestanti che intanto stanno arrivando. La Polizia si prepara e le Tute Bianche, i Disobbedienti, si allenano a resistere agli scontri con le forze dell’ordine. Si fanno riprendere mentre studiano protezioni per le cariche della Polizia, con caschi, imbottiture di gomma, scudi di plexiglass ed occhialini da piscina contro i lacrimogeni. Dei black bloc non si sa niente, i servizi segreti europei seguono l’evolversi della situazione.

INIZIA IL G8

Genova, 20 luglio 2001 – Black bloc / Foto ©R.PONTI – G.NERI

Genova è stata scelta come sede del G8 dal governo D’Alema. Poi, l’11 giugno, un mese prima del vertice, si insedia il secondo governo Berlusconi. Il centro di Genova viene distinto in tre zone concentriche: la rossa, inaccessibile, dove si terrà il summit, la zona gialla, vietata ai cortei, ma non ai semplici manifestanti e la zona bianca di libero accesso. Nella notte tra il 17 e il 18 luglio viene costruito un muro di otto chilometri composto da blocchi di cemento armato e massicce grate di tre metri. Trentamila genovesi sono isolati, si accede solo da 13 varchi grazie a speciali pass per i residenti. Il trasporto cittadino si ferma, cassonetti e tombini vengono sigillati, porto e aeroporto rimarranno chiusi con batterie di missili contro eventuali attacchi terroristici dal cielo, quasi una premonizione della fatale data dell’11 settembre a cui mancano solo due mesi. La città viene praticamente militarizzata. Molti genovesi decidono di chiudere casa e negozi e andarsene.

Quando le manifestazioni iniziano, mercoledì 18 luglio, sembra quasi di poter tirare un sospiro di sollievo. Il concerto di Manu Chao, a cui assistono più di ventimila spettatori, chiude una pacifica giornata di dibattiti ed eventi. Anche il giorno dopo, giovedì 19, filerà tutto liscio: il primo corteo sui migranti si tiene di pomeriggio e vede sfilare in allegria, tra musica e colori, cinquantamila persone. Venerdì 20 luglio, a Palazzo Ducale, all’ora di pranzo, arrivano i grandi della Terra; le delegazioni vengono ricevute dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Inizia il vertice.

Intanto, dall’altra parte, fuori dalla zona rossa, i manifestanti raggiungono pacificamente le piazze tematiche dove discutere di società, economia, lotta all’Aids, alla globalizzazione e alla povertà. Sembra che vada tutto bene sotto il sole di Genova, ma in realtà tutto sta per cambiare. In Piazza Novi un centinaio di black bloc iniziano a smontare i pali dei segnali stradali, le protezioni metalliche delle aiuole e le pietre del selciato per farne armi. I giornalisti riprendono tutto. C’è anche la Polizia, ma non interviene. A Piazza Trento si riunisce un altro gruppo di black bloc, sono almeno cinquecento: anarchici insurrezionalisti stranieri insieme ad estremisti italiani. Sul loro striscione c’è scritto “Smash” (distruggi). I loro obiettivi sono banche, agenzie di lavoro interinale, macchine in sosta. Devastano, incendiano, sfasciano.

Bersagliano le forze dell’ordine con pietre e bulloni. Sono rapidi e abili a svanire e ricomparire da un’altra parte. Assaltano il carcere di Marassi, poi si dirigono verso Piazza Manin. La catastrofe di Genova sta per iniziare. A Piazza Manin ci sono i manifestanti più tranquilli di tutti, la rete Lilliput. Quando la Polizia arriva i black bloc si sono già dileguati e ad essere oggetto delle cariche sono i pacifisti dalle mani dipinte di bianco. La Polizia carica, spara lacrimogeni, manganella, procede ad arresti. Ma il vero disastro di quel venerdì, la carica che darà inizio a quella che alcuni hanno opportunamente chiamato la battaglia di Genova, sarà l’episodio di via Tolemaide. Una compagnìa di Carabinieri che sta correndo a Piazza Giusti, dove i black bloc stanno devastando tutto, raggiunge l’incrocio tra Via Tolemaide e Corso Torino, proprio mentre sta arrivando il corteo autorizzato delle Tute Bianche.

I Carabinieri hanno davanti un gruppo, probabilmente di black bloc, che li bersagliano con pietre e poi scappano subito. Quella dei black bloc è sempre la stessa tattica, ma stavolta la situazione degenera. Di nuovo le forze dell’ordine sparano lacrimogeni e caricano; a farne le spese, sul lato sinistro di via Tolemaide, sono giornalisti ed operatori. Ma poi i Carabinieri si voltano a destra e caricano il corteo delle Tute Bianche. E’ una carica che il Tribunale riterrà illegale e arbitraria. Il corteo era stato autorizzato e i manifestanti non avevano commesso atti di violenza nei confronti dei Carabinieri. Secondo quanto stabilirà il Tribunale, oltre a sparare i lacrimogeni ad altezza d’uomo, i Carabinieri estraggono e usano anche manganelli fuori ordinanza, pezzi di legno o di ferro avvolti con lo scotch che causano ferite e lesioni gravi. La testa del corteo cerca di disperdersi: indietro non può andare, a destra neanche perchè ci sono i bastioni della ferrovia; l’unica è a sinistra dove c’è una ragnatela di strade: Via Casaregis, Via Montevideo, Piazza Alimonda.

Nelle strade laterali gli autisti dei blindati sembrano impazziti, lanciati ad alta velocità inseguono la folla anche sui marciapiedi. L’intenzione manifesta – chiariranno i giudici della Corte d’Appello – era quella di fare male. I dimostranti reagiscono: chi lancia sassi, chi blocca la strada con i cassonetti, chi arriva ad attaccare i blindati dei Carabinieri, tra cui uno che, isolato dagli altri, viene abbandonato da chi si trova a bordo e incendiato dai manifestanti.

immagini.quotidiano.net

Tra lacrimogeni e gas urticanti infuria la battaglia. Nel caos due jeep sono in mezzo all’avanzata dei Carabinieri. Arrivati in piazza Alimonda uno dei due defender rimane bloccato da un cassonetto dell’immondizia. Dentro – secondo le ricostruzioni ufficiali – ci sono tre carabinieri: uno di loro è un ragazzo di vent’anni, di nome Mario Placanica. Si è intossicato con i lacrimogeni e lo hanno caricato sulla jeep per farlo riprendere. Una cinquantina di manifestanti li attacca con un estintore e un asse di legno. Tra gli assalitori c’è un ragazzo di 23 anni, Carlo Giuliani. Partono due colpi, Carlo si accascia a terra.

Non c’è una verità processuale sulla morte di Carlo Giuliani. Il giudice per le indagini preliminari archivia il procedimento come caso di legittima difesa e uso legittimo delle armi. Non si arriverà al processo. Mario Placanica si assumerà la responsabilità di aver sparato, dichiarando di aver tirato in aria, ma alcuni aspetti non sono chiari. Sostengono molte fonti che qualcuno, per depistare le indagini, colpì la fronte del ragazzo morente con un sasso. Dubbi giganteschi anche sulle conclusioni del giudice relative alla traiettoria del proiettile che – secondo una perizia (aggiungiamo noi fantascientifica) – sarebbe stato sparato in aria per poi rimbalzare su un sasso lanciato da un assalitore prima di schizzare verso terra e colpire – uccidendolo – Carlo Giuliani. E’ l’improbabile teoria del rimpallo che lascia semplicemente attoniti.

BLACK BLOC IMPRENDIBILI. POLIZIA FEROCE CON I PACIFISTI

200 feriti, 121 negozi, bar, agenzie, automobili e banche danneggiate e un ragazzo ucciso. Ma il G8 non è ancora finito. Il giorno dopo è previsto il grande corteo internazionale del Genoa Social Forum che si riunisce in assemblea generale. Che fare dopo gli scontri, le cariche, la morte di Carlo Giuliani? Tenere o no il corteo? Giuliano Giuliani, il padre di Carlo, lancia un appello in televisione: “Che il corteo sia pacifico, senza violenze o rappresaglie”. Sono parole cariche di dolore e di dignità. Si decide di fare il corteo e il giorno dopo, dalle prime ore del mattino, cominciano ad arrivare altri manifestanti in città. Sono tanti, tantissimi, ci sono anche famiglie intere con bambini. Non ci sono i Carabinieri, considerati a rischio dopo quello che è successo il giorno prima. Il corteo è autorizzato e sembra svolgersi regolarmente. Poi, all’improvviso, succede di nuovo.

Davanti al corteo arrivano i black bloc a cui si aggiungono estremisti violenti, provocatori e teppisti da stadio, ragazzi col volto coperto armati di sassi e bastoni. Spaccano tutto quello che trovano, provocano le forze dell’ordine con lanci ripetuti di bottiglie, pietre, bulloni, pali di ferro.

Polizia e Guardia di Finanza caricano di nuovo, ma non caricano i black bloc che sono già scomparsi; caricano il corteo che si spezza in due. Una piccola parte riesce a proseguire per il centro della città dove ci sarà il comizio finale del Genoa Social Forum. Il resto, quasi duecentomila persone, rimane imbottigliato tra le cariche della Polizia, un bastione imponente a destra e a sinistra il mare. Di nuovo lacrimogeni, fermi, inseguimenti di manifestanti, intossicazioni da gas e tanto, tantissimo sangue.

In qualche modo il corteo riesce a indietreggiare e i manifestanti si disperdono nelle strade della città cercando di raggiungere la stazione o l’autostrada per fuggire da Genova.



Il G8 è finito e fin qui è la storia di una gestione dell’ordine pubblico completamente fallimentare con episodi gravissimi e la morte di un ragazzo, Carlo Giuliani. La più grave tragedia durante una manifestazione, dalla morte di Giorgiana Masi nel 1977. Ma quello che succede nelle celle di sicurezza di Bolzaneto e la notte di sabato alla scuola Diaz, trasporta i fatti di Genova a un livello di gravità mai raggiunto nel nostro Paese e getta ombre inquietanti sui metodi e comportamenti delle forze dell’ordine. Della notte della Diaz abbiamo solo alcune immagini della scuola dall’esterno, di Bolzaneto nulla, ma nonostante questo la Magistratura riuscirà a ricostruire i fatti e la conclusione sarà scioccante.

DIAZ, LA NOTTE DI SANGUE

Il Comune ha messo a disposizione del Genoa Social Forum la scuola Diaz in via Battisti, formata da due edifici: il Pascoli e il Pertini, uno di fronte all’altro. Nella Diaz-Pascoli c’è l’organizzazione del Genoa Social Forum con il team legale, l’ufficio stampa e Radio Gap. La Diaz-Pertini, invece, è stata adibita a luogo di soggiorno e pernottamento per i manifestanti. A mezzanotte alla Diaz arrivano circa 250 poliziotti per una perquisizione, seguiti da 250 carabinieri che circonderanno la zona. La prima persona che incontrano in strada è un giornalista inglese che si chiama Mark Covell. Finisce all’ospedale in coma con otto costole rotte, un polmone perforato, una mano fratturata e dieci denti in meno. Altre cinque, sei persone che si trovano in strada, tra cui un consigliere comunale, vengono manganellati, arrestati e fatti inginocchiare per terra. A mezzanotte in punto inizia la perquisizione.

Intanto dalla scuola Pascoli, di fronte, alcuni ragazzi stanno riprendendo la scena con telecamerine. Allora, un altro gruppo di agenti entra nella seconda scuola piena di avvocati e giornalisti, distrugge i computer, porta via gli hard disk, le cassette delle telecamere e interrompe la trasmissione in diretta di Radio Gap. Si salveranno solo pochi video, tra cui quello di un giornalista inglese nascosto dietro dietro i cassoni dell’acqua sul tetto della Pascoli. Due ore dopo, alle due di notte di domenica, le numerose troupe televisive accorse sul luogo assistono all’uscita degli arrestati dalla scuola Diaz-Pertini.

E’ una mattanza: sono tutti feriti, coperti di sangue fresco, doloranti per le manganellate subìte. Giovani sotto choc e visibilmente terrorizzati.

La mattina dopo alle 12 c’è la conferenza stampa della Polizia in Questura. La portavoce legge un comunicato imbarazzante che ad ogni riga è una negazione palese dell’evidenza. La Polizia dichiara che le ferite dei ragazzi erano pregresse e che un poliziotto ha subìto una coltellata nel momento dell’irruzione. Ai giornalisti, come prove dei reati, vengono mostrate due molotov, attrezzi da cantiere, telefonini e macchine fotografiche.

I giornalisti sono sbalorditi, chiedono chiarimenti, ma le domande non sono ammesse. In realtà i feriti della scuola Diaz sono 87 ragazzi, cinque in codice rosso, cioè in pericolo di vita, di cui due (il giornalista inglese e una studentessa tedesca di archeologia) arrivati in ospedale in coma. Le accuse ai fermati cadono subito. I presunti black bloc che avrebbero ingaggiato una battaglia con la Polizia, sono in realtà pacifici studenti e studentesse, soprattutto stranieri, il giornalista del Resto del Carlino Lorenzo Guadagnucci e incredibilmente anche un sessantaduenne a cui hanno rotto un braccio, una gamba e dieci costole. Alla storia delle ferite e fratture pregresse non crede nessuno, ma non sarà facile dimostrare la verità.

Il giornalista Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime del pestaggio, è uno dei primi a raccontare: 

“I poliziotti sono entrati correndo, urlando e immediatamente hanno cominciato a picchiare a colpi di manganelli e di calci le persone che si trovavano di fronte. Questi ragazzi, queste persone, avevano tutti le mani alzate, i più urlavano “No Violence!”. A un certo punto sono arrivati due agenti verso di me. La prima cosa che hanno fatto è dare un calcio in faccia a una ragazza americana che avevo al fianco e al suo fidanzato e mentre io cercavo di aiutarla per tirarsi su, due agenti si sono avventati su di me con i manganelli…quindi io mi sono dovuto riparare, ho alzato le braccia, ho alzato le ginocchia, e hanno iniziato a colpire a casaccio. Sono rimasto sotto questi colpi finchè hanno avuto la forza di colpire. Perdevo sangue, le braccia sembravano deformate perchè i colpi di questi manganelli ti formano dei bubboni, come palline da golf. Avevo una crosta perfettamente circolare sopra la spalla; evidentemente questo agente aveva un manganello elettrico che notoriamente non è tra gli strumenti di ordinanza della Polizia italiana. Finito il pestaggio è cominciata la parte peggiore perchè siamo rimasti per due ore in una condizione di terrore e di abbandono.

Nel frattempo gli agenti ci minacciavano, dicevano “Nessuno sa che siamo qui, possiamo fare di voi quello che vogliamo!”. I più lucidi di noi hanno pensato a un colpo di Stato, altri hanno pensato “Adesso ci ammazzano”. Io da queste manganellate ho riportato la scarnificazione delle braccia. Nel braccio destro si vedeva l’osso. Avevo le due braccia rotte e gli infermieri intervenuti all’interno della palestra mi ingessarono con alcuni cartoni trovati nella scuola, non avevano nemmeno l’attrezzatura per fare queste medicazioni d’urgenza. In più ho riportato la frattura dello scafoide e traumi all’addome e alla schiena. Soprattutto per i colpi all’addome mi trattennero in ospedale per il rischio di emorragie interne”.

Secondo i verbali della Polizia i 93 fermati sono accusati di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, porto d’armi da guerra e resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Le prove sono i picconi, le due molotov e la coltellata inferta a un poliziotto durante la perquisizione. Finalmente nel giugno del 2007, in Tribunale, cominciano ad esserci delle ammissioni da parte della Polizia.

dalla deposizione di Michelangelo Fournier, comandante VII nucleo di Polizia:

“Mi ero reso conto che le colluttazioni non erano tali, ma unilaterali e a senso unico. C’erano quattro, cinque poliziotti che stavano facendo quello che non doveva essere fatto, cioè stavano infierendo sui feriti. Poco più avanti mi sono imbattuto in una ragazza alta circa 1,80 con un corpo abbastanza mascolino, robusto, probabilmente nordica, che giaceva in una pozza di sangue, ma sangue veramente copioso. La cosa più allarmante che ho potuto verificare era che c’erano dei grumi, grumi che sul momento ho scambiato per materia cerebrale. Ero piuttosto spaventato se la devo dire tutta”.

Alla fine le sentenze confermano che nella scuola Diaz la Polizia aveva pestato i ragazzi che non avevano opposto resistenza, ma poichè gli agenti erano a volto coperto, non è stato possibile individuare i responsabili e non è possibile incriminare i singoli agenti. Non si è nemmeno certi di chi avesse partecipato alla perquisizione. Una volta ricostruite le modalità del blitz, rimane da indagare sulle armi e le molotov ritrovate nella scuola. Inoltre un occupante, secondo i verbali della Polizia, ha cercato di accoltellare al cuore un poliziotto. Davvero strano il racconto dell’accoltellamento: l’aggressore è stato subito immobilizzato, ma poi gli agenti non lo hanno identificato, non sanno dire chi fosse stato. Le versioni dell’accaduto cambiano nel tempo e, infine, una perizia dei RIS dei Carabinieri dimostra che la coltellata sul giubbotto è fasulla. Poi si scopre che i picconi sequestrati erano in realtà di un cantiere nel plesso scolastico. Ma è l’indagine sulle due molotov il passaggio chiave di tutto il processo. Dagli interrogatori i magistrati si convincono che le molotov non erano nella Diaz. Trovano anche delle riprese video (realizzate dall’emittente genovese Primocanale) in cui vari dirigenti di Polizia si passano una busta di plastica blu con le due bottiglie, ma non sanno dove sono state trovate. Come scoprire dove sono state prese le molotov senza la collaborazione della Polizia?

Il pm Enrico Zucca pensa di chiedere aiuto al collega che indaga sulle violenze dei dimostranti durante le manifestazioni. L’altro magistrato chiede allora alla Polizia un elenco dei sequestri effettuati durante gli scontri, e interrogando un agente gli mostra le foto delle molotov della Diaz che vengono riconosciute; sono state trovate il pomeriggio in un’aiuola in Corso Italia. Secondo i giudici le molotov sono state trasportate all’interno della scuola per dimostrare la pericolosità degli occupanti. Negli anni successivi il processo presenta una lunga lista di colpi di scena. Le molotov al momento di essere portate in Tribunale non si troveranno più e, addirittura, si aprirà un processo parallelo contro il capo della Polizia Gianni De Gennaro: accusato di induzione alla falsa testimonianza dell’ex Questore di Genova, sarà poi assolto in Cassazione. I vari processi, come dimostrano le numerose intercettazioni telefoniche, avverranno in un clima di ostilità verso i magistrati.

GLI ORRORI DI BOLZANETO

Purtroppo per i ragazzi martoriati alla Diaz la nottata non è finita. Infatti, i feriti meno gravi, dopo essere stati medicati in ospedale, vengono arrestati e portati nella caserma di Bolzaneto. La caserma, insieme al Forte San Giuliano, è stata adibita a centro per l’identificazione e carcere temporaneo per i fermati del G8. Di Bolzaneto non abbiamo nessuna immagine, non c’erano telecamere e le denunce dei circa 280 arrestati, principalmente stranieri, si infrangono contro la negazione dei fatti da parte delle forze dell’ordine.

Ma questa volta l’omertà viene rotta da due infermieri penitenziari di Bolzaneto, Ivano Pratissoli e Marco Poggi. Un mese dopo i fatti decidono di testimoniare che cosa hanno visto. Quello che accade a Bolzaneto ha un nome: TORTURA. All’arrivo i fermati vengono fatti passare tra due ali di agenti che li colpiscono ripetutamente e poi piercing strappati a forza, spray urticanti spruzzati sopra la pelle nuda, gas lacrimogeni lanciati senza motivo nelle celle, calci, percosse, minacce continue di sevizie e di morte e l’elenco potrebbe continuare a lungo con una raccapricciante varietà di crudeltà e sadismo. E i responsabili, i colpevoli, non sono solo i poliziotti, tra loro ci sono anche dei medici.

La testimonianza è di Marco Poggi:

“Non si può accettare la violenza gratuita per il gusto di far del male, per il gusto di punire…No, bisogna fare qualcosa, bisogna denunciare. I fermati venivano accolti con botte, dileggio, il telefonino con le note di “Faccetta Nera”, gli insulti urlati “Uno, due, tre, te lo dò io Pinochet!”, “Zecche Comuniste!”. E lì cominciò l’atroce costrizione nella posizione del cigno che consisteva nel tenere le braccia alte contro il muro, la testa contro il muro, il corpo piegato all’indietro. In questa posizione gli arrestati sono stati tenuti per ore, ore…cioè intendo oltre 14, 15 ore bloccati in quella posizione. E se chiedevano di andare in bagno prendevano delle botte. Molti hanno fatto i loro bisogni corporali lì, pensate l’umiliazione…

C’era una ragazza nuda…nuda…ed eravamo quasi tutti uomini, questa ragazza aveva un piercing nel clitoride, e loro sghignazzavano. Poi ho visto il dottore che stava andando verso di lei, perchè quando uno viene arrestato non può avere piercing o certe cose…Allora per prevenire l’intervento del dottore, e adesso vi spiego il perchè, ho preso le pinze che i medici usano per suturare, le ho passate alla ragazza che così ha potuto togliersi il piercing. Perchè in un episodio precedente il dottor Giacomo Toccafondi (soprannominato dottor Mimetica) aveva strappato il piercing dal naso di un ragazzo. Questo era l’ambiente di Bolzaneto. Per questo passai le pinze alla ragazza affinchè provedesse lei stessa a togliersi il piercing dalle parti intime…Immaginate cosa sarebbe successo se quel medico avesse visto quell’ornamento…Sono stati talmente tanti gli episodi di sadismo e tortura…Un ragazzo è stato denudato e riempito di spray urticante. Un altro ragazzo, uno spagnolo, aveva un versamento enorme in un testicolo, sono diventato matto due ore per mandarlo in ospedale…Due ore…e poi alla fine il dottor Toccafondi mi dice: “Oh, il tuo protetto non ha niente!”. Aveva un versamento sanguigno nel testicolo sinistro per i calci ricevuti…

Poggi e Pratissoli sanno bene che la loro vita cambierà dopo la testimonianza. Scelgono di affrontare le conseguenze. Nel firmare la sua deposizione davanti al giudice, Poggi dirà: “Sto firmando la mia uscita dal carcere, perderò il lavoro”. Il giudice ribatte: “No, sono altri che non potranno più lavorare in carcere”. Sarà Poggi ad avere ragione.

Racconta ancora l’infermiere Poggi:

Cominciavano ad arrivare delle telefonate mute. Dovevo andare a lavorare, mi arriva la telefonata di un agente, un mio carissimo amico: “Non venire qui, non venire qui, perchè ti stanno preparando il comitato di benvenuto”. Io non andai. Dopo due, tre mesi mi sono trovato la macchina danneggiata, coi vetri in frantumi…per tre volte…

Marco Poggi perde il lavoro, ma continua per la sua strada e racconta le torture in un libro che intitola ironicamente “Io, l’infame di Bolzaneto, il prezzo di una scelta normale”.

Ho sentito tante menzogne su Bolzaneto. Tante menzogne per proteggere tutti coloro che hanno disonorato la divisa e il Paese. In un Paese civile non ci vuole l’omertà, ma questo non riguarda solo la mafia, riguarda tutti gli ambienti. Bisogna denunciare se si vuole davvero progredire. Io credo che un uomo, quando prende una decisione, deve essere uomo fino alla fine, altrimenti diventa un quaquaraquà; e tra i molti che ho conosciuto, anche importanti, nel periodo del dopo Genova, tanti si sono rivelati quaquaraquà.

Anche il più terribile degli incubi prima o poi termina. Alla fine i manifestanti torturati vengono portati nel carcere di Alessandria. Racconteranno che dopo l’orrore che hanno vissuto, persino la prigione è stata un sollievo. Dopo tre giorni, i giudici per le indagini preliminari li fanno rilasciare. Gli italiani vengono liberati e gli stranieri accompagnati al confine. Iniziano i procedimenti penali per i fatti della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto.

QUELLE TORTURE IMPUNITE

Davanti a circostanze di una tale gravità, persino l’ordinamento giuridico italiano, che pure ha dovuto attrezzarsi per far fronte al terrorismo e alla mafia, si rivela inadeguato. Quando facciamo il bilancio giudiziario della vicenda G8 è bene ricordare che nessun agente, nessun funzionario, nessun dirigente ha fatto un solo giorno di galera, come ha rimarcato la Corte Europea dei Diritti Umani. Le uniche persone che sono finite in carcere sono alcuni manifestanti che sono stati condannati con pene pesantissime fino a 13 anni di carcere per alcuni episodi di vandalismo, devastazione e saccheggio. Ed è paradossale se pensiamo che questi manifestanti, pur commettendo reati, non hanno aggredito persone, mentre agenti e funzionari hanno torturato persone. Dopo 11 anni per i fatti della Diaz vengono condannati 25 agenti, ma tra indulto e prescrizione, nessuno andrà in carcere.

Rimane in piedi soltanto la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni per il reato di falso aggravato per 6 dirigenti e funzionari. Sono i vertici delle forze dell’ordine: tra di loro Franco Gratteri, capo della Direzione Centrale Anticrimine, Gilberto Caldarozzi, capo del Servizio centrale Operativo (SCO), Giovanni Luperi, capo del Dipartimento Analisi dell’AISI (ex SISDE), Vincenzo Canterini, all’epoca comandante del Reparto Mobile di Roma e Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova. Massimo Nucera, il poliziotto che finse l’accoltellamento, è stato condannato a 3 anni e 5 mesi, ma il reato è stato prescritto. La Polizia l’ha sanzionato con la decurtazione di un giorno di stipendio. Per Bolzaneto le condanne sono 44, tutte prescritte ad eccezione di 7 che hanno beneficiato dell’indulto. Nessun condannato è andato in carcere. L’agente Luigi Pigozzi, che ha avuto la condanna più alta del processo Bolzaneto, 3 anni e 2 mesi, è stato in seguito condannato a 12 anni e mezzo per aver stuprato quattro donne nella Questura di Genova negli anni successivi al G8; la sentenza della Cassazione ha stabilito che Pigozzi non doveva stare in contatto con i fermati perchè già condannato per le violenze a Bolzaneto e per questo motivo il Viminale dovrà risarcire le vittime. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia due volte: nel 2015 e nel 2017 per gli episodi di tortura accaduti a Genova, sia alla scuola Diaz, che nella caserma di Bolzaneto.



Ai terribili fatti del G8 di Genova è stato dedicato un importante film di Daniele Vicari “Diaz, non pulire questo sangue” dove si rende la drammaticità di quello che è accaduto. Un film contestato dalle Autorità di Polizia che hanno messo in dubbio che si trattasse della giusta ricostruzione. In seguito si è potuto accertare che la fedeltà ai fatti era oltremodo corretta.   

TRATTO DALLA GRANDE STORIA – IL G8 DI GENOVA, LA RICERCA DELLA VERITA’

CONTENUTI SPECIALI

Dreamers, il podcast genovese e indipendente sui fatti di Genova del 2001. Il racconto audio si articola in dieci puntate, in uscita ogni due settimane, sempre di domenica, su tutte le piattaforme gratuite di podcasting. Gli autori sono quattro ragazzi e ragazze che vivono a Genova e che, all’epoca dei fatti, erano troppo giovani per partecipare. Nonostante ciò, quello che è successo a Genova ha profondamente segnato le loro scelte e le loro vite future. Per questo, a vent’anni di distanza, hanno deciso di raccontare quel periodo, con un obiettivo: rivolgersi ai giovani, affinché la memoria non vada persa e soprattutto, si possa vivere l’emozione di credere concretamente che “un altro mondo è possibile” anche oggi.

IL CASO PANAGULIS E ALTRI MISFATTI

Tratto da: “Il Giallo e la Nera” in Wonderland – RAI 4

UNA BOMBA CONTRO IL DITTATORE

Atene – Come ogni mattina, il 13 agosto 1968, il Primo Ministro greco Georgios Papadopoulos percorre la strada tra la sua residenza estiva a Lagonisi e il Palazzo del Governo di Atene. Alle 7.30, in prossimità di un ponte esplode una bomba, ma la limousine nera passa indenne. Poche ore dopo i militari arrestano il ventinovenne Alexandros Panagulis (foto sotto), noto anche con il diminutivo di Alekos, fondatore del gruppo Resistenza Greca e autore materiale dell’attentato.

I greci hanno fallito laddove l’ETA basca, analogalmente, riuscirà il 20 dicembre 1973, eliminando il generale Carrero Blanco, l’erede designato da Franco al governo fascista di Madrid. Il colonnello Papadoupolus, obiettivo dei patrioti ellenici, era al vertice del potere nella dittatura instaurata in Grecia dopo il colpo di Stato del 21 aprile 1967, quando una fazione dell’esercito, utilizzando un piano di emergenza Nato – nome in codice Prometeo – prese il controllo del Paese cogliendo di sorpresa il Re Costantino che a sua volta, con i politici e le alte gerarchie militari, stava per attuare una sua personale svolta autoritaria.

A muovere i fili dell’intricata operazione furono gli Stati Uniti che già dal 1963, con l’assassinio dell’oppositore Grigoris Lambrakis, favorivano una politica anti-democratica a sostegno dei loro interessi nel Mediterraneo, ma anche in funzione anti-sovietica. Nelle mani degli aguzzini il giovane Panagulis subisce inenarrabili torture, rinchiuso in una cella sotterranea di due metri per tre costruita appositamente per lui. La condanna a morte inflitta dal regime è sospesa poichè le mobilitazioni internazionali sono vigorose e il terrore dei colonnelli di farne un martire è grande. Panagulis viene liberato il 21 agosto 1973 grazie ad un’amnistia.

ALEKOS E ORIANA

Giunto a Firenze si lega sentimentalmente alla giornalista Oriana Fallaci (foto sopra). Sarà un amore totalizzante, drammatico (Oriana Fallaci rimane incinta di un figlio, ma lo perde dopo un litigio con lo stesso Panagulis) e struggente che la giornalista celebrerà nel libro-capolavoro Un uomo del 1979. Nel 1974, caduta la giunta militare, Panagulis si candida alle elezioni con l’Unione del Centro, partito di ispirazione liberale e progressista, ma presto si rende conto dei legami perversi tra il nuovo Parlamento e il vecchio regime. Alla solitaria ricerca della verità organizza su un giornale un’attenta pubblicazione di dossier che lo espongono a continue minacce di morte.

LO STRANO INCIDENTE STRADALE

Risoluto ad esibire in Parlamento scottanti documenti, Panagulis muore in un misterioso incidente automobilistico. Su iniziativa dei familiari, una squadra di esperti italiani è chiamata a verificare le circostanze della morte giungendo a conclusioni molto diverse da quelle della polizia greca. I periti ipotizzano un infortunio provocato ad arte da due automobili di grossa cilindrata con lo speronamento della Fiat 131 di Panagulis.

Dalle indagini emerge il coinvolgimento di Michele Steffas, militante di destra con un passato di pilota professionista in Canada, che secondo alcuni, compresa la Fallaci, sarebbe stato uno degli esecutori del delitto. Steffas sarà condannato per omissione di soccorso, ma le sue responsabilità non saranno mai provate. L’espediente dell’incidente stradale è indicato da molti ex agenti dei servizi segreti come metodo per eliminare personaggi scomodi, praticato non solo nei regimi totalitari, ma anche nelle democrazie.

A seguire il trailer del docu-film di Silvano Agosti “Altri seguiranno” dedicato alla vicenda di Alekos Panagulis



GLI ANARCHICI DELLA BARACCA

Nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 1970 sull’autostrada Napoli-Roma, a 50 chilometri dalla Capitale, una mini minor è travolta da un camion. Muoiono Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo e Luigi Lo Celso, giovanissimi anarchici calabresi. La tedesca Annalise Borth, moglie di Aricò, spira venti giorni dopo al San Camillo di Roma.

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Sono i giorni della rivolta di Reggio Calabria alla cui testa, dopo i primi fuochi spontanei, si è imposto il Movimento Sociale che troverà un leader carismatico nella persona del sindacalista di destra Ciccio Franco (foto sotto).

Nelle stesse settimane si registra a Reggio una crescente presenza di neofascisti convenuti da tutta Italia, impegnati in un lavorìo sommerso, come se la città dovesse diventare il laboratorio di un progetto eversivo su più vasta scala.

Negli anni ’90 il giudice Guido Salvini accerterà che a Gioia Tauro, il 22 luglio 1970, il deragliamento del Treno del Sole dove morirono sei persone e i feriti furono 139, non fu un incidente e che se la manovalanza proveniva dalla ‘ndrangheta, l’ispirazione era di estrema destra.

Quella tragica notte i giovani anarchici stavano portando a Roma un dossier che riguardava proprio la strage di Gioia Tauro e importanti informazioni sul principe nero Junio Valerio Borghese e sul golpe che stava pianificando. Fu davvero un banale incidente stradale? Prima di partire Angelo Casile si era procurato una riservata lista di neofascisti in contatto con la dittatura dei colonnelli in Grecia e il suo amico Gianni Aricò aveva confidato alla madre: “Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia”.


Tratto da: “Il Giallo e la Nera” in Wonderland – RAI 4

1975, L’ITALIA “SCOPRE” LO STUPRO

di Tania Brando – Genoa News Chronicle / Io reporter

Nel 1975 l’Italia aveva già pianto per i sequestri e le abominevoli uccisioni di due bambini: Milena Sutter ed Ermanno Lavorini; era stata sconvolta dalla madre di tutte le stragi, la bomba assassina di Piazza Fontana; era diventata il campo di battaglia delle prime guerre di mafia e degli scontri di piazza. L’opinione pubblica era quasi assuefatta…ma poi…poi ecco il massacro del Circeo, il crimine che scardinò le nostre difese rendendoci davvero più vulnerabili; il crimine che costrinse gli uomini, tutti gli uomini, a guardare in fondo al pozzo dove oscillano, deformi, i paesaggi oscuri della mente.

San Felice Circeo – La villa dell’orrore. Oggi è in stato di abbandono

1975, COME ERAVAMO

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Nel 1975 la società italiana è percorsa da straordinari cambiamenti. Le donne si inoltrano su un nuovo terreno: quello della libertà e dell’autodeterminazione. Il movimento femminista è in prima linea per l’approvazione del divorzio e dell’aborto.

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Accadono fatti importanti. Nel mese di marzo viene approvata la legge che abbassa la maggiore età da 21 a 18 anni, nascono come funghi le prime tv locali e le radio libere, dilagano le discoteche e si riduce da 24 a 12 mesi il servizio militare obbligatorio di leva. Nello sport l’Italia scopre lo sci grazie alle imprese della valanga azzurra guidata da Gustavo Thoeni e dal commissario tecnico Mario Cotelli. In tv va in onda l’ultima edizione della popolare Canzonissima, gara cult vinta da Wess e Dori Ghezzi con “Un corpo e un’anima”. I dischi più venduti dell’anno sono “Sabato pomeriggio” di Claudio Baglioni, “L’importante è finire” di Mina e “Piange il telefono” canzone strappalacrime recitata da Domenico Modugno e dalla piccola Francesca Guadagno. Il 9 aprile Federico Fellini vince con “Amarcord” il suo terzo Oscar. Al cinema trionfa “Amici miei con la regia di Mario Monicelli, mentre il 27 marzo esce il primo film di Fantozzi”, l’indimenticabile maschera di Paolo VillaggioSi ride, ma il clima è pesante. Il paese entra nella fase più feroce degli anni di piombo. Gli scontri di piazza tra neofascisti e gruppi dell’estrema sinistra generano un rosario di morti. Il 13 ottobre viene approvata la nuova legge sull’ordine pubblico proposta dal ministro Oronzo Reale: le forze dell’ordine possono sparare.

IL BAGAGLIAIO

il bagagliaio

L’anno è il 1975, la notte è quella che segna il passaggio tra settembre e ottobre, tra un martedì e un mercoledì. E’ una notte di vigilia per migliaia di bambini e ragazzi. Mancano, infatti, poche ore al primo giorno di scuola. Sì perchè negli anni ’70, il primo ottobre, San Remigio, coincideva sempre con la riapertura delle scuole. Davanti ai cancelli, accolti dal suono della campanella, si sarebbero radunati i remigini, gli alunni di prima elementare, e gli altri studenti attesi dalla ripresa delle lezioni dopo le lunghe vacanze estive.

Siamo a Roma. Via Pola è una traversa di via Nomentana ed è equidistante dai due celebri polmoni verdi della capitale, Villa Borghese e Villa Ada. La tarda serata sta per essere inghiottita dalla notte fonda, quando improvvisamente accade qualcosa. Il sonno del quartiere è turbato da raffiche ravvicinate di colpi sordi. Una signora si affaccia al balcone, scruta tra la luce pallida dei lampioni. Non vede nessuno, ma quei rumori adesso si sentono meglio. Sembrano manate vibrate contro una superficie, provengono da un ambiente chiuso, sicuramente angusto, e sono accompagnate da lamenti gravi, ma flebili, quasi soffocati, simili a miagolii. Qualcuno, evidentemente oppresso da una costrizione claustrofobica, sta implorando aiuto. L’attenzione della donna si concentra su una Fiat 127 bianca parcheggiata a bordo strada. I colpi arrivano proprio dall’utilitaria…Strano però…l’abitacolo è vuoto…eppure quei battiti febbrili si sprigionano, ovattati, dal ventre dell’auto, più precisamente dal bagagliaio che visibilmente sussulta. Sul posto arriva un metronotte che allerta una pattuglia dei Carabinieri con un messaggio grottesco diventato tristemente celebre:

«Cigno, cigno… c’è un gatto che miagola dentro una 127 in viale Pola»

Sono le 22.50 del 30 settembre 1975 e quello che sta per accadere rappresenterà la parte più ombrosa della memoria collettiva di un intero Paese. I carabinieri che si affannano intorno all’auto non sanno ancora che il portellone di quell’inquietante bagagliaio é il diaframma fisico che delimita le atrocità del male; ed ovviamente non possono supporre che stanno per svelare l’immagine più orrendamente iconica e solenne della cronaca nera di quegli anni violenti.

Quando il cofano viene forzato e aperto, i carabinieri sono sopraffatti dall’orrore. Quello che emerge dal baule è il volto stravolto, grondante di sangue, di una ragazza nuda, il corpo percorso da lividi e ferite. Nello sguardo sospeso i segni di un’esperienza terrificante. La sua espressione è un lago d’angoscia. Cosa avranno visto quegli occhi? Sarà possibile raccontare ed essere creduti? La ragazza è ancora viva, ma è terrorizzata, devastata dallo choc. Donatella Colasanti, questo il nome della creatura, è l’immagine più vicina a Gesù Cristo crocifisso. E’ come se avesse conosciuto Auschwitz, il napalm in Vietnam, le violenze di una dittatura sudamericana. E’ come se avesse assorbito tutto il male del mondo. In quella tiepida notte di inizio autunno, Donatella passa dalle tenebre della pre-morte alla condanna della testimonianza. Per tutta la sua breve vita sarà una sopravvissuta segnata dallo stigma del dolore incarnato. Un fotoreporter al seguito dei Carabinieri, Antonio Monteforte, ferma l’istante: il suo flash abbagliante su quel volto martoriato diventa l’immagine-simbolo della violenza universale sulla donna. Il documento è una frustata alle coscienze.

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Ma non è tutto. La visione di quello strazio irripetibile è ancora parziale. Nel baule, accanto a Donatella Colasanti, c’è un’altra ragazza avvolta in un bozzolo di plastica, il corpo pietrificato, il respiro assente. E’ un angelo rannicchiato, si chiama Maria Rosaria Lopez ed è morta.

Il portabagagli diventa così la metafora del nostro inconscio, il luogo recondito dove si agitano i nostri demoni, il nascondiglio di segreti inconfessabili e nefandezze. Da quella notte, l’ordine impartito da Carabinieri e Polizia ai posti di blocco – “Prego, apra il portabagagli! – risuonerà più inquietante. Anche per le sue particolari modalità, il ritrovamento delle due ragazze anticipa, alla stregua di un lugubre annuncio, il fatto epocale che cambierà la Storia italiana: tre anni dopo, il 9 maggio 1978, sempre a Roma, ma in un altro bagagliaio, quello di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, verrà fatto ritrovare il corpo di Aldo Moro.

  LE BELVE

I loro compagni di classe li ricordano ancora oggi con l’epiteto di “piccoli bastardi”. Angelo Izzo e Gianni Guido erano nella stessa classe: sezione A, liceo classico San Leone Magno, istituto esclusivo, cattolicissimo e privato, frequentato dai rampolli dell’aristocrazia nera e dell’alta borghesia pariolina. Una scuola dove la retta mensile, agli inizi degli anni ’70, raggiungeva quasi i due milioni di lire. Roba per pochi insomma. Il terzo boia del Circeo, Andrea Ghira (foto sotto, ultimo a destra), andava invece al liceo Giulio Cesare, istituto di rango, ma pubblico.

Fascisti legati ai gruppi dell’eversione nera, sbruffoni e spavaldi. Trascorrevano le giornate tra Corso Trieste, Via Salaria e Corso Parioli, rintanati spesso al bar Tortuga, il ritrovo dei fascisti della zona, o imbucati in festini organizzati da altri giovani pariolini. Facile immaginarli mentre si atteggiavano con i jeans alla moda (marca Ufo, Fiorucci o Spitfire), le magliette Lacoste, gli occhiali da sole Ray-Ban, i mocassini color cuoio a punta e il giubbotto di pelle nera dal quale lasciavano intravedere il calcio di una pistola. Sicuri di poterla sempre fare franca: guidare senza patente, picchiare, spacciare, violentare, distruggere. Tanto c’era sempre l’avvocato di papà a tirarli fuori dai guai.

Giovanni Gianni Guido (foto sopra) viveva nel quartiere Nomentano, in un elegante palazzo tra Villa Paganini e Villa Torlonia. Il padre era un alto dirigente di banca, la madre figlia di una nota famiglia di armatori napoletani. Angelo Izzo (foto sotto), figlio di un ingegnere edile, occhi vibranti e tiroidei, era, per sua stessa ammissione, un maniaco sessuale. Lo psichiatra che lo aveva in cura gli aveva diagnosticato una nevrosi maniaco-depressiva e alterazioni della sessualità derivanti da iposviluppo anatomico. Narcisista e istrione, era conosciuto per la sua prepotenza e le sue deliranti teorie sulla divisione in classi dell’umanità: i dominanti, i poveri cristi, i pidocchiosi. Roba da far rabbrividire anche i camerati più convinti. Si racconta che persino Teodoro Buontempo, il capo dei giovani missini romani, il temuto leader del Fronte della Gioventù, gli avesse ordinato di stare alla larga. Già alla fine del 1969 Izzo e Ghira erano stati espulsi dall’associazione studentesca di destra “Giovane Italia” per una disonorevole abitudine: alcuni camerati li avevano sorpresi a nascondere moto rubate all’interno della sezione missina Trieste-Salario.

Andrea Ghira (foto sotto), figlio del costruttore ed ex campione olimpico di pallanuoto Aldo Ghira, era un giovane violento che aveva aderito alle formazioni squadriste di estrema destra. Al Giulio Cesare aveva fondato la fazione Drago che teorizzava il crimine come mezzo di affermazione sociale. I suoi modelli erano Jacques Berenguer e Albert Bergamelli, noti criminali marsigliesi, che nei primi anni ’70 avevano messo a segno, anche a Roma, alcuni sequestri a scopo di estorsione. Una banda di giovani pazzi, insomma, cresciuti nel mito della violenza, “drughi pariolini” che non imitavano solo Arancia Meccanica, ma una vera e propria setta, la Rosa Rossa che univa neofascisti e massoni, notabili e satanisti.  Ghira e Izzo erano orgogliosamente pregiudicati: nel 1973 avevano messo a segno una rapina a mano armata per la quale avevano scontato venti mesi nel carcere di Rebibbia; qualche mese dopo ancora Izzo, assieme a due amici, aveva violentato due ragazzine e perciò era stato condannato a due anni e mezzo di reclusione, mai scontati per una provvidenziale sospensione condizionale della pena. La vasta aneddottica ricavata dalle loro miserabili biografie rimanda a scene sconvolgenti: Ghira che, appena sedicenne, scendeva dalla Jaguar rosa pallido del padre tenendo al guinzaglio un alano nero. Un cane – racconta il giornalista Fabrizio Roncone in un memorabile articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 4 maggio 2005 – che lui bastonava prima di uscire di casa e che, perciò, arrivava davanti al bar Tortuga sbavando inferocito.

Si racconta che tra le tante ragazze cadute nel giro di questa nostrana Arancia Meccanica, nessuna abbia ricevuto fiori, baci e carezze. Quelli che sarebbero diventati gli aguzzini del Circeo ripudiavano le tenerezze e preferivano – per usare un eufemismo – le maniere forti: pizzicotti, sberle e stupri. “Le feste – scrive Roncone – venivano organizzate di nascosto. Se arrivavano loro, Izzo e i suoi, era finita. Case saccheggiate e molte ragazze che forse, ancora adesso, tengono nascosto un segreto tremendo. Il giovedì mattina, però, questi piccoli delinquenti andavano regolarmente a messa. Può sembrare pazzesco, ma è così: il giovedì, al San Leone Magno, era giorno di funzione religiosa e loro erano lì, in prima fila, a mani giunte. La verità è che avevano paura di Padre Barnaba, il loro insegnante di religione. Lo vedevano e tremavano. Izzo, più di tutti. Un comportamento tipico, sembra, nei serial killer”.

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Nel libro di “Io sono l’uomo nero” scritto dalla giornalista Ilaria Amenta, Izzo consegna alcune memorie: “Gli stupri (o sfasci come Izzo chiama le violenze sessuali) per lungo tempo furono per alcuni di noi una specie di hobby cui ci dedicavamo con una frequenza diciamo settimanale. Era persino difficile distinguere le orgette con le nostre schiave sessuali, magari consenzienti, dagli stupri veri e propri”. Un gruppo di ragazzi, di adolescenti, della buona borghesia di Piazza Euclide, a Roma, che provava l’ebbrezza del potere, del dominio, del sopruso sopra una donna. Sempre Izzo racconta: “In quelle situazioni sfogavo molto più che la mia libidine compulsiva. Provavo qualcosa di ben più profondo e mostruoso che mi albergava dentro e che sentivo che premeva per irrompere. Ero nel cuore dell’odio, un po’ le stesse sensazioni che ho provato uccidendo. Quando uccidevo mi eccitavo”. Quegli stupri precedono di un anno e mezzo il massacro del Circeo del 1975 e valgono al gruppo una prima condanna a due anni e sei mesi di carcere. Il tribunale scrive che i condannati hanno dimostrato “una insensibilità che lascia sgomenti”. Poco dopo, però, i tre sono già liberi con la condizionale. C’è una frase, in sentenza, che farà molto discutere, dopo il massacro del Circeo: “Gli imputati, tutti di ottima famiglia, una volta usciti dal carcere imboccheranno la strada giusta”.

Sulla vicenda e sui mostri del Circeo sono stati realizzati film, scritti centinaia di articoli e decine di libri. Un loro compagno di scuola, Edoardo Albinati, nel romanzo “La scuola cattolica”, vincitore nel 2016 del Premio Strega, racconta in maniera magistrale ambienti, dinamiche e segreti di quella “mala educaciòn” all’origine della degenerazione:

Roma, anni Settanta: un quartiere residenziale, una scuola privata. Sembra che nulla di significativo possa accadere, eppure, per ragioni misteriose, in poco tempo quel rifugio di persone rispettabili viene attraversato da una ventata di follia senza precedenti; appena lasciato il liceo, alcuni ex alunni si scoprono autori di uno dei più clamorosi crimini dell’epoca, il delitto del Circeo.

L’INCONTRO

La vita è fatta di incontri. Alcuni possono salvarti ed arricchirti, altri distruggerti ed annullarti. Nell’elegante bar ai piedi del ‘Fungo’, nel cuore dell’Eur, Donatella, 17 anni, e Rosaria, 19, prendono il caffè con due simpatici ragazzi ventenni. Angelo, corporatura minuta, occhi enormi ed eloquio brillante con accenti fanatici, e Gianni, anche lui magro, ma decisamente più attraente, con un folto ciuffo che gli ricade sugli occhi e lo sguardo da seduttore imbronciato. In realtà Angelo Izzo (particolare non secondario) si presenta alle ragazze con il nome di Stefano. Dopo l’arresto rivelerà: “Avevamo l’abitudine di non dare i nostri nomi veri da quando, l’anno prima, io e altri avevamo commesso violenze carnali e pensavamo che usando nomi falsi non potevamo più essere incastrati”. Dunque, Gianni e Angelo/Stefano sono due ragazzi del quartiere Parioli, hanno frequentato le scuole migliori, sono iscritti all’università e alle due ragazze della Montagnola appaiono affascinanti. Tra una chiacchiera e l’altra i due invitano le amiche a una festa fuori Roma, in una villa sul mare. Perchè rifiutare? Non c’è motivo di dire di no. “Noi maschi saremo in tre, portate un’amica!”. “Va bene”, rispondono serene Rosaria e Donatella (foto sotto).

La vita è fatta di incontri, ma anche di “sliding doors”, cioè elementi assolutamente imprevedibili che possono cambiare la vita di una persona in modo altrettanto imprevedibile. Ad esempio perdere un aereo che poi precipita. Ebbene, nella terribile vicenda del Circeo, c’è una ragazza di nome Nadia, invitata alla festa da Rosaria e Donatella, che all’ultimo momento non si reca all’appuntamento per una provvidenziale indisposizione. Sarà la sua salvezza.

E’ il 29 settembre 1975: Gianni Guido e Angelo Izzo si presentano al rendez-vous con mezz’ora di ritardo. Rosaria e Donatella li hanno attesi, probabilmente trepidanti. Sono due ragazze di umili origini, semplici, pulite, ingenue. Due figlie del popolo, lontane anni-luce dai due pariolini (non a caso molti analisti, a tragedia compiuta, classificheranno il massacro del Circeo come un crimine di classe). Rosaria Lopez non ha finito le scuole medie, lavora in un bar e vive – con il fratello, la sorella e i genitori anziani e malati – in due stanze, in via di Grotta Perfetta all’Ardeatino. Anche Donatella Colasanti, studentessa, vive con la famiglia: padre impiegato, madre casalinga, un fratello di un anno più grande di lei. Una vita serena arricchita da un sogno: diventare attrice teatrale. I quattro salgono a bordo di una 127. Alle 17.50 giungono a San Felice Circeo, davanti al cancello di Villa Moresca, residenza affacciata sul promontorio del Parco Naturale con vista spettacolare sull’Isola di Ponza. La villa, spiegano i due ragazzi, è dei genitori di un loro caro amico, il terzo della compagnìa (Andrea Ghira ndr). Era davvero come l’avevano descritta: grande, due piani, taverna e garage, immersa nel verde e isolata. A un passo dal nulla. Le due ragazze vengono accompagnate in giardino. L’atmosfera è serena, qualche chiacchiera, i primi approcci, quel mare mitologico che sembra ancora estivo.

Dal romanzo “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese

“…Una paura indefinita di quell’aria così dolce, quel cielo così chiaro, quelle colline lunghe come lunghe onde che chiudevano nella loro serenità tante inquietudini ed orrori. Eppure, tutto sembrava così gaio e armonioso”.

Sono quasi le 18 e 30 e basta un gesto per precipitare nell’abisso. Sulla scena, all’apparenza idilliaca, irrompe una pistola: ad estrarla è Gianni Guido. Quello che segue è il racconto di un horror reale.

UN MARTIRIO LUNGO 36 ORE

Alla vista dell’arma spianata contro di loro, le ragazze reagiscono con un sorriso di stupore, ma ben presto si rendono conto che non si tratta di uno scherzo. Quei ragazzi così simpatici si trasformano in lupi e sanno essere convincenti: “Apparteniamo al clan dei Marsigliesi. Il nostro capo Jacques Berenguer ci ha ordinato di rapirvi”. Scatta il sequestro, cominciano le sevizie. Le due ragazze vengono legate e chiuse a chiave in un piccolo bagno senza finestre. Picchiate, umiliate, derise, insultate, brutalizzate. I loro corpi usati come lavagne dove esercitare istinti disumani e pulsioni psicopatiche. Donatella e Rosaria, in balìa dei torturatori, diventano oggetti. A un certo punto, particolare raccapricciante, Guido interrompe le sevizie. Deve recarsi a Roma dove per cena lo attendono i genitori: “Perché non dovrei mangiare tranquillamente coi miei?”. Poi tornerà indietro per terminare lo scempio.

Dalla deposizione di Donatella Colasanti:

“Angelo Izzo ci ha fatto uscire a turno dal bagno, ci ha fatto spogliare e ci ha obbligate a stare con lui, ma non è riuscito ad avere rapporti completi nè con me, nè con Rosaria. Verso le 11 di sera è tornato Gianni Guido. Piangevamo, volevamo andare via. Loro ci minacciavano di sverginarci. Questo inferno è continuato per un paio d’ore, fino a quando ci hanno rinchiuso di nuovo nel bagno”.

E’ l’alba del 30 settembre. Donatella e Rosaria sono stremate, hanno bevuto solo acqua, cominciano a sentire freddo. I due aguzzini ricompaiono, ma questa volta, eccitati dalle anfetamine, riversano sulle vittime un cataclisma di ferocia. E’ un delirio di calci, pugni e sevizie che dura fino alle 5 del pomeriggio. Ormai l’unico pensiero delle ragazze è cercare di resistere, non soccombere, non morire.

Dal romanzo-verità “Stupro” di Patrizia Carrano

“No, questo no, per piacere, questo no”. Non l’avrebbe sopportato, ne sarebbe morta. Sbuzzata come un pollo, aperta su un tavolo di marmo e gli intestini rovesciati, colle budella di fuori. Le pareva d’essere artigliata dentro, s’aspettava d’essere rivoltata come un guanto. Una bestia appesa al gancio dei macellai, un capretto aperto e battuto per essere sistemato nella tiella del forno, il boccone del prete unto d’olio per chi se lo sarebbe mangiato…

Il peggio, forse, è passato, ma ecco che improvvisamente la sceneggiatura criminale premeditata dal branco subisce un mutamento che risulterà devastante. In villa, ad animare ulteriormente quel pomeriggio “divertente”, fa il suo ingresso un terzo aguzzino, il ventiduenne Andrea Ghira, il padrone di casa, già condannato per lesioni aggravate, rapina, ricettazione e violazione di domicilio. Di fronte alle ragazze si cala nei panni del suo modello, Jacques Berenguer, il temuto boss del clan dei Marsigliesi. A raccontare quella pantomima folle e brutale è sempre Donatella Colasanti. Lo sconvolgente passaggio è stato pubblicato dalla trasmissione investigativa Chi l’ha visto? E’ il momento della massima abiezione.

“Jacques appena arrivato nella villa non è stato cattivo con noi, non mi ha obbligato ad andare a letto con lui. Poi però ci ha ordinato di fare l’amore tra di noi, io e Rosaria…Poi Jacques ha preso Rosaria per la mano e l’ha portata in una stanza. Io sono rimasta con Izzo e Guido. Angelo Izzo ha provato ripetutamente a prendermi, ma senza riuscirci e siccome a Guido non piacevo mi hanno preso a calci sulla schiena. Approffittando di un attimo di distrazione ho raggiunto il telefono e ho chiamato il 113, riuscendo solo a dire: ‘mi stanno amazzando’. In quel momento sono stata colpita da una spranga di ferro e sono crollata a terra. Mentre mi prendevano a calci sentivo le urla di Rosaria. Dopo un po’ ho visto Jacques. Dietro di lui la mia amica era sporca di sangue e lo implorava di lasciarci andare”.

Sono le 19,30 del 30 settembre 1975. Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira comunicano alle ragazze che le avrebbero addormentate per riportarle a Roma. Preparano due siringhe con del liquido rosso. Guido e Izzo portano Rosaria Lopez al piano superiore della villa, mentre Donatella Colasanti rimane in balìa di Ghira. E’ una separazione drammatica e definitiva. Donatella vede l’amica trascinata dai due carcerieri. E’ l’ultima sconvolgente visione della sua amica viva. L’epilogo è feroce. Quelle belve senza morale si nutrono della paura delle loro prede. Le iniezioni del misterioso sedativo vengono inoculate, ma non fanno effetto. La situazione precipita. Donatella Colasanti percepisce l’orrore attraverso l’udito: sente che al piano superiore è stato aperto il rubinetto della vasca da bagno…sente l’acqua scorrere, sente l’amica morire. A quel punto Donatella comprende d’istinto che l’unica possibilità di salvezza è fingersi morta.

“Angelo è rimasto nel bagno con Rosaria tutto il tempo, mentre Gianni e Andrea si alternavano per aiutarlo. Sentivo le grida di Rosaria che si interrompevano come se le stessero immergendo la testa nell’acqua. Dopo un po’ non ho sentito più niente. Io ero con Guido e dalle scale sono scesi Ghira e Izzo. Erano affannati e stanchi, in particolare Izzo. Anche su di me l’iniezione non aveva avuto effetto e così hanno cominciato a colpirmi con il calcio della pistola, mi hanno riempito di pugni. Mi hanno legato una cinghia al collo e mi hanno trascinata nuda per tutta la casa. Hanno tirato così forte che alla fine la fibbia si è rotta. Sono svenuta per una decina di minuti e quando mi sono risvegliata ho sentito il piede di uno di loro che mi premeva sul petto. Qualcuno ha detto: ‘Questa qui non vuole morire’, e hanno cominciato a colpirmi in testa con una spranga di ferro. A questo punto ho pensato che la sola cosa da fare per salvarmi era fingermi morta…I morti non provano dolore. Poi la stessa voce di prima ha detto: ‘Finalmente siamo riusciti ad ammazzarla’.

“Guarda come dormono bene queste due morte”: sono le ultime parole che Donatella Colasanti sente pronunciare da Angelo Izzo. I tre aguzzini caricano i poveri corpi delle due ragazze nel portabagagli della Fiat 127. Due corpi martoriati avvolti in teli di plastica. Sono le 21 di martedì 30 settembre 1975. Nelle case italiane il secondo canale della Rai trasmette “Piccola ribalta”, varietà condotto da Mariolina Cannuli, conturbante “signorina buonasera” ed Enzo Cerusico, attore-rivelazione di quegli anni. L’utilitaria, con il suo carico di dolore e morte, parte alla volta di Roma; a bordo ci sono Gianni Guido e Angelo Izzo. Andrea Ghira li segue al volante della sua Mini Minor. Alle 23.30, giunti in via Pola, parcheggiano e, appagati, si recano in pizzeria in attesa di liberarsi dei cadaveri. E’ l’ultimo oltraggio.

Quei corpi nel bagagliaio parlano. L’Italia “scopre” l’immensa gravità dello stupro e della morte per stupro. Non sarà più possibile voltare le spalle, svilire, minimizzare, insinuare, screditare, assolvere… In quell’attimo lancinante crolla l’impalcatura millenaria della bestialità maschilista: Se lo meritano…li avranno provocati…se sono andate in quella villa vuol dire che ci stavano…se fossero rimaste a casa non sarebbe accaduto. Questi commenti circoleranno ancora tra la gente? Risuoneranno ancora nelle aule dei tribunali?

GLI ARRESTI E IL PROCESSO

Gli autori del massacro vengono identificati nel giro di poche ore. I media si tuffano sul caso in modo compatto e compulsivo; i giornali catturano le immagini di Angelo Izzo (foto sopra) che sfila mostrando sorridente le manette. Anche Gianni Guido viene arrestato. Andrea Ghira no; gode di protezioni importanti: messo in allarme da una soffiata, sparisce ed evita la cattura. La sua famiglia si attiva per coprirlo e c’è un primo episodio che lo dimostra: i Carabinieri, accorsi nella villa del massacro, sorprendono la madre e il fratello del fuggitivo intenti a lavare il sangue. Trascorrono dieci giorni, e dalla latitanza Andrea Ghira fa pervenire agli amici in carcere un messaggio gonfio di odio e delirio di onnipotenza:

“Vi assicuro che quella bastarda (Donatella Colasanti ndr) la faccio fuori. per voi non c’è pericolo. A fine anno 1976 uscirete tutti per libertà provvisoria. Anche se sanno tutto, questi bastardi, faranno una brutta fine anche loro. Comunque non vi preoccupate per la mia latitanza, ho circa 13 milioni di lire, forse andrò via da Roma. Per quanto riguarda quella stronzetta farà la fine della Lopez. State calmi. A presto. Berenguer Ghira”.

Per tutta la sua vita Andrea Ghira sarà un fantasma; per lui, nonostante quell’orrore, neppure un giorno di carcere.

Donatella Colasanti durante un sopralluogo nella villa dell’orrore

l primi di ottobre del ’75, accompagnata dai carabinieri e dagli avvocati, Donatella Colasanti deve tornare al Circeo per i sopralluoghi di rito sulla scena delle sevizie. Ad uno dei sopralluoghi partecipa – assieme agli aguzzini – anche l’avvocato Nino Marazzita, legale della famiglia Lopez. Tempo dopo racconterà: “Si capiva che qualcuno era andato via in fretta, c’erano bottiglie e cicche di sigarette: ma quando si entrava in bagno e nella camera in cui si consumarono le torture, la vista era ripugnante. C’era un mare di sangue. E i responsabili erano impassibili, pareva guardassero l’arredamento”.

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Si avvicina il processo. Per Donatella Colasanti, all’epoca minorenne (aveva solo 17 anni), dovrebbe essere il momento sacro della verità e della giustizia, ma paradossalmente si tratta della prova più difficile. Dovrà sostenere il fuoco di sbarramento e gli attacchi della difesa degli imputati. Cercheranno di demolire la sua credibilità, tenteranno di annullare le differenze tra parte lesa e incriminati, la dipingeranno come adescatrice, avrà persino la sensazione di essere lei la colpevole, metteranno in campo tutte le strategie che da sempre, in Italia, connotano i processi per stupro. Dovrà subire una seconda violenza, sarà costretta a rispondere a domande ripugnanti, la colpiranno con un diluvio di commenti retrogradi e dovrà mettersi a nudo. La dignità di una ragazza offesa inchiodata ad una croce.

Estate del 1976: si alza il sipario sul processo. Al banco dei testimoni – che per lei si trasformerà in un banco degli imputati – c’è Donatella Colasanti, sostenuta da centinaia di attiviste femministe. Il suo avvocato, Tina Lagostena Bassi (foto sotto), leonessa e pioniera della lotta per i diritti delle donne, l’ha messa al corrente: “ti cuciranno addosso l’abitino della colpevole”. Le ha spiegato che il dibattimento non sarà una passeggiata, ma un’arena dove chi rischierà di essere sbranato non saranno gli imputati, ma lei, la vittima.

Come previsto, le vite di Donatella e Rosaria vengono frantumate. Ma alla fine gli italiani si accorgono per la prima volta che il paese è diventato, forse, più civile. Il 29 luglio 1976 viene pronunciata la sentenza di primo grado: ergastolo senza attenuanti a Gianni Guido, Angelo Izzo e in contumacia ad Andrea Ghira. La sentenza viene modificata in appello per Gianni Guido: il 28 ottobre 1980 la condanna gli viene ridotta a trent’anni, dopo una dichiarazione di pentimento e l’accettazione da parte della famiglia Lopez di un risarcimento pari a cento milioni di lire. Tutto finito dunque? Decisamente no. Gli anni successivi sono segnati da fughe, coperture, misteri, finti pentimenti, depistaggi ed altri omicidi. Uno dei tre, Andrea Ghira, scomparirà per sempre, senza aver fatto neppure un giorno di carcere. Sulla vicenda del Circeo, insomma, non sarà mai scritta la parola ‘fine’.

ANDREA GHIRA, LATITANZA ED EROINA

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Andrea Ghira è ancora oggi il simbolo assoluto della giustizia negata. Sulla sua latitanza c’è ancora moltissimo da scoprire. Gli interrogativi si rincorrono. Chi lo ha coperto? Lo Stato italiano lo ha davvero cercato? La Spagna, il paese dove Ghira si era rifugiato, non ha mai collaborato alla sua cattura. Perchè? Partiamo dall’inizio. Dopo il massacro, mentre Izzo e Guido vengono arrestati, Ghira riesce a fuggire. Dalla latitanza scrive il delirante messaggio rivolto ai suoi complici, poi scompare definitivamente. Sulla base dei documenti noti è possibile ricostruire solo una parte dei suoi spostamenti. Almeno fino al Natale del 1975, Andrea Ghira si sarebbe nascosto a Roma. Forse, per mantenersi in “allenamento”, ha preso parte a un rapimento: nel dicembre di quell’anno, Ezio Matacchioni indica proprio Ghira tra i malviventi che lo hanno tenuto prigioniero in una villetta di Tor San Lorenzo, ma le sue dichiarazioni non convincono i giudici. Il 6 febbraio 1982 un testimone dichiara con assoluta certezza di aver visto Andrea Ghira ad Aprilia. Scattano le ricerche, ma del massacratore del Circeo non c’è traccia.

La latitanza di Ghira è al centro di un’inchiesta realizzata nel 1985 da Pino Buongiorno. Il giornalista raccoglie testimonianze più o meno attendibili sulla presenza del neofascista in Kenia; riferisce che ogni due mesi una donna viaggia tra Roma e Malindi per rifornire di soldi un italiano che si fa chiamare Lorenzo. Ghira gode, probabilmente, di protezioni molto forti. Lo segnalano a Londra, in Sudafrica, ma anche in Sudamerica – tra Brasile, Argentina e Paraguay – dove da decenni trovano rifugio le “primule” di mezzo mondo: nazisti, terroristi neri e rossi e criminali comuni. Qualche investigatore ipotizza più realisticamente che sia fuggito in Francia tramite la zia, che gestiva a Lourdes la struttura destinata ai malati che l’Unitalsi porta in pellegrinaggio al santuario mariano, magari proprio su uno dei cosiddetti treni bianchi, e che da lì abbia trovato riparo nella vicina Spagna ancora franchista. Quell’aiuto è stato confermato in tempi recenti. Nel corso degli anni è pure emerso che Andrea Ghira avrebbe trascorso sei mesi in un kibbutz israeliano per poi approdare a Madrid ed arruolarsi, il 26 giugno 1976, nel Tercio de Armada, la legione straniera spagnola, sotto il falso nome di Massimo Testa de Andres.

Con queste generalità fittizie il super-latitante, nella sua nuova veste di militare, viene arrestato il 28 maggio 1980 a Ceuta, città autonoma spagnola in Marocco. Le autorità lo bloccano con un quantitativo di hashish. Nei primi anni ’80, tra le autorità italiane e spagnole, intercorrono 23 note ufficiali, ma a nessuno sembra sia venuto il dubbio che Massimo Testa de Andrès potesse essere Andrea Ghira. Sarebbero state sufficienti una sua foto e le impronte digitali per risalire alla sua vera identità e decretarne l’estradizione in Italia, invece, ancora una volta, Ghira-De Andres viene ignorato e sottoposto alla giurisdizione militare. Prima di essere espulso dalla legione straniera spagnola a causa della sua tossicodipendenza da eroina, Andrea Ghira ha potuto indossare la divisa militare per 17 lunghi anni. Nel 2005 la Procura di Roma intercetta le conversazioni tra una domestica e alcuni familiari del latitante, conversazioni che vengono rilanciate in tv dalla trasmissione investigativa Chi l’ha visto?. E’ la svolta: messa alle strette, la famiglia Ghira riferisce agli inquirenti che Andrea è morto nel 1994 per overdose di eroina. La salma, riesumata nel cimitero di Melilla, viene sottoposta a due consulenze medico-legali: il riscontro sul dna evidenzia che le ossa appartengono certamente al “ceppo” della famiglia Ghira, ma non è possibile appurare che si tratti proprio di Andrea. Caso chiuso? Non proprio. Il dubbio che l’aguzzino del Circeo sia ancora vivo non si è mai completamente dissolto. Andrea Ghira protetto da una finta morte, il più beffardo e definitivo tra i depistaggi possibili.

 “STUPRO E TORTURO”. IO, ANGELO IZZO

Anche dopo l’arresto, magistrati e giornalisti si occupano a più riprese di Angelo Izzo. Sono costretti a farlo. Il suo dopo-Circeo è costellato da fughe, catture, rivelazioni e da un secondo feroce massacro. Nel corso degli anni si autoaccusa di svariate imprese criminali e fornisce le proprie versioni su stragi neofasciste, omicidi eccellenti, fatti di mafia e terrorismo. E’ sicuramente il primo a parlare dello stupro subito nel 1973 da Franca Rame. Compare nel ruolo di testimone e collaboratore di giustizia in diversi processi. Si dedica allo studio e alla scrittura. In carcere intrattiene rapporti con terroristi e criminali di spessore. Prova e riesce ad evadere. Nel gennaio del 1977, assieme a Gianni Guido, tenta l’evasione dal carcere di Latina, ma l’operazione non riesce. Nel 1986 prova a fuggire dal supercarcere di Paliano. Il 25 agosto 1993, approffittando di un permesso-premio, si allontana dal carcere di Alessandria ed espatria in Francia. Catturato a Parigi dopo due settimane, viene estradato in Italia.

Trascorrono altri anni. In una celebre intervista televisiva concessa in carcere a Franca Leosini per il programma Storie Maledette, Angelo Izzo ripercorre la sua storia. Si dice pentito per il massacro del Circeo, ma accompagna la dichiarazione a un sorriso luciferino. E infatti qualche mese dopo (sembra impossibile) uccide ancora. E’ il 2005: dopo aver ottenuto la semilibertà dal carcere di Campobasso, viene associato alla cooperativa Città futura che lui stesso finanzia. Offre assistenza a Maria Carmela e Valentina Maiorano rispettivamente moglie e figlia di un detenuto che ha conosciuto in carcere. Nella sua veste di operatore sociale promette alle due donne aiuti economici e un lavoro, ma è una trappola. L’impulso di Izzo è quello di replicare, con modalità ancora più efferate, il massacro compiuto trent’anni prima nella villa del Circeo. Il 28 aprile, con la complicità di due disperati (Guido Palladino e Luca Palaia), uccide le due donne e le sotterra. L’Italia è incredula e sgomenta. Dopo un drammatico processo Angelo Izzo colleziona il suo secondo ergastolo.

Gianni Leoni, ex nerista del Resto del Carlino che lo ha intervistato in carcere, ha detto di lui: «Racconta fatti agghiaccianti come se raccontasse una favola o come se questi fossero stati commessi da un altro. Mi disse che dopo aver ucciso la moglie e la figlia di Maiorano, avrebbe distrutto un’altra famiglia se non lo avessero fermato. Questa è la sua logica. Una logica agghiacciante, una logica da mostro. Ma Izzo non si offenderebbe».

GIANNI GUIDO, UOMO LIBERO

L’espiazione e il pentimento non appartengono nè al brodo culturale nazifascista, nè al più animalesco ed arcaico maschilismo. I concetti sono più o meno questi: la donna è semplicemente un giocattolo che se rompo pago. Dominare e sottomettere una donna è nell’ordine naturale delle cose, se perdipiù è povera è lecito infierire. Gianni Guido, allineato a questi terrificanti orientamenti, ottiene, come abbiamo visto, una consistente riduzione della pena grazie ad un risarcimento di 100 milioni di lire pagato alla famiglia della ragazza trucidata. Il pentimento e il rimorso, seppur dichiarati, non sembrano nelle sue corde. Appena può evade, scappa all’estero e si rifà una vita. Alla fine, tra indulti, benefici, regime di semilibertà e affidamento in prova ai servizi sociali, sconta 20 anni sui 30 comminati. La sua pena si è esaurita nel 2009. Ripercorrere il suo “post-Circeo” è istruttivo. Nel 1977 tenta di evadere dal carcere di Latina assieme a Izzo. Il 27 ottobre 1980, grazie al risarcimento pagato alla famiglia di Rosaria Lopez, si vede ridurre la pena dell’ergasolo a 30 anni. Il 25 gennaio 1981 evade dal carcere di San Gimignano; i suoi genitori, sospettati di aver corrotto un agente della penitenziaria, vengono assolti. Il 27 gennaio 1983 viene arrestato a Buenos Aires. In attesa di essere estradato in Italia, riesce nuovamente a fuggire da un ospedale della capitale argentina dove era ricoverato per un’epatite. Per avere sue notizie bisogna attendere l’estate del 1994 quando la sua lunga latitanza viene interrotta dalla cattura a Panama dove si era riciclato vendendo auto sotto il falso nome di Andrea Mariani.

L’11 aprile 2008 Gianni Guido viene affidato ai servizi sociali dopo 14 anni passati nel carcere di Rebibbia. Ha finito di scontare definitivamente la sua pena il 25 agosto 2009, fruendo di uno sconto di 8 anni grazie all’indulto. Oggi (foto sotto) è un uomo libero.

DONATELLA E ROSARIA

Donatella Colasanti e Rosaria Lopez sono due simboli. Dopo il loro sacrificio sono state introdotte misure più severe e nuove norme per contrastare i crimini a sfondo sessuale e rafforzare le tutele della donna. Tuttavia, la strada (soprattutto culturale) da compiere è ancora molta. A mezzo secolo dai fatti del Circeo, femminicidi e violenze sessuali sono in pauroso aumento. Sproloqui che sembravano assopiti, tornano pericolosamente in auge. Così, eccoci costretti a ribadire, dopo l’ennesima violenza sessuale di gruppo, che ad esempio il sì di una donna ubriaca non è mai un consenso, ma uno stupro con l’aggravante della minorata difesa della vittima; e che lo stupro è una rapina, e che non si può essere consenzienti a uno stupro; e che in tutti i processi per stupro l’unico argomento che viene tirato fuori è sempre quello che lei era consenziente…Per queste ed altre ragioni, il massacro del Circeo è ancora attuale e non potrà essere dimenticato.

Il 4 ottobre 1975 si celebrano i funerali di Rosaria Lopez.

Il popolo della Montagnola (oggi quartiere residenziale tra l’Eur e la Garbatella) si raduna davanti alla Chiesa del Buon Pastore. “Era nella bara, vestita di bianco e aveva una lacrima, proprio sotto l’occhio destro”, ricorda la sorella Letizia. Ad officiare l’omelia è un vecchio prete partigiano, Don Pietro Occelli. Le sue parole risuonano ancora oggi come un monito:

«Vi è qui una sperequazione evidentissima che il delitto sottolinea: “loro” hanno avvocati di altissimo grido, hanno una magistratura che guarda benevola, hanno sempre la libertà provvisoria: e hanno anche le smaccate evasioni fiscali di padri ricchissimi che erano e sono rimasti fascisti. I figli di queste canaglie possono ammazzare, spendere e spandere, assassinare per non annoiarsi….».

Donatella Colasanti, la cui intera esistenza è stata segnata dalla notte al Circeo, non si è mai sposata e non ha mai avuto figli. E’ morta di cancro il 30 dicembre 2005 nella sua Roma. Aveva solo 47 anni. Su di lei è stata scritta la frase più vera: “Si è salvata fingendosi morta, ha passato la vita a fingersi viva”.

È passata alla storia per aver fatto condannare i suoi aggressori e per aver condotto alcune importanti battaglie, come quella per il riconoscimento dello stupro come reato contro la persona e non contro la morale pubblica. La immagino in una dimensione di pura luce abbracciata alla sua compagna di quelle giornate maledette.

Donatella e Rosaria, ricordiamole con un fiore.

In questo servizio della redazione di Fanpage le toccanti e preziose testimonianze di Roberto Colasanti e Letizia Lopez, fratello e sorella delle due vittime.



I PERCHE’ DI UN CRIMINE

1975 – Sulla stampa Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini si scontrano in un acceso dibattito nell’analizzare le ragioni profonde del massacro del Circeo. Calvino pone in evidenza il conflitto di classe tra i carnefici, ricchi pariolini neofascisti, e le vittime di umili origini provenienti da una zona periferica di Roma Sud. Per Pasolini questa contrapposizione non vale più: la cancrena non si diffonde da alcuni strati della borghesia, contagiando il Paese e quindi il popolo; c’è una fonte di corruzione assai più lontana e totale: “è il consumismo prescritto dal capitale dice Pasolini – che ha generato una devastante mutazione antropologica”. La disputa si interrompe brutalmente la mattina del 1 novembre 1975 quando si scopre il cadavere martoriato dell’intellettuale bolognese. Ma questa (forse) è un’altra storia…


di Tania Brando – Genoa News Chronicle / Io reporter

QUEI NAZISTI SALVATI A GENOVA

di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io, reporter

ft_1200x630px-Codice-ODESSA-la-piu-grande-fuga-di-criminali-della-storia-Loris-GiuriattiKlaus Altmann, Otto Pape, Riccardo Klement, Helmut Gregor…Ad una prima sommaria lettura questi nomi tedeschi non dicono nulla. E’ la formazione di una squadra di calcio? Sono generalità prese a caso da un vecchio elenco telefonico? A chi appartengono? La risposta è tutta racchiusa in un piano segreto assolutamente sconvolgente. Un piano che ebbe a Genova il suo snodo cruciale.

NOME IN CODICE: OPERAZIONE ODESSA

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Dopo la sconfitta di Hitler, numerosi gerarchi nazisti trovarono rifugio in Sudamerica (soprattutto in Argentina): criminali di guerra come Adolf Eichmann, Nikolaus Barbie e Josef Mengele, passati da Genova tra il 1949 e il 1951, ma anche Friedrich Rauch, l’ufficiale che aveva svuotato per conto del Führer la Banca centrale tedesca. Lungo la “rotta dei topi” fuggirono anche ustascia croati, collaborazionisti belgi e filo-nazisti francesi. Ad organizzare la fuga fu la misteriosa ed efficiente Organisation der ehemaligen SS-Angehorigen, nome in codice Odessa. In molti hanno cercato i segreti di Odessa: tra questi il giornalista Uki Goni che ho avuto il privilegio di incontrare e intervistare a Genova il 28 ottobre 2003. A lui si deve l’inchiesta più approfondita e documentata su una delle pagine più oscure della storia recente. Un esempio di giornalismo investigativo grazie al quale è stato possibile ricostruire l’intreccio di complicità inconfessabili che hanno permesso a centinaia di criminali nazisti di godere una seconda esistenza in incognito, lontani da Tribunali di guerra e cacciatori di taglie. Chi li ha protetti? Chi ha finanziato la loro fuga? Su quali forze si reggeva l’Internazionale Nera? Le risposte sono ormai note e ancora oggi fanno rabbrividire. I gerarchi nazisti, i responsabili operativi dello sterminio degli ebrei, i perversi teorici della tortura, sono stati protetti da accordi intercorsi tra il Governo del presidente argentino Juan Domingo Peròn e la Chiesa cattolica.

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Buenos Aires 1973 – Juan Peron e la moglie Isabel

Non solo. Per la loro salvezza si attivarono autorità elvetiche, alte sfere del Vaticano e servizi segreti di diversi paesi occidentali. In Sudamerica trovarono riparo sanguinari collaboratori di Hitler e tesori sterminati: nella sola Argentina, ad esempio, venne trasferito il tesoro di stato della Croazia, frutto della spoliazione di 600mila ebrei e serbi. Un’operazione di salvataggio efficace e sommersa comprovata da testimonianze attendibili e decine di documenti risparmiati dai tritacarte e riordinati da Uki Goni in sei anni di indefesso lavoro. Tuttavia, di fronte all’evidenza delle prove, il Vaticano e le alte sfere ecclesiastiche hanno sempre opposto un ostinato silenzio. Mai una parola, un’ammissione, una scusa. Nemmeno dagli ultimi Papi, ironia della sorte proprio un tedesco e un argentino. 

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Silenzi vergognosi e muri di gomma che da sempre sono i migliori alleati del negazionismo imperante (fabbrica sempre efficiente di false notizie) e del revisionismo dissennato incapace, ormai, di distinguere gli innocenti dai criminali, la parte giusta da quella sbagliata. Del resto, anche di fronte all’evidenza storica si continua a gridare, oggi più di ieri, al complotto sionista. Segno che il nazismo non è morto.

NAZISTI, LA GRANDE FUGA

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Sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, il Sudamerica ha accolto schiere di uomini, tutti di lingua tedesca e con un passato da nascondere. Scendevano da motonavi partite da Genova o sbarcavano da battelli approdati nottetempo sulle coste della Patagonia; impossibile riconoscere in quelle figure dall’aspetto dimesso, gli sgherri hitleriani che fino a poche settimane prima, protetti dalle divise delle SS, torturavano, uccidevano e avviavano moltitudini di innocenti alle camere a gas e ai forni.

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In Brasile, Argentina o Paraguay quelle ombre anonime dai volti impiegatizi avrebbero vissuto il crepuscolo delle loro esistenze. Esistenze maledette.

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Il boia delle Fosse Ardeatine Erich Priebke salutato con gli onori dalla Polizia argentina

Verso il Sudamerica sono confluiti non solo uomini, ma anche quintali di oro. Testimoni hanno raccontato i viaggi avventurosi di casse colme di tesori trafugati dai nazisti e trasportate in nascondigli sulle montagne andine. Secondo ulteriori resoconti, (queste sì leggende metropolitane), lo stesso Hitler trascorse gli ultimi giorni della sua vita tra Argentina e Brasile, dove si troverebbe ancora oggi sepolto. Voci, solo voci, che necessitavano ovviamente di prove inoppugnabili e di verità storiche. Uki Goni, nelle sue ricerche, ha svelato con precisione inganni e connivenze, ha mostrato documenti post-bellici, lasciapassare, accordi segreti e carte che dimostrano la diretta complicità del Vaticano e dell’Argentina peronista nell’assistenza e nella protezione dei fuggiaschi nazisti. Del resto, il legame tra nazismo e cattolicesimo fu il detonatore che accese l’infatuazione dell’élite argentina per Hitler.

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Già alla fine degli anni Trenta, l’Argentina ubriaca di antisemitismo, aveva chiuso i suoi confini agli ebrei minacciati dal nazismo. Alcuni perseguitati riuscirono a farsi passare per cattolici, altri pagarono le salate tangenti chieste da diplomatici e funzionari argentini dell’Immigrazione. “Quante migliaia di persone in più si sarebbero potute salvare se i burocrati di Buenos Aires avessero mostrato un minimo di decenza umana?“, si chiede Goni. L’Argentina divenne ben presto un centro di riciclaggio del denaro proveniente dal racket delle estorsioni messo in piedi dai nazisti. Questi ultimi concedevano agli ebrei più facoltosi visti d’uscita dai territori occupati in cambio di grosse somme di denaro in valuta estera. Veri e propri ricatti.

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Le liste di 12mila nazisti e i rispettivi tesori sottratti agli ebrei. Le carte scovate in una banca argentina

Goni ha alzato il sipario su una miniera di episodi. Racconta che suo nonno, console argentino a San Francisco, Vienna, Genova e La Paz, dovette gestire moltissime richieste di ebrei che desideravano entrare in Argentina dalla Bolivia. Un giorno una giovane e bellissima donna svuotò sulla sua scrivania una borsa piena di gioielli, ma non essendo riuscita a convincerlo, si spogliò e gli si offrì, invano, in cambio del permesso d’ingresso. Questo era il clima. Molti ebrei morirono nel tentativo di varcare a piedi il confine con l’Argentina, uccisi, rapinati o abbandonati al loro destino dalle guide che avevano assoldato. Nell’Argentina filonazista, insomma, gli ebrei perseguitati non potevano entrare, ma i nazisti sì. Alla fine della guerra alcuni fedelissimi di Hitler, che avevano sulla coscienza milioni di vite di ebrei, cercarono rifugio tra le braccia della chiesa cattolica, altri offrirono la propria esperienza di anticomunisti ai servizi segreti alleati. Molti capi delle SS per sottrarsi ai processi, il più noto quello celebrato a Norimberga, iniziarono a inventarsi un falso passato, attraverso un campionario di raggiri e metamorfosi che culminavano quasi sempre nel cambio di identità e dei connotati.

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In Argentina, paese reso ricco dalle esportazioni di carne, i nazisti in fuga si installarono soprattutto nella capitale Buenos Aires o a San Carlos de Bariloche, località sciistica della Patagonia circondata dalle Ande, una piccola Svizzera. Quelle che conducevano erano esistenze sotto traccia, quasi monacali. Dalla banalità del male al quieto vivere: lavori tranquilli, la protezione discreta del governo peronista, gli affetti familiari in case ovattate. Solo alcuni si abbandonarono alle tentazioni offerte dalla movida viziosa di Buenos Aires, con i suoi locali di tango, i night animati da bellissime prostitute di importazione e i bordelli della Boca, il fatiscente quartiere a sud della metropoli animato da immigrati italiani.

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Tra le poche distrazioni degli ex gerarchi qualche incontro conviviale per ricordare in compagnìa i bei tempi andati e soprattutto l’attività del mensile Der Weg” (foto sopra) che i nazisti rifugiati in Sudamerica sovvenzionavano, scrivevano e distribuivano anche nella lontana Germania. In pochi anni “Der Weg” divenne l’organo di informazione di un “Quarto Reich” in Argentina, il mezzo per diffondere il culto nazista nel mondo.

GENOVA, SNODO DELLA RATLINE

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Genova portuale e socialista, Genova che da sola costrinse alla resa le forze di occupazione nazista, Genova, medaglia d’oro della Resistenza, è stata anche l’avamposto europeo dell’operazione Odessa. Sembra incredibile, ma tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, nella capitale italiana dell’antifascismo, molti nazisti di primo piano hanno potuto contare su una rete di sostegno, neppure troppo clandestina, organizzata dalla diplomazia argentina con la benedizione dell’ultraconservatore e potentissimo Cardinale Giuseppe Siri (foto sotto). In una nota del Central Intelligence Group, datata 21 gennaio 1947, Siri viene segnalato come referente di “un’organizzazione internazionale il cui scopo era favorire l’emigrazione di europei anticomunisti in Sudamerica”. Mentre altri due rapporti inviati a Washington quello stesso anno sottolineano come i nazisti in arrivo a Genova, non solo fossero assistiti da dignitari cattolici, ma che la Pontificia Commissione di Assistenza avesse a tal fine persino aperto un ufficio alla stazione Principe. Un centro che faceva capo all’Auxilium. Il 21 settembre 2003 il cardinale Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, garantiva che la Chiesa «era pulita», che non aveva favorito quelle fughe e, per spazzare ogni sospetto, annunciava l’apertura di una controinchiesta affidata a un pool di esperti incaricati di confutare le tesi di Uki Goni, rilanciate in Italia da Il Secolo XIX. Da allora sono passati molti anni, ma dei risultati di quella commissione non si è avuta più notizia. È davvero possibile che la curia genovese fosse del tutto ignara di quanto stava avvenendo in città? Perchè l’archivio privato del Cardinale Giuseppe Siri è tuttora inaccessibile? Domande aperte soffocate dall’afasia di chi avrebbe dovuto rispondere. 

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Chiesa cattolica e governo argentino agirono su binari paralleli. Peròn aveva insediato in Italia un’organizzazione nota col nome di DIAE, Delegazione per l’immigrazione argentina in Europa. La DIAE godeva di uno status semidiplomatico; aveva uffici a Roma, dove veniva gestito tutto il lavoro amministrativo, e a Genova, dove chi voleva emigrare in Argentina doveva sottoporsi a un esame sanitario effettuato da medici argentini. Negli uffici genovesi della Diae, in via Albaro 38, fior di gerarchi nazisti ottennero il via libera verso il Sudamerica. Tutte le pratiche venivano raccolte in fascicoli numerati presso il Centro dell’immigrazione a Buenos Aires. Si è così scoperto che dagli uffici di Albaro della Daie, dal 1947 al ’51, erano passati non solo Mengele, Eichmann, Barbie e camerati più o meno noti, ma anche centinaia di “figure minori”, di sterminatori e seviziatori al servizio della follia nazista che in quell’edificio genovese trovarono una nuova identità, un visto per entrare in Argentina e un passaporto rilasciato dalla Croce Rossa. I passaporti della Croce Rossa erano poco più che un attestato introdotto negli anni del dopoguerra per ridare un’identità ai molti che, nelle vicissitudini del conflitto mondiale, avevano perso (o distrutto) il proprio documento. Identità che, nella maggior parte dei casi, veniva certificata da testimoni accreditati. Ed è proprio grazie alle copie di questi passaporti conservati nella sede centrale di Ginevra della Croce Rossa che si è potuto ricostruire la rotta genovese dei fuggiaschi, determinare dove avevano alloggiato in città e, soprattutto, chi aveva garantito per loro. Solo nel 1948 approdarono in Argentina, su transatlantici di linea, i famigerati Eichmann, Mengele, Priebke e Schwammberger. In una lettera il vescovo Alois Hudal (foto sotto), sostenitore di Hitler, chiedeva (e poi otteneva) al Presidente Peròn “visti di espatrio per 5mila soldati tedeschi e austriaci, combattenti anti-comunisti il cui sacrificio in guerra aveva salvato l’Europa dal dominio sovietico”.

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Proprio a Genova Monsignor Hudal stipulò un accordo segreto con polizia e carabinieri: anzichè arrestare nazisti ricercati, i carabinieri accettarono di indirizzarli verso chiese e conventi indicati dal vescovo. Ma un giorno quell’accordo si ruppe a causa di un episodio poco conosciuto. Accadde che 110 nazisti, dal ponte di una nave in partenza da Genova, sentendosi ormai al sicuro, iniziarono a intonare canti hitleriani e rivolgere offese ad un gruppo di carabinieri che stazionavano in banchina. Ultrà ante litteram. Un tripudio di oscenità e saluti romani all’indirizzo dei militari italiani. Sfortunatamente per gli sfrontati nazisti, la nave ebbe un guasto tecnico e dovette rientrare in porto. I fuggiaschi tedeschi furono così accolti – o meglio presi in consegna – dai carabinieri e come si può immaginare gli abbracci non furono affettuosi…Sempre a Genova l’organizzazione Odessa indirizzava i suoi protetti all’hotel Nazionale di via Lomellini 6, tra la centralissima piazza De Ferrari, la stazione ferroviaria di Genova Principe e il porto passeggeri, una posizione ideale per chi si apprestava a fuggire. In quell’albergo molti nazisti, prossimi all’imbarco, trascorsero l’ultima notte prima di lasciare l’Europa dove sino a pochi mesi prima avevano seminato orrore e dolore. Sicuramente Eichmann, il suo assistente Hans Fischbock e Barbie alloggiarono alcuni giorni nell’hotel di via Lomellini, assistiti durante il soggiorno genovese da Krunoslav Draganovic, prelato ungherese e criminale di guerra croato legato sia al Vaticano, sia ai servizi segreti americani.

QUEI SANGUINARI SALVATI DALLA CHIESA

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Dunque, tra le iene naziste aiutate dalla Chiesa cattolica sulla via dell’Argentina figura lo sterminatore delle SS Klaus Barbie (foto sopra), capo della Gestapo, descritto sui libri di Storia come il “macellaio di Lione” per aver pianificato l’enorme eccidio di ebrei francesi. I suoi sistemi erano spicci e crudeli. Aveva stabilito il suo quartier generale all’Hotel Terminus di Lione che divenne il luogo per le sue torture ai danni dei sospettati. Ma non soltanto le persone che in qualche modo avevano legami con la Resistenza erano le sue vittime. Barbie aveva escogitato il sistema di rastrellare a caso i passanti per le strade di Lione e di torturarli sino a che qualcuno, stremato dal dolore, non si decideva a rivelare qualcosa…qualsiasi cosa. Fu Barbie, che dopo aver scovato 44 bambini ebrei nascosti nel villaggio di Izieu, li deportò ad Auschwitz. Nel settembre 1944, all’avvicinarsi delle truppe americane, Barbie bruciò tutti gli archivi della Gestapo di Lione e fece uccidere un centinaio di persone che conoscevano la sua attività. Eliminò anche 22 agenti che lavoravano per suo conto e che si erano infiltrati nella Resistenza. Dopo la guerra si riciclò come informatore anticomunista per i servizi segreti americani che gli restituirono il favore consegnandolo all’organizzazione Odessa per favorirne l’espatrio in Sudamerica. Nel marzo del ’51 arrivò a Genova, tranquillamente in treno, e ad accoglierlo alla stazione Principe trovò il sacerdote croato Krunoslav Draganovic che aveva controfirmato il suo passaporto attestandone le false generalità. Con il nome di copertura di Klaus Altmann, il “macellaio di Lione” soggiornò nell’albergo Nazionale di via Lomellini 6 in attesa di imbarcarsi, il 22 marzo, sul piroscafo argentino Corrientes. La destinazione per lui non fu l’Argentina di Peron, ma la Bolivia.

Ecco Barbie (foto sotto) in versione borghese da tranquillo signore in vacanza fotografato a Lima, in Perù, nel gennaio del 1972. 

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A Genova – riferisce Uki Goni nel suo libro “Operazione Odessa” –  Draganovic si assicurò che Barbie non si annoiasse. L’SS e il colonnello ustascia frequentarono insieme night club e ristoranti. Alla fine, il 22 marzo 1951, Barbie si imbarcò a Genova sul transatlantico di linea “Corrientes” con un gruppo di altri nazisti, giungendo tre settimane dopo a Buenos aires, da dove, al termine di una breve sosta in città, proseguì (sotto falso nome) per la Bolivia”.

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Ma chi furono i principali attivisti dell’Operazione Odessa? Il nucleo operativo era sicuramente composto da una quarantina di elementi. Una cricca assortita che comprendeva criminali di guerra, scienziati, giornalisti, cardinali, banchieri. Ecco un breve profilo di coloro che tirarono le fila dell’organizzazione a Genova: Edoardo Domoter, prelato ungherese a capo della parrocchia francescana di Sant’Antonio a Genova Pegli. Fu lui a procurare il passaporto della Croce Rossa al criminale delle SS Adolf Eichmann, diretto in Argentina con il falso nome di Ricardo Klement, nato a Bolzano e figlio di N.N. (così allora venivano definiti negli atti ufficiali i figli cosiddetti illegittimi).

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La belva che aveva pianificato e diretto i campi di sterminio di Hitler pensava di averla fatta franca. Era arrivato a Genova “solo” nella tarda primavera del 1950. In attesa del passaporto e dell’imbarco sulla motonave Giovanna C., in partenza per Buenos Aires il 17 giugno del 1950, aveva trovato alloggio in un albergo al numero 29 di via Balbi. Poi, una volta sbarcato a Buenos Aires il 14 luglio, era ripartito alla volta della lontanissima Tucuman, alle pendici delle Ande, dove lo aspettava un oscuro lavoro in un’industria meccanica. Con il passare degli anni, il vecchio criminale nazista aveva maturato la convinzione che il mondo si fosse dimenticato di lui. Si era trasferito con la famiglia nei dintorni di Buenos Aires dove aveva trovato un lavoro di tecnico nella filiale della Mercedes; faceva metodicamente la spola fra l’officina e la casa, ogni giorno a ore fisse, come un impiegato qualsiasi. E’ stato allora che gli 007 del Mossad, l’implacabile servizio segreto israeliano, fecero scattare la trappola. Nove giorni dopo la cattura, vestito grottescamente con una divisa da steward e narcotizzato, Eichmann veniva imbarcato sul volo ufficiale di una delegazione israeliana, verso il processo, che due anni più tardi, nel 1962, si sarebbe concluso con l’inesorabile condanna a morte. La posizione di una parte consistente della Chiesa rispetto ad uno dei massimi artefici dell’Olocausto, venne condensata in una dichiarazione dell’alto prelato argentino Antonio Caggiano, nominato cardinale da Papa Pio XII. Nel 1960, deprecando la cattura di Eichmann da parte d’Israele, Caggiano affermò: “Il nostro obbligo in quanto cristiani è perdonarlo per quanto ha fatto“.

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Adolf Eichmann sotto processo prima della condanna a morte

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La prima linea dell’organizzazione Odessa operante a Genova comprendeva inoltre Carlos Fuldner, principale agente dell’organizzazione salva-nazisti di Peròn, ex capitano e agente speciale dei servizi segreti delle SS. Nel 1948, nella veste di agente speciale di Peròn, aprì alcuni uffici per il salvataggio di nazisti a Genova e a Berna ed organizzò il trasferimento in Argentina di Adolf Eichmann, Josef Mengele, Erich Priebke, Josef Schwammberger e Gerhard Bohne. Ivo Heinrich, criminale di guerra croato e consigliere finanziario di Ante Pavelic, il dittatore fantoccio della Croazia. In Argentina vendette parte dell’oro nazista. Il vescovo austriaco Alois Hudal, come abbiamo visto, tra i principali agenti del Vaticano nell’opera di salvataggio dei nazisti. Fu lui ad organizzare la fuga di Franz Stangl (foto sotto), comandante di Treblinka, il terribile campo di sterminio dove furono assassinati 900mila esseri umani, secondo solo ad Auschwitz per intensità delle stragi.

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Reinhard Kops, spia nazista. Assistente del vescovo Hudal, fu cooptato da Peròn nell’ufficio di Genova dell’organizzazione salva-nazisti denominata SARE. Charles Lesca, criminale di guerra francese nato in Argentina, organizzò il primo corridoio di fuga in Argentina per gli agenti segreti delle SS. Altra figura cruciale Don Carlo Petranovic, ex cappellano militare delle milizie ustascia di Ante Pavelic, punto di riferimento dell’Operazione Odessa all’interno del porto di Genova da dove faceva imbarcare i fuggiaschi nazisti sulle navi dirette in Argentina. La storia genovese di Don Carlo cominciò nei primi mesi del 1946 con un biglietto di presentazione scritto dal cardinale di Milano Ildebrando Schuster e inviato all’arcivescovo Giuseppe Siri. Con questo viatico il sacerdote croato si stabilì a Genova ed è qui, che fino ai primi mesi del ‘52, gestì direttamente la trama di rapporti tra Vaticano, Croce Rossa, Auxilium e Comitato nazionale per l’emigrazione in Argentina. In città Petranovic alloggiava in una cella del convento benedettino del Boschetto, sopra Fegino, ed ebbe, rivelano alcune fonti, un rapporto personale e costante con il cardinale Siri che dell’Auxilium e del Comitato nazionale per l’emigrazione in Argentina era il referente principe. E’ peraltro noto che Petranovic usasse la Mercedes nera del Cardinale Siri con targa diplomatica della Città del Vaticano; viaggiava spesso di notte tra Genova e Roma, e ritornava sempre di notte non staccandosi mai da una “valigia diplomatica”. C’è chi dice che contenesse proprio i passaporti in grado di garantire una nuova vita ai nazisti e agli ustascia in fuga da Genova. Lui stesso, nel corso di un’intervista rilasciata nell’89 a Mark Aarons e a John Loftus, autori del saggio “Unholy Trinity”, si vanterà di essere stato molto vicino al cardinale genovese dichiarando di avere aiutato 2mila persone a imbarcarsi a Genova.

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Uno dei documenti falsi di Adolf Eichmann

Franz Ruffinengo, impiegato nell’ufficio di Genova della SARE. A Buenos Aires aprì un’agenzia di viaggi che si specializzò nel far immigrare illegalmente nazisti in Argentina. A questi “gentiluomini” si affiancò una squadra speciale organizzata direttamente dal Presidente Peròn. Tra i personaggi di maggior spessore criminale ricordiamo Jacques de Mahieu, reduce della divisione Waffen-SS “Carlo Magno”. Negli anni Sessanta, mentre dirigeva una sezione del partito peronista a Buenos Aires, era ancora attivissimo nell’offrire aiuti ai nazisti. Tristemente famose le sue conferenze gremite di fanatici che al solo udire la parola ebreo tuonavano inebriati Sapone!, Sapone!. Concluse la sua vita da estremista di destra nel 1989 dopo essersi battuto a favore del candidato alle presidenziali Carlos Menem. Un altro elemento di spicco fu Jan Durcansky, (per gli amici Don Giovanni) responsabile, tra il novembre 1944 e l’inizio del 1945, dell’omicidio di massa, in Cecoslovacchia, di circa 1300 prigionieri di guerra in gran parte francesi e americani. In un caso 400 vittime vennero fatte inginocchiare, quindi furono trucidate e gettate in un forno di calcinazione; in altri due casi, 900 persone tra cui donne e bambini vennero sterminate a colpi di mitragliatrice e gettate in due trincee. Solo due anni dopo Durcansky venne cooptato, direttamente da Peròn, nell’Ufficio immigrazione argentino, dove provvide ad accelerare la concessione di domande di cittadinanza e permessi di sbarco ai fuggitivi nazisti. Nell’agosto del 1947 giunse in missione a Genova, sotto il falso nome di Giovanni Dubranka, per organizzare la più grande fuga di criminali hitleriani mai registrata negli annali del crimine.

IL CASO PRIEBKE

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Nel 1948 Erich Priebke è un tedesco con le spalle al muro. I cacciatori di nazisti lo cercano. A Roma lo ricordano con orrore per quel suo inconfondibile ghigno demoniaco sfoderato durante la strage delle Fosse Ardeatine, a memoria d’uomo il più osceno eccidio di massa mai compiuto in una città italiana nel corso del Novecento: 335 civili prelevati e assassinati con modalità disumane. La cronaca dei fatti è tristemente nota. 23 marzo 1944: una compagnìa di soldati tedeschi del Tirolo, nel corso di un sopralluogo in Via Rasella a Roma, viene falcidiata da un attentato dinamitardo organizzato da una formazione di 12 gappisti partigiani. Il bilancio è pesante: 33 reclute altoatesine e 2 civili (tra cui un dodicenne) muoiono investiti dalle esplosioni di un ordigno artigianale e di quattro bombe a mano.

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La reazione nazista è devastante. Appellandosi alla legittimità dell’atto di guerra e ad un arbitrario e controverso “diritto di rappresaglia” Hitler stabilisce che per ciascun soldato tedesco morto nell’attentato saranno trucidati dieci italiani. Nel volgere di poche ore gli uomini del tenente colonnello delle SS Herbert Kappler e del suo fidato capitano Erich Priebke radunano 335 italiani (5 in più per un sadico “errore di calcolo”), tra condannati a morte in attesa di esecuzione, carcerati in attesa di giudizio ed ebrei. Il 24 marzo le vittime designate vengono condotte alla periferia di Roma, all’ingresso di alcune cave chiamate Fosse Ardeatine. E’ una folla dolente che comprende partigiani, artigiani, camerieri, musicisti. Il più giovane ha 14 anni, il più anziano 75. A tutti vengono legate le mani dietro la schiena. Alle tre del pomeriggio lo sterminio ha inizio: a gruppi di cinque, i condannati spariscono all’interno della cava. Priebke è tra i boia in camicia bruna che ad ogni esecuzione cancella i nomi dall’elenco. Fino alla fine dei suoi giorni (morirà centenario nel 2013) ammetterà di aver sparato solo due volte. Lo scenario è infernale. Le Fosse Ardeatine, racconteranno i medici legali, sono una gigantesca rappresentazione dell’orrore. Gli stessi carnefici tedeschi, non riuscendo a tollerare la crescente pila di cadaveri, vengono rianimati fino a tarda sera con razioni ripetute di superalcolici. Le conseguenze sono raccapriccianti. Alcuni soldati del plotone di esecuzione, completamente ubriachi e sconvolti, sbagliano mira e non colpiscono gli organi vitali. Così, molte vittime vanno incontro ad una morte lenta e doppiamente atroce.

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Torniamo al 1948. Per il crimine abbietto delle Fosse Ardeatine, perpetrato quattro anni prima, Herbert Kappler viene condannato all’ergastolo da un tribunale di Roma. La pressione popolare per catturare anche il suo braccio destro Priebke è forte e sacrosanta. Se la maggioranza chiede giustizia, alcuni gruppi di ex partigiani di orientamento comunista, ancora ben armati, cercano la vendetta. E Priebke, ovviamente, lo sa. Su di lui, peraltro, si addensano altre ombre: molti testimoni lo avevano descritto tra gli ufficiali più avidi nel compimento delle seguenti “operazioni”: il rastrellamento di oltre 2mila ebrei romani spediti ad Auschwitz e condannati allo sterminio, l’estorsione di 50 chili di oro alla comunità ebraica, il saccheggio della Banca d’Italia durante l’occupazione nazista della capitale e gli interrogatori a base di torture (come sarà sentenziato il 22 luglio 1997 dal tribunale militare di Roma); tra i suoi strumenti prediletti il pugno di ferro e le scosse elettriche da applicare ai genitali dei prigionieri (lo stesso sistema utilizzato dai gauchos argentini nei mattatoi e che, nella versione della picana, sarà utilizzato come strumento di tortura dai regimi sudamericani negli anni Settanta e Ottanta. L’ennesimo, tangibile segno della continuità tra nazismo e dittature militari).

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Criminale di guerra, ma non solo. Priebke aveva dato prova di abilità diplomatica tessendo proficue relazioni segrete tra il comando di occupazione nazista e il Vaticano. Contatti utilissimi che adesso, nel 1948, lo salveranno. Sotto lo pseudonimo di Otto Pape, Priebke si imbarca a Genova assieme alla moglie e ai figli, sul piroscafo San Giorgio, con un biglietto di terza classe. Sbarcato a Buenos Aires lavora come lavapiatti e cameriere. Nel 1954 si trasferisce a Bariloche, la “piccola Svizzera” in salsa argentina, così simile a una località dell’amato e lontano Tirolo. A Bariloche Priebke si sente a casa. Incontra e frequenta i “fratelli” camerati che qui hanno trovato rifugio a decine. “Don Erico” (così viene chiamato in Argentina) è un cittadino modello, una figura rispettata, direttore dell’Associazione culturale tedesco-argentina e della sua scuola tedesca che vanta più di mille studenti, alcuni dei quali ebrei. Il boia delle Fosse Ardeatine è anche un commerciante apprezzato. Il suo negozio di gastronomia “Vienna” è il più rinomato della città per il taglio e la bontà delle sue carni. Tutto cambia nel 1994. “Primetime”, seguitissimo programma giornalistico della testata americana ABC, lo scova grazie ad una “soffiata” del Centro Simon Wiesenthal, il centro di documentazione ebraica sull’Olocausto intitolato al celebre cacciatore di nazisti. Il famoso giornalista d’assalto Samuel Donaldson si mette alle calcagna di Priebke, lo segue lungo le strade di Bariloche, lo chiama con il suo vero nome…Mister Priebke! Nasce così la clamorosa intervista che svela al mondo il nascondiglio dell’ex capitano delle SS che fece tremare Roma. E’ la svolta di una seconda vita che sembrava ormai incardinata in una quotidianità senza sussulti.



Le reazioni allo scoop della ABC sono enormi. Lo scandalo dei nazisti liberi e protetti ha una risonanza internazionale. I milioni di morti, le vittime della barbarie nazista, vengono uccisi una seconda volta. In Italia le vecchie ferite riprendono a sanguinare. Il 10 maggio 1994, Emanuela Audisio, giornalista de “la Repubblica” firma la prima, vera intervista ad Erich Priebke. E’ una conversazione lunga e ragionata, densa di particolari e rivelazioni sconcertanti che apriranno la strada alle grandi inchieste giudiziarie e giornalistiche sulla “ratline“, la grande fuga dei seguaci di Hitler. Per Priebke, diventato improvvisamente scomodo anche per l’Argentina, si apriranno le porte per l’estradizione in Italia. Di seguito i passaggi cruciali dell’intervista:

Priebke, lei vive in Argentina. Chi l’ha aiutata a fuggire?

“L’aiuto venne da un padre francescano, no, non ricordo il nome. Ci disse: per la Germania non posso fare niente, ma se vi accontentate dell’Argentina posso aiutarvi. Dissi di sì. Anche perché era nel ’48 ed erano due anni che sotto mentite spoglie lavoravo in campagna, un lavoro molto duro. Inoltre non potevo più contare sulla mia bella casa che era stata requisita a mia moglie dai carabinieri”.

E andò a Genova

“Sì. Ma non è vero che il Vaticano dava soldi per la fuga. Per comprare i biglietti della nave, era un cargo italiano, vendemmo tutta la nostra roba. Solo che non potevo partire con il mio passaporto e chiesi aiuto al Vaticano, che tramite il vescovo Alois Hudal si disse pronto ad aiutarmi. Mi diede anche una mano padre Pfeiffer, ora morto, che spesso quando ero a Roma mi aveva chiesto clemenza per i prigionieri. Partii con un passaporto bianco con le insegne della Croce Rossa, idem mia moglie e i ragazzi. In seguito ho sentito dire molte cose, della facilità con cui a quei tempi il Vaticano procurava non solo nuove identità, ma anche soldi. A me il denaro non l’hanno dato, e nemmeno a quelli con cui ho parlato in seguito. Ho sentito parlare di un codice Odessa, di una catena di aiuti a ex nazisti, ma di questa ratline non so niente. E’ probabile che il Vaticano avesse una sua rete di conventi e monasteri dove nascondere gente, ma bisogna anche dire che il Vaticano aiutava tutti, anche gli ebrei, non solo noi tedeschi”.

Lei si definirebbe un assassino?

“Sì, uno alle Fosse Ardeatine l’ho ammazzato. Era l’ordine. Ma quello che voglio dire è che a noi ufficiali dei morti in via Rasella non importava niente. Non erano nostri ragazzi, erano del Tirolo, più italiani che tedeschi. I poliziotti italiani ci portarono cinque persone in più. C’era stato un errore. Non so come sia potuto accadere. Nessuno di noi pensava o voleva vendicarsi, l’ordine arrivò molto dall’alto. Eravamo schifati, non riuscivamo a capire come un tedesco potesse fare questo, ma Kappler fu inflessibile, costrinse a sparare anche il cuciniere”.

E’ preoccupato della richiesta di estradizione e del mandato di arresto appena firmato?

“Sì, sono molto preoccupato e angosciato. Non mi va di lasciare sola mia moglie. Roma è una bella città, l’ho amata molto, ma tornarci alla mia età e da prigioniero proprio non mi va giù. Anche perché in Argentina non è più come una volta, l’estradizione viene concessa spesso. Avessi saputo che capitava tutto questo non avrei mai detto quelle cose alla tv americana. Sono stato uno stupido. Qualche amico mi ha consigliato di andare in Germania, dove non sarei mai estradato, ma per adesso non voglio”.

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Se verrà estradato farà i nomi di altri suoi colleghi nella sua stessa posizione?

“Credo di sì. Alcuni di loro vivono o hanno vissuto alla fine della guerra per molto tempo nei dintorni di Roma, in Italia insomma. Ce n’era uno che è rimasto perché era fidanzato con una ragazza ed è stato addirittura scelto come comparsa in un film che hanno girato sulle Fosse Ardeatine. Lo hanno preso e messo in divisa perché dicevano che sembrava un perfetto tedesco. Lo stesso Harster, che era il mio capo e che contava molto più di me, veniva ogni anno a vedere gli spettacoli all’Arena di Verona. Senza mai essere fermato. E’ morto due anni fa, ogni tanto ci sentivamo, ci scambiavamo gli auguri a fine anno. Peccato, perché poteva essere un buon testimone”.

Il 21 novembre del 1995 Priebke, finalmente estradato, arriva in Italia, dove viene recluso nel carcere militare di Forte Boccea, a Roma, e interrogato dal procuratore militare Antonino Intelisano. Il lungo iter processuale e giudiziario si conclude il 16 novembre 1998, quando la Corte di Cassazione si pronuncia per la conferma definitiva della condanna all’ergastolo. Pochi mesi dopo, anche a causa della sua età avanzata, a Priebke vengono concessi gli arresti domiciliari in un appartamento di 100 metri quadrati a Roma, di proprietà dell’avvocato Paolo Giachini, che lo assisterà  personalmente negli ultimi anni (foto sotto).

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Sulle sponde del Lago Maggiore, a Varese e nei dintorni di Salò (sede di quella tetra Repubblica che rappresentò l’ultimo atto della vicenda”mussoliniana”, il colpo di coda decadente e violento del nazifascismo) trovarono protezione ed accoglienza molti ex gerarchi delle SS, tra cui lo stesso Priebke. Ancora oggi in quei territori lombardi, avamposti dell’Internazionale Nera, si danno appuntamento nostalgici in camicia nera, cultori del nazismo, seguaci dell’estrema destra. Qui, ogni 20 aprile, nel giorno del compleanno di Hitler, si organizzano festosi raduni, si promuovono iniziative culturali e convegni per fare proseliti tra le nuove generazioni; si diffondono concetti folli e dannati, come la superiorità della pura razza bianca o si affermano posizioni tra loro vigliaccamente contrapposte come la negazione dell’Olocausto o la rivendicazione dello stesso “per sterminare gli ebrei padroni della finanza mondiale e origine di tutti i Mali del mondo…”

Aspetti indagati nel corso di una sconvolgente inchiesta giornalistica intitolata il LAGO NERO, trasmessa da La7 il 22 aprile 2024



Priebke muore all’età di 100 anni l’11 ottobre 2013. Viene trovato privo di vita, all’ora di pranzo, sul divano della sua abitazione di via Cardinal Sanfelice a Roma. In un video, registrato qualche giorno prima, rivendica con orgoglio il suo passato, nega l’evidenza dell’Olocausto e ribadisce le sue linee di difesa abituali: aver ucciso personalmente “solo” due ostaggi in ossequio alle leggi di rappresaglia e per obbedienza militare agli ordini del Führer. Quella delle Fosse Ardeatine, conclude, “é stata una tragedia che mi ha ossessionato a vita“.



BOHNE, LO STERMINATORE DEI DISABILI

Tra gli altri salvataggi eccellenti spicca quello di Gerhard Bohne, l’ufficiale delle SS che ebbe un ruolo di punta nel programma di eutanasia di Hitler, il tristemente noto Aktion T4 il piano di sterminio dei disabili. Nel suo saggio, il giornalista Uki Goni scrive: Circa due milioni di persone risultano essere state sterilizzate durante il Terzo Reich dietro ordine di Hitler. La stampa nazista aveva lanciato una grande campagna propagandistica in cui mostrava quanto costasse allo Stato mantenere le persone mentalmente e fisicamente handicappate e tentava di indurre la popolazione a credere che le risorse statali potessero essere meglio impiegate altrove. La soluzione più rapida ed economica? Lo sterminio. Nell’agosto 1941, quando Aktion T4 fu cancellato, un totale di 62.237 tedeschi con malattie incurabili, malati mentali e altre persone handicappate erano finiti nelle camere a gas, una prova di collaudo per i campi di sterminio di massa delle SS, il cui personale era spesso composto da veterani del T4″.

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Dunque, anche Bohne, il raffinato stratega di questo piano abominevole, venne protetto, assistito e salvato. Per sua stessa ammissione, ricevette denaro e documenti dagli agenti salvanazisti del Presidente argentino Peròn. Personaggio-chiave, anche in questo caso, Krunoslav Draganovic, il prete ungherese specializzato nell’accoglienza dei fuggiaschi arrivati a Genova. Il 7 gennaio 1949 Bohne e sua sorella Gisele furono ricevuti dal consolato argentino del capoluogo ligure. Espletate le formalità si imbarcarono sul transatlantico Ana C. con un biglietto di prima classe, giungendo a Buenos Aires il 29 gennaio 1949.

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Quando nel 1955 il Presidente Peròn venne spodestato, molti nazisti fecero ritorno in Germania per paura di restare senza protezione. Tra questi Bohne che tuttavia al suo rientro fu processato per il genocidio legato al programma T4. Rilasciato su cauzione, fuggì nuovamente in Argentina nel 1963. A Buenos Aires condivise un piccolo appartamento con la sorella che nel frattempo era diventata infermiera nell’ospedale tedesco della città. Arrestato nel 1964 fu rispedito in Germania dove però venne dichiarato incapace di affrontare un processo per motivi di salute.

UNA STORIA A PARTE: JOSEF MENGELE

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Con il nome di copertura di Helmut Gregor la Croce Rossa fu costretta ad ammettere che aveva rilasciato un passaporto a Josef Mengele (foto sotto), l’angelo della morte, il medico aguzzino di Auschwitz, la personalità luciferina che ha incarnato tutte le peculiarità del maligno insite nel nazismo. Pura crudeltà criminale. Le sue tetre sperimentazioni su gemelli, zoppi e nani compiute nel campo di sterminio sono la prova tangibile dell’esistenza di Satana.

da “Operazione Odessa” di Uki Goni

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A differenza di altri medici delle SS che per svolgere il loro compito disumano dovevano ubriacarsi, Mengele era sempre sobrio, freddo e cinico, sempre impeccabile nella sua uniforme di SS. Spesso fischiettava arie liriche mentre divideva la fila di vittime indicando col suo bastone da passeggio: a destra, a sinistra, la morte o l’inferno in terra. A volte correva su e giù lungo le file di detenuti urlando: “Gemelli! Gemelli! Gemelli!”, selezionando cavie umane per i suoi efferati esperimenti pseudoscientifici.

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Mengele tentò di ottenere un aumento manipolato del numero di parti gemellari per raddoppiare il tasso di nascite di bambini ariani per Hitler. «Ogni madre ariana, con un parto gemellare, potrà fornire un individuo in più alla razza la cui vocazione è quella di dominare le altre» era solito ripetere. Un altro dei suoi esperimenti consistette nell’iniettare dei coloranti negli occhi di bambini per vedere se poteva trasformarli in colore blu ariano. Dopo i test i bambini venivano inviati alle camere a gas. Mengele teneva appesi al muro campioni di occhi, dal giallo pallido al blu vivace. “Erano attaccati con degli spilli, come farfalle” disse un sopravvissuto di Auschwitz. “Pensai che fossi morto e che mi trovavo già all’inferno”.

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Qualcuno da quell’inferno è uscito vivo. I membri della famiglia di artisti Ovitz, conosciuti come i sette nani di Auschwitz, originari di un piccolo paesino della Transilvania, Rozavlea, hanno potuto raccontare la loro allucinante esperienza. Deportati nel campo di concentramento la sera del 19 maggio 1944, furono accolti da un eccitatissimo dottor Mengele. Appena li vide esclamò: “Ho lavoro per i prossimi vent’anni!”. Diventarono cavie umane, sopportando esperimenti bizzarri e crudeli. Furono fatti sfilare nudi per gli ufficiali e un film fu inviato a Hitler per il suo divertimento. Fu proprio questa loro caratteristica fisica a metterli in salvo. Prima dello scoppio della guerra, gli Ovitz girarono l’Europa esibendosi come “Lilliput” nei più grandi teatri. Nel 1937, quando Disney fece uscire il film “Biancaneve e i sette nani”, la popolarità delle persone di bassissima statura raggiunse l’apice: nel 1939, circa 1.500 nani lavoravano nel mondo dello spettacolo. Alla fine della guerra, sopravvissuti ad Auschwitz, i sette fratelli emigrarono in Israele, dove ripresero ad esibirsi. Ma, come racconta Perla, il trucco di scena riusciva a fare apparire il volto sorridente, ma il cuore dei sette fratelli ha continuato a sanguinare. “Siamo saliti su un treno con 40 carri bestiame, ognuno con 80 persone. Le finestre erano sbarrate, non capivamo dove stavamo andando. Ci portammo dietro gli attrezzi del mestiere… Eravamo confusi, e quando chiedemmo a un soldato dove ci portavano ci disse: “Non importa, nessuno fa ritorno…” Eravamo arrivati ad Auschwitz”. Scesi dal treno, uno dei fratelli iniziò a distribuire biglietti da visita. “Non venimmo disinfettati, Mengele collezionava tipi di persone con deformità, teste a punta e altro… Prelevava sangue, estraeva denti, strappava ciglia e capelli. Ci versarono acqua fredda nelle orecchie, poi subito bollente. Credevamo di impazzire. Mia sorella grande chiese per quanto sarebbe durato, e le venne detto che fino a quando eravamo di qui non saremmo finiti di là. Insomma, non ci uccidevano”. Erano ebrei, ma guadagnarono tempo per il loro aspetto.  “Non dovrei dirlo – confessa – ma non odio Mengele. Ci ha lasciato vivere”.

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Il dottor Mengele si occupava di tutto il ciclo dell’orrore: dalle selezioni dei nuovi arrivati al loro stato di salute, con la piena facoltà di decretarne la vita o la morte. Era soggetto a continui sbalzi di umore. Talvolta si sentiva particolarmente ben disposto verso gli altri e in quelle occasioni manifestava sentimenti umani. Lo testimonia un episodio avvenuto sulla rampa di selezione del campo di sterminio: accortosi di una giovane e bella ebrea che disperandosi voleva raggiungere il “gruppo di sinistra” dove c’era la madre, la rimproverò duramente e con un cenno le ordinò di spostarsi nel “gruppo di destra”. Poche ore dopo la ragazza capì che Mengele le aveva salvato la vita. Si tratta di un episodio raro. Solitamente il dottore non si lasciava impietosire. Block 14 del campo B. Lì si effettuavano tutti gli esami praticabili su una persona vivente. Analisi del sangue, punture lombari, trasfusioni e scambio totale di sangue tra gemelli. Un numero indeterminato di altri esami, tutti dolorosi ed estenuanti. Quelli che lui definiva studi ed esperimenti erano in realtà torture su migliaia di detenuti ebrei, zingari e persone affette da nanismo considerate subumane. Tremila bambini e adolescenti furono torturati sino alla morte. Mengele divenne così “il principale fornitore di materiale per le camere a gas e i forni“.

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Nell’aprile del 1948 Mengele iniziò ad organizzare la propria fuga. I suoi crimini orrendi erano ormai di pubblico dominio grazie alle sconvolgenti testimonianze dei sopravvissuti e alle inchieste condotte nell’ambito del Processo di Norimberga. Si fece crescere i baffi e approdò in Italia cammuffato da altoatesino di lingua tedesca. Divenne così il Signor Helmut Gregor, uomo d’affari ed aspirante viaggiatore. Con questo pseudonimo Mengele ottenne un permesso di sbarco in Argentina rilasciato dall’ufficio della DIAE di Genova. Nella città medaglia d’oro della Resistenza, capitale dell’antifascismo, l’angelo della morte di Auschwitz trascorse diversi giorni in una casa privata al numero 3 di via Vincenzo Ricci, nel cuore di San Vincenzo quartiere nel pieno centro di Genova.

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Sicuramente, il 16 maggio 1949, si recò negli uffici della Croce Rossa dove ottenne un passaporto valido. Nei giorni immediatamente successivi ritirò un visto d’ingresso presso il consolato argentino e si sottopose alle visite mediche obbligatorie nell’ambulatorio della DIAE in via Albaro 38, luogo di passaggio obbligato per tutti i nazisti in fuga. Più complicata si rivelò la pratica per il visto d’uscita dall’Italia. Mengele, accortosi che il funzionario corrotto di riferimento era in vacanza, cercò di “ungere” con 20.000 lire quello in servizio, che però lo fece immediatamente arrestare. Dopo qualche giorno passato al fresco, il Signor Helmut Gregor venne salvato dal funzionario al soldo dell’organizzazione Odessa tornato finalmente dalla vacanza. Mengele riuscì così ad imbarcarsi il 25 maggio 1949 sulla North King. Destinazione Buenos Aires.

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In Argentina Mengele divenne uno degli animatori più vivaci della comunità nazista. Un punto di riferimento per i camerati di tutto il mondo. Dopo qualche anno si trasferì provvidenzialmente in Paraguay, prima di essere raggiunto da una richiesta di estradizione presentata dalla Germania. Non mostrò mai segni di rimorso. Rimase un fedelissimo profeta del Führer. Disse di non aver inventato lui Auschwitz…che esisteva già. Aggiunse che il suo lavoro era consistito semplicemente nel classificare gli abili al lavoro dai disabili e spiegò che i gemelli del campo di sterminio dovevano a lui la vita. Morì il 7 febbraio 1979 a Bertioga, in Brasile, colpito da un ictus mentre nuotava nelle acque dell’Oceano Atlantico, a pochi metri dalla riva. Aveva 67 anni. Le sue ossa sono a disposizione degli studenti di Medicina per i loro studi.

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Alla figura di Mengele sono ispirati due film che anticiparono alcuni scenari poi confermati dalle ricerche sull’Operazione Odessa: “I ragazzi venuti dal Brasile” del 1978, girato da Franklin J. Schaffner e interpretato, tra gli altri, da Gregory Peck e Laurence Olivier. Racconta la storia di un gruppo di gerarchi nazisti rifugiati in Sudamerica che negli anni Settanta progettano un piano per rifondare il Reich cercando di far nascere un nuovo Hitler. Peck interpreta Josef Mengele, mentre Olivier l’ebreo Ezra Liebermann, un cacciatore di nazisti che scopre il piano.



L’altro film è “Il maratoneta” del 1976, diretto da John Schlesinger e interpretato da Dustin Hoffman, Marthe Keller e Laurence Olivier. Un giovane ebreo, studente universitario di Storia e aspirante maratoneta, s’imbatte in un criminale di guerra nazista che torna dall’Uruguay a New York per entrare in possesso di una partita di diamanti.



Questa è dunque la trama dell’Operazione Odessa, un piano che ha consentito a decine di criminali nazisti (ne abbiamo descritto i pensieri e le opere) di vivere da uomini liberi. Priebke per mezzo secolo, Mengele per 34 anni, Eichmann per 15. Aiuti che qualcuno, ancora oggi, si ostina a rappresentare come sublimi esempi di carità cristiana. Nulla di più lontano. Quelle coperture fornite dall’ortodossia cattolica furono un cinico atto politico in chiave anti-comunista. Si trattò di uno sfregio all’etica, un secondo oltraggio a milioni di vittime. Sicuramente, il capillare sistema di protezioni offerto dall’Operazione Odessa, inibendo la ricerca della verità e il compimento della giustizia terrena, ha contribuito a generare altre dittature e negazionismi.  

CONSIDERAZIONI FINALI 

E pensare che tutto ebbe origine da una folle ricostruzione della storia umana orientata dai Protocolli dei Savi di Sion, un clamoroso falso documentale che tuttavia ha rappresentato il testo base della Shoah, lo sterminio degli ebrei. Secondo questa teoria, rielaborata e rafforzata dal Führer (foto sotto), gli ebrei intendevano impadronirsi delle finanze mondiali e sottomettere le genti a una schiavitù ispirata dalla legge del loro Dio. Sull’intero popolo ebraico, inoltre, doveva ricadere la colpa perenne dell’uccisione di Gesù. In altri termini gli ebrei dovevano essere puniti e annientati in quanto mandanti della condanna a morte del Cristo. Tale aberrante congettura trovava una sponda nelle teorie della razza e del superuomo, nell’esoterismo e nel culto della personalità, pietre angolari del nazismo che conferivano ai tedeschi/ariani, popolo dominante e predestinato, la sacra missione di elevare l’umanità.

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Forse sarebbero bastati due minuti e una pacca sulla spalla di Hitler per disporne il ricovero coatto in un manicomio (oggi diremmo TSO, trattamento sanitario obbligatorio) e invece, sull’onda di quelle strampalate panzane, che ancora oggi vantano un numero preoccupante di seguaci, un movimento politico (il nazionalsocialismo) e uno Stato europeo (la civile Germania) toccarono l’abisso del disumano e le vette del sadismo. Ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio si sentiva spesso ripetere la frase: “Durch den Kamin”, da qui si esce solo attraverso il camino. Per molti anni gli scampati a quell’apoteosi dell’abominio non sono riusciti a testimoniare nel timore di non essere creduti o nell’impossibilità di descrivere il male assoluto. Resi muti dalla glaciazione del dolore. “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario” scriveva Primo Levi.

NON HO MAI PERDONATO, MA HO IMPARATO A NON ODIARE

Nell’inverno 1944 Liliana Segre aveva 13 anni e fu costretta a salire su un camion che attraversava Milano per raggiungere i sotterranei della Stazione Centrale e il binario 21, da dove partivano i treni per Auschwitz-Birkenau. Suo padre Alberto (foto sotto) era con lei, ma non lo vedrà più.

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“Imparai in fretta che lager significava morte, fame, freddo, umiliazioni, torture, esperimenti. Partimmo in 605, tornammo in 22. Entrando ad Auschwitz pensai di essere impazzita. Forse, solo la visione dell’Inferno di Dante, che avrei letto qualche anno più tardi, poteva assomigliare a quel posto pensato ed organizzato a tavolino. Una distesa di baracche, la neve per terra, decine di donne rasate, scheletrite, vestite a righe, che scavavano buche, che portavano pietre sulle spalle con un’aria da dannate. Entrammo nella prima baracca con i nostri vestiti, e lì cominciammo a capire che dovevamo dimenticare il nostro nome. “Dimenticate il vostro nome, non interessa a nessuno. Da adesso in poi sarete un numero!”. Mi venne tatuato un numero sul braccio, così ben fatto che dopo tanti anni si legge ancora perfettamente: 75190. “E imparatelo subito quel numero, imparatelo in tedesco”. Perchè era questione di vita o di morte rispondere immediatamente al comando, perchè ci fu veramente chi morì nei primi giorni per essere stato sordo e muto alla lingua nazista e non seppe obbedire al richiamo del proprio numero. Fummo spogliate, rasate, rivestite con le divise a righe tirate su da un mucchio, zoccoli ai piedi, fazzoletto in testa, mentre passavano i soldati che sghignazzavano. Non ci lasciarono neppure un libro, un fazzoletto, una fotografia. Della nostra vita precedente non rimase nulla.

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Ci guardavamo, eravamo un gruppo di trenta ragazze italiane. “Ma perchè ci capita questo? Ma dove siamo finite?”. In fondo al vialone centrale dell’enorme campo di Birkenau, capace di contenere 60mila donne di tutte le nazionalità…in fondo si vedeva un edificio con una ciminiera dalla quale usciva del fumo. Le prime prigioniere che incontrammo nella baracca erano ragazze francesi arrivate da qualche giorno. Ci dissero: “Vedete laggiù in fondo quel fumo che esce dalla ciminiera? Beh, quelli che hanno viaggiato con voi e che avete salutato pochi minuti fa, sono già passati per il camino”. “In che senso?” chiedemmo noi, ancora calde di quell’abbraccio. E loro: “Dovete sapere che quelli considerati non adatti al lavoro, vanno alla camera a gas e poi vengono bruciati nei forni!”. Noi guardavamo queste ragazze francesi e ci dicevamo: “Queste sono completamente pazze…ci hanno messo in un manicomio”. Per una mente normale non era credibile che esistesse un luogo simile. Eppure, da quel momento, cominciò la mia vita di prigioniera-schiava”.

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Liliana Segre (foto sopra) ha anche descritto più volte la cosiddetta “marcia della morte”, durante la quale i prigionieri furono costretti a seguire i nazisti in fuga, fino a quando questi ultimi si tolsero la divisa per nascondersi tra la popolazione civile. Una SS gettò a terra la sua pistola. Liliana pensò: “Prendo l’arma e la uccido”. Poi si bloccò. “No, non la prendo”. E in quel momento, dice la Segre, “ha vinto la vita. Non ho mai perdonato, ma ho imparato a non odiare”

di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io, reporter

TORTURE DI STATO

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di Patrice Mersault – Genoa News Chronicle / Io, reporter

“La tortura è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti”

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Cesare Beccaria

E’ GIUSTO PARLARE DI TORTURA?

Proporre, pubblicare, esporre? O invece rimuovere? C’è infatti chi dice: queste cose ripugnano! Parlarne e pubblicizzare è un errore. Meglio pertanto nascondere, meglio ignorare. Non sanno costoro che più si ignora più è facile che tutto continui come un tempo, e magari si aggravi. Non per nulla i torturatori agiscono nell’ignoto, all’oscuro: vogliono il silenzio sulle loro malefatte. Tutti costoro non sanno che proprio la scoperta del male è un bene: da dove appunto attingere la forza per combatterlo e vincere. Quanti sono per l’ignoranza e la rimozione, sono inconsciamente in favore del male che continui. A prescindere dalla loro volontà. Invece noi diciamo che dovrebbe anche questa realtà entrare nell’insegnamento scolastico: per cominciare precisamente dalla scuola a coscientizzare! Allora potremo sperare, con buona ragione, che le cose cambino. Perchè finora, il folle uso non solo non è cessato, ma addirittura è peggiorato: infatti oggi la tortura più che essere fisica è psichica, è mentale; e il torturatore non solo affonda i suoi ordigni nella carne, ma ti penetra nello spirito.  

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Come mai un uomo riesca a torturare un altro uomo; a seviziare; a cavare adagio un’unghia, e poi un’altra, e poi un’altra; e poi a strappargli un occhio, e poi l’altro; e poi a schiacciare i genitali: sempre adagio, con la cura che non muoia. Dico così, per dire quasi niente: a confronto della fantasia del nazista ad Auschwitz, ad esempio. Come mai un uomo, un responsabile che spesso è un capo, cioè un’autorità; che può essere perfino un laureato, un dottore ad esempio, un grande amante di musica classica, o anche un cultore di belle arti, ecc.; come mai un civile – che poi, nel nostro occidente spesso si dice ed è ritenuto ancora un cristiano; ecco: come mai, soprattutto un cristiano può – e di fatto ci riesce: succede ancora infatti -, come mai si decida a torturare un uomo che è un altro se stesso, per quanto lo pensi suo nemico, un nemico magari da eliminare. Ebbene, lo elimini! Questo posso farcela a capire, ma non lo torturi! Invece…”

 David Maria Turoldo – Teologo e Filosofo

IL MIO GRANELLO DI SABBIA

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Alla sera vengo trasportato su di un camioncino alla caserma delle Brigate Nere di via Monticelli (a Genova ndr). Sento un ordine: – Se tenta di fuggire, sparate. Quello che avviene al mio arrivo è indescrivibile. Mi obbligano a salutare fascisticamente la sentinella e mi buttano nel corpo di guardia… Ad attendermi una ventina di giovinastri, parte in divisa, parte in borghese (questi ultimi eran quelli della squadra politica), che mi accolsero con sguaiati segni di soddisfazione.

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Una faccia da delinquente, mascella sporgente e occhi piccoli iniettati di sangue, mi si avvicina e sghignazza: – Tu sei il comunista, eh?. Due tremendi ceffoni mi fanno barcollare. Un altro, tipo apparentemente distinto, alto, magro, viso glaciale, vuole darmi la ‘marca di fabbrica’, come la chiamava: mi prende l’orecchio sinistro tra i denti, appoggia le mani alla mia spalla per avere la controspinta, e tira così con tutte le sue forze.

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Un altro, ancora giovanissimo – un vero bambino – prende a strapparmi i baffi a ciuffi, mentre tutti ridono alla vista del labbro che si sollevava smisuratamente e delle smorfie malcontenute di dolore. C’era poi chi praticava uno speciale colpo giapponese che consisteva nel fendermi la nuca con due mani unite distese, vibrate con tutta forza al di sopra del capo a mo’ di accetta, e ad ogni mazzata intercalava: – Così si accoppano i conigli!

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Dapprincipio l’ambiente si contenne abbastanza, divertito dalle trovate di quei ‘solisti’. Poi andò gradatamente, eccitandosi, perché tutti volevano farmi qualcosa e finivano con l’ostacolarsi  l’un l’altro. C’era anche chi voleva servirsi del mio corpo, forzatamente acquiescente, per sfogare le proprie brame sessuali. In breve andò a finire che tutti mi saltarono addosso assieme e quando cadevo qualcuno mi risollevava, per poter continuare a colpirmi… Mi legarono, torso nudo, a cavalcioni su una sedia, estrassero scudisci di varia foggia – a striscioline intrecciate di cuoio, con dei pallini di metallo in fondo ad ogni strisciolina, con anelli di metallo… e poi giù colpi, giù colpi, giù colpi, dandosi il cambio, mentre io sotto sobbalzavo ogni volta stringendo tra i denti la spalliera della seggiola e alla fine gridavo: – Basta! Basta! Smettevano un momento: – Allora parli?Ma ve l’ho già detto tutto quello che so. – Allora avanti – . E le sferzate ripigliavano, e ad ogni colpo: – Parli?… Alla fine  si stancarono prima loro di frustare che io di tacere, e si passò ad altro esperimento.

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Legato questa volta sulla sedia  per il verso giusto, mentre uno mi teneva la testa rovesciata indietro, un altro mi introdusse uno straccio bagnato di non so che sostanza in gola, spingendolo più giù che fosse possibile con un bastoncino, e un terzo mi versava dell’acqua da una brocca direttamente nel naso. Io sentivo l’acqua gelata scendermi nello stomaco e non potevo respirare. Credo che in termini di medicina legale questa si chiami ‘soffocazione‘.

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Brani tratti dal libro ‘Il mio granello di sabbia’ di Luciano Bolis. Apparso per la prima volta nel 1946 questo libro racconta in prima persona la detenzione, gli interrogatori estenuanti, le immani torture patite dal suo autore, arrestato dai fascisti nel pieno della lotta partigiana. Fino a qualche anno fa lo si poteva leggere come un piccolo ‘classico dell’orrore’, nato da un’esperienza terrificante. Oggi quest’opera si ripropone non soltanto come breviario di una fede ideale, ma anche e soprattutto come documento attualissimo, denuncia, lamento, grido.

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“Il diritto di punizione corporale che un uomo esercita su di un altro è una delle piaghe della società; è un mezzo sicuro per soffocare ogni germe di civismo e di provocare la sua decomposizione”

Fëdor Dostoevskij

GEOGRAFIA DELL’ORRORE DAL ‘900 A OGGI

REGNO D’ITALIA: In alcune Questure del Regno si applica il “Terzo Grado” di tipo americano. L’espressione interrogatorio di terzo grado indica “il ricorso indiscriminato a metodi coercitivi per ottenere confessioni da persone sospettate di un crimine”. In senso figurato, si intende una serie di domande poste in maniera incalzante. In sostanza, si tratta di un eufemismo per indicare pratiche di tortura (infliggere dolore, fisico o mentale, per estorcere confessioni o dichiarazioni). Uno di essi, il metodo di interrogatorio noto come Tecnica Reid, ampiamente usata dalle forze di polizia negli Stati Uniti, è vista da molti semplicemente come una versione psicologica del terzo grado, in quanto è ugualmente capace di estorcere una falsa confessione attraverso la coercizione quando la polizia ne abusa.

1930-1945 SPAGNA: I metodi di tortura si perfezionano. Barcellona: “cella degli allucinati” mattoni cementati al pavimento a intervalli regolari che impediscono al detenuto di sdraiarsi e di sedersi.

1930-1945 GERMANIA: La Gestapo con le SS (le teste di morte) adotta e perfeziona i metodi spagnoli e li rende sempre più scientifici.

1930-1945 ITALIA: Tutte le stazioni di polizia adottano le torture. Diventeranno famose: la “Muti” a Milano, pagata dal Ministero dell’Interno; la “Carità” a Firenze, Bologna e Padova; “Villa Triste” di Milano di cui una sua specialità era il telaio chiodato contro il quale comprimere la vittima; le innovazioni sperimentate a “Villa Triste” importate dalle SS: magnete, corrente elettrica, narcotici, finte fucilazioni, ecc.

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1937 URSS:…Il Comitato Centrale del Partito ritiene che la pressione fisica debba essere usata obbligatoriamente, come eccezione applicabile a noti e ostinati nemici del popolo, come un metodo giustificabile quanto appropriato“. Stalin autorizza ufficialmente la NKVD. Quando nel 1956 fu chiesto a Kruscev come mai nel Processo del 21 marzo 1938 tutti gli imputati, compresi gli ex membri del Politburo, confessarono spionaggio, ostruzionismo, complotti per assassinare Stalin, e l’uccisione di Gorki e di suo figlio; e quindi com’era possibile che una persona confessi delitti che non ha commesso, disse: “In un solo modo: con l’applicazione di metodi di pressione fisica, di torture, che riducano a uno stato di incoscienza e privino di ogni capacità di giudizio e di dignità umana. In questo modo soltanto furono ottenute le “confessioni”. Nello stesso periodo la vera arma fu di ordine ideologico e psicologico: si ottenne così l’adesione della vittima alle ragioni del suo carnefice con droghe o terapie psichiatriche: è la “Tecnica della Persuasione” applicata con la teoria dei riflessi condizionati di Pavlov (somministrazione alterna di farmaci sonniferi e stimolanti: si crea uno stato di confusione che genera l’identificazione dell’imputato con l’inquisitore).

1956 UNGHERIA: Profughi raccontano della “Camera magica”, stanza silenziosa illuminata da un faro rotante in cui si perdeva a poco a poco la nozione del luogo e del tempo, per l’effetto combinato della somministrazione di droghe.

1958-1960 ALGERIA: L’OAS (Organisation de l’Armée secrète) è responsabile di metodi massicci di tortura contro i Fellegha del Fronte di Liberazione. I metodi impiegati sono sofisticati. Nella prigione di El-Biar dei parà francesi si usa anche la “graticola“, una resistenza elettrica che ustiona la pelle; alle donne si bruciano i capezzoli. Questa prigione verrà paragonata a un girone infernale.

1967-1973 GRECIA:La giustizia greca è e sarà sempre migliore di quante siano esistite in una società umana“, lo dichiara Papadopoulos alla presa del potere. E’ il periodo più buio dei colonnelli che trasformano il Paese in un gigantesco lager chiamato il “paradiso della sevizia”; la pratica della tortura diventa pratica amministrativa.

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La giornalista Oriana Fallaci davanti alla disumana prigione di Boiati

Il carcere di Boiati è reso famoso dai racconti delle torture subite da Alexandros Panagulis:Frustato con fili di ferro e filo spinato per tutto il corpo; colpi sulle piante dei piedi con un tubo; colpi con spranghe di ferro sul petto; bruciature con sigarette sulle mani e sugli organi genitali; introduzione nell’uretra di un ago sottile arroventato con un accendino; occlusione delle vie respiratorie fino all’asfissia; colpi della testa contro il pavimento e le pareti; privazione del sonno, tentativi di forzata somministrazione di cibo; manette in permanenza…”

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1969-1973 VIETNAM: Un popolo intero sfida l’orrore dei supplizi. Strumenti moderni e tecnologie primitive vengono impiegati senza distinzione. Fosse che atrofizzano i corpi: le famigerate “gabbie di tigre“, e ancora scosse elettriche, torture psicologiche; perfino l’uso dei cani per violentare le donne.

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1968 BRASILE: Amnesty International riceve le prime denunce di torture sistematiche e istituisce commissioni d’inchiesta. Anche il Tribunale Russell denuncia i metodi di tortura istituzionalizzata.

1970-1978 AMERICA LATINA: Argentina, Messico, Paraguay, Uruguay, Cile e poi tutte le nazioni dell’America Latina denunciano assassinii e torture. Si viene a conoscenza di Fort Gulick a Panama (un Politecnico di addestramento alla ferocia); agli allievi si insegnano 32 modi di uccidere senza ricorrere alle armi. I militari di ogni Paese useranno questi super-qualificati per reprimere e annullare la volontà del popolo.

1977-1982 URUGUAY:Libertad“, prigione concepita come meccanismo scientifico per distruggere le persone attraverso il loro squilibrio mentale e la disumanizzazione.

1979-1983 CAMBOGIA: Pol Pot instaura un regime di genocidio. Tuol Sleng, un liceo francese, diventa il più famoso luogo di tortura e di sterminio.

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Le aule diventano sale di interrogatorio, sulla lavagna c’era scritto il regolamento: 1) non cercare di eludere la domanda; 2) è assolutamente proibito contraddire; 3) non fare l’imbecille perchè tu sei quello che si oppone alla rivoluzione; 4) rispondere immediatamente senza perdere tempo; 5) proibito gridare forte durante la bastonatura e l’elettroshock.

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1975-1982 ITALIA: Il terrorismo rosso, in Italia, viene sconfitto anche attraverso il ricorso alla tortura praticato da squadrette speciali. In particolare, alcuni brigatisti subiscono torture con acqua e sale, ma anche con elettrodi, come la picaña in Cile e in Argentina.

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2001 ITALIA: La Corte Europea dei Diritti Umani stabilisce che durante il G8 di Genova le forze dell’ordine italiane hanno commesso atti di tortura. Il riferimento è alla sanguinosa irruzione nella Scuola Diaz, passata alla storia come la “macelleria messicana“, e alle violenze fisiche e psicologiche perpetrate all’interno della Caserma di Bolzaneto, provvisorio luogo di detenzione situato alla periferia di Genova.

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Alla Scuola Diaz, reparti della Polizia, animati da una furia sterminatrice e lontanissimi da ogni procedura democratica, conducono un blitz mirato alla cattura delle avanguardie violente del cosiddetto “blocco nero”, teppisti guastatori che nelle ore precedenti erano riusciti, indisturbati, a seminare distruzione a Genova, in quei giorni, la città più blindata e sorvegliata del mondo. In realtà, all’interno della scuola, i poliziotti italiani si accaniscono su ragazzi e ragazze inermi del Genoa Social Forum. Moltissimi giovani pacifisti, colti nel sonno, vengono investiti da un uragano di calci inferti con gli anfibi e da scariche di manganellate assestate con la parte più dura, quella del manico. Un’orgia di teste sfondate, ossa rotte, denti spaccati, arresti sommari. Il tutto condito da una miserabile produzione di prove false. Per i ragazzi feriti e terrorizzati si tratta “solo” di un primo assaggio. Caricati sui cellulari, vengono trasferiti nel centro di detenzione temporanea di Bolzaneto.

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Qui, lontano da giornalisti e avvocati, si consuma il secondo e terribile atto: uomini e donne delle forze dell’ordine, riuniti in un tetro comitato di accoglienza di ispirazione sudamericana, umiliano, picchiano e minacciano gli stessi manifestanti già traumatizzati alla Diaz. Tra gli episodi documentati: ragazzi costretti a cantare inni fascisti o a rimanere immobili per ore, ragazze denudate davanti a personale maschile e minacciate di stupro, piercing strappati con violenza, divaricazione brutale delle dita, offese ripetute e pestaggi.


COSI’ CI TORTURAVANO NELL’INFERNO DI BOLZANETO – Audio


2004 USA: La vicenda della prigione irachena di Abu Ghraib viene alla luce intorno alla fine di aprile del 2004, quando le cronache internazionali iniziano a riferire di umiliazioni e torture che vengono compiute su detenuti iracheni da parte di soldati statunitensi della forza di coalizione.

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2019 USA: Nel 2019 il Washington Post ha avuto accesso a una robusta documentazione che testimoniava le bugie del governo americano sui progressi nella guerra, i cosiddetti Afghanistan Papers. Già nel 2013 Human Rights Watch denunciava che le truppe di Enduring Freedom erano coinvolte in almeno 18 omicidi di civili slegati dai combattimenti, in almeno 600 casi di abusi sui detenuti, per non parlare dell’utilizzo abituale di sistemi di tortura come il waterboarding per estorcere informazioni. Eppure, gli esperti e gli psicologi garantiscono che la tortura non serve a ottenere informazioni, perché davanti agli abusi chiunque è pronto a mentire, accusando anche le persone più vicine.

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Al centro delle denunce c’era il carcere ospitato nella base aerea di Bagram, poco lontano da Kabul. Di fronte allo sdegno delle proprie opinioni pubbliche, gli eserciti dei Paesi democratici hanno escogitato vari sistemi. Uno dei mezzi è l’utilizzo dei cosiddetti contractor, in genere ex militari disposti a torturare o a commettere omicidi mirati di leader talebani. (Tratto da un’inchiesta di Giampaolo Cadalanu per la Repubblica).

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LIBIA: Abusi, stupri e torture si consumano nei centri di raccolta e detenzione per migranti situati nel Paese nordafricano.

ARABIA SAUDITA: Riduzione al silenzio di tutte le voci contrarie al regime del principe Muhammad bin Salman Al Saud. Accade in Arabia Saudita, il paese – secondo Matteo Renzi – culla di un nuovo Rinascimento. La nefandezza più nota l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi avvenuta il 2 ottobre 2018 nella sede del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, in Turchia. Nel corso degli anni il giornalista saudita aveva più volte abbandonato il paese natale dopo che i suoi articoli erano stati reputati offensivi verso la famiglia reale, ma aveva sempre fatto ritorno a Riad, capitale dello stato mediorientale. Le sue critiche al regime erano costate a Khashoggi molte minacce che l’avevano convinto nel settembre del 2017 a trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti.

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Il giornalista Khashoggi con la donna che stava per sposare prima di essere eliminato

Il 2 ottobre 2018 Khashoggi è entrato nel consolato dell’Arabia Saudita di Istanbul per ritirare un documento necessario alla celebrazione delle nozze con la sua compagna, ma non è più uscito vivo. Una decina di uomini del servizio segreto saudita lo hanno ucciso con modalità barbare, poi hanno fatto a pezzi il suo corpo gettandone i resti in un bosco alla periferia di Istanbul.

EGITTO: Il regime più sanguinario del Mediterraneo mascherato da finta democrazia. Dall’era Mubarak fino alla presidenza al-Sisi, l’Egitto ha conosciuto un deterioramento progressivo dei diritti umani. La tortura è una pratica diffusa: bastonature, scariche elettriche, isolamento, supplizi medioevali, arresti immotivati, sequestri di persona, omicidi di Stato, pena di morte. Secondo i più attendibili report delle maggiori organizzazioni umanitarie, come Amnesty International, dal 2017 al 2020 si contano 400 morti nelle prigioni e almeno 60mila prigionieri politici. Di fatto il regime di al-Sisi ha introdotto il reato di opinione. La repressione contro oppositori, attivisti o chiunque esprima idee ritenute in contrasto con la linea del governo, è feroce. Eppure l’Italia continua ad intrattenere rapporti diplomatico-affaristici con l’Egitto attraverso accordi bilaterali che riguardano il turismo, la vendita di armi e il traffico di petrolio. Tutto questo malgrado le tragiche vicende legate a due giovani studiosi: Giulio Regeni e Patrick Zaki.

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Giulio, scomparso il 25 gennaio 2016, è stato ritrovato dopo una settimana in un fosso ai bordi dell’autostrada per Alessandria d’Egitto. Il suo corpo usato come una lavagna: abrasioni, tagli, ossa spaccate, segni di torture e scariche elettriche, peroni ridotti in poltiglia, costole e vertebre frantumate. I genitori lo hanno potuto riconoscere solo dal naso. La sua colpa? Aver condotto un’inchiesta sui sindacati degli ambulanti.

Patrick Zaki, studente dell’Università di Bologna, è stato invece internato nella famigerata prigione di Tora, il buco nero del Cairo. Il capo d’accusa nei suoi confronti, è prefabbricato e generico: “cospiratore contro la sicurezza dello stato egiziano”.

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Di fronte a questi orrori il mondo tace. L’Egitto è per molti Paesi occidentali un alleato troppo importante nella lotta al terrorismo e rappresenta la più affidabile sponda affaristico-economica del Mediterraneo arabo. Il mancato rispetto dei diritti umani diventa così un sopportabile effetto collaterale. Non a caso le reazioni della comunità internazionale sono blande; qualche isolata voce di dissenso, qualche timida protesta e nulla più. Nel silenzio imperante è sufficiente, dunque, la voce dell’attrice Scarlett Johansson (video sotto) per smuovere le coscienze e scalfire il muro dell’indifferenza. Il suo appello per la liberazione dei detenuti politici rinchiusi nelle prigioni egiziane ha avuto una risonanza planetaria e questo è un merito.

Il 19 luglio 2023, il Presidente – tiranno dell’Egitto Al-Sisi ha concesso la grazia a Patrick Zaki al quale, appena il giorno prima, era stata inflitta una condanna ad ulteriori tre anni di detenzione (dopo i due già scontati in carcere). L’Italia di Giorgia Meloni ringrazia. Purtroppo si ha subito l’impressione che l’apertura di Al-Sisi sarà pagata a caro prezzo, una sorta di pietra tombale sul delitto di Giulio Regeni commesso, secondo prove incontrovertibili, da agenti torturatori dei servizi segreti egiziani. La liberazione di Patrick andrebbe a compensare subdolamente l’impunità per gli aguzzini di Giulio. Il messaggio occulto – eppure chiarissimo – rivolto all’Italia, da parte dell’Egitto, è il seguente : “Liberiamo Zaki, ma dimenticatevi che sia fatta verità e giustizia sul caso Regeni. Per essere più chiari, non avrete mai i nostri agenti”. Il silenzio tombale sul caso Regeni rischia, così, di trasformarsi in definitivo epitaffio. Una ferita destinata a rimanere aperta.



RUSSIA: Accertate torture sistematiche nei confronti degli oppositori del regime putiniano. Le denuncie raccolte e documentate da Gulagu.net

LA TORTURA IN ITALIA

Perché in Italia il ricorso alla tortura non è mai cessato. Neppure dopo il ’44. Aguzzini come quelli della Casa dello Studente di Genova o della famigerata Banda Koch, attiva a Milano nella Villa Triste di Via Paolo Uccello, hanno operato (continuano ad operare?) sotto l’egida dello Stato Italiano Democratico e Repubblicano. Uno Stato incapace di produrre anticorpi contro l’atrocità della sopraffazione psicologica e fisica.

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Gli attori Luisa Ferida e Osvaldo Valenti | Uccisi per collusioni con la Banda Koch

Lo schiaffone scientifico, la capriola nel vuoto, la doccia a temperatura variabile, le catene aggrovigliate, i manganelli, i tirapugni, la calotta metallica, gli aghi ipodermici, le fiale contenenti liquidi misteriosi, bisturi e altri strumenti chirurgici, pugnali, rivoltelle, corde e riflettori, tentativi di soffocamento, strappamento dei peli e delle dita, spilli sotto la piante dei piedi, sale sulle ferite, sono pratiche utilizzate in più occasioni. Come ampiamente dimostrato, sino al G8 di Genova.

“Quando eravamo sull’orlo della morte si fermavano e ci lasciavano riprendere. Il medico ci faceva una iniezione di siero e vitamine: quando eravamo più o meno ristabiliti ci torturavano nuovamente”

O.A Gonzalez e O.G. Cid de la Paz

LE TORTURE ALLE BR

Procediamo in ordine sparso. Alba degli Anni’ 80, per l’esattezza dicembre 1981. Le Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente sequestrano il Generale americano James Lee Dozier, sottocapo di Stato Maggiore nel quartier generale alleato delle Forze di Terra nell’Europa Meridionale.

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Nel libro ‘Un contadino nella Metropoli’ il brigatista Prospero Gallinari all’epoca del fatto in carcere, descrive cupi scenari, accertati in seguito come verità storiche.

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Prospero Gallinari 1951 – 2013

“Il sequestro di Dozier – scrive Gallinari – fu un’azione di grossa portata. Un intervento che si muove, volente o nolente, dentro un nuovo quadro strategico dello scontro. Margareth Thatcher è al governo da oltre due anni. Ronald Reagan è alla Casa Bianca da poco e già il programma di installazione degli euromissili è diventato il suo cavallo di battaglia. La corsa agli armamenti prende nuovo slancio. Il presidente americano non esclude una guerra atomica limitata nel territorio europeo e, intanto, fa le sue prove di forza nel Mediterraneo contro la Libia di Gheddafi, sostenuto anche dal nuovo corso atlantista del presidente del consiglio Spadolini e del ministro della Difesa Lagorio... Un generale americano catturato, è fatto che, di per sé, scavalca il perimetro italiano. Possono attivarsi dinamiche e meccanismi con i quali, finora, non ci siamo mai confrontati”.

IL LIBRO DEL GIORNO: UN CONTADINO NELLA METROPOLI

Timori che saranno subito confermati. Il Governo Spadolini, dopo la Legge sui Pentiti approvata in agosto, autorizza non meglio precisate misure ‘eccezionali’ di cui si affida l’esecuzione a Carabinieri e Polizia. Si tratta in sostanza dell’introduzione dell’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario delle carceri speciali, che renderà la detenzione ancora più dura.

“Si tratta – scrive Gallinari – della copertura per la tortura, che sarà applicata a largo raggio sia per terrorizzare gli inquisiti delle retate di massa, sia per estorcere informazioni preziose ai militanti delle organizzazioni armate. Una politica che paga. Il 28 gennaio 1982 il generale Dozier viene liberato a Padova con una irruzione dei corpi speciali della Polizia nella base in cui l’organizzazione lo ha rinchiuso. L’operazione è stata resa possibile dal crollo, sotto interrogatorio ‘particolare’, di un militante che conosceva l’ubicazione dell’appartamento. Tutto il nucleo dei compagni presenti nella base viene catturato senza colpo ferire. Sicuramente una crisi morale per lo smacco subito, alla quale si accompagna per giorni la metodica tortura di tutti gli arrestati.

A seguire le sconvolgenti deposizioni di Emanuela Frascella ed Emilia Libera due ex brigatiste torturate.


AUDIO – Padova 1983 | Deposizione dell’ex brigatista Emanuela Frascella

AUDIO – Padova 1983 | Deposizione dell’ex brigatista Emilia Libera


Ed ecco lo stralcio atrocemente più angoscioso, i cui contenuti saranno confermati, anni dopo, dagli stessi poliziotti di quelle squadre adibite al ‘lavoro sporco‘:

Le minacce, i quattro schiaffi, la tecnica del bastone e della carota sono pratiche poliziesche da sempre usate nei nostri confronti al momento dell’arresto“, scrive Prospero Gallinari. “Ma qui si va ben oltre, e senza alcuna inibizione. Dagli avvocati, dai famigliari, dalle fonti di movimento arrivano notizie precise e drammatiche. La tortura è scientifica, studiata, sistematica. I prigionieri vengono trasferiti in luoghi segreti, dove si procede a pratiche di soffocamento attraverso l’immersione in vasche d’acqua, a scariche elettriche distribuite in tutto il corpo e in particolare ai genitali, a violenze con tubi metallici e bottiglie nei confronti delle donne. Si inscenano anche finte esecuzioni, che si rivelano finte solo all’ultimo momento, quando il prigioniero, abbondantemente torturato, è già stato spogliato di tutto, portato in mezzo a un campo e fatto inginocchiare per ricevere il colpo di grazia. Non ci sono più regole, o, forse, sono regole nuove“.

COMPAGNA LUNA

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Barbara Balzerani nel libro ‘Compagna Luna’ (Edizioni DeriveApprodi) descrive la fine delle Brigate Rosse. Un viaggio tra le schegge di uno specchio andato in pezzi, riflessi di vite frantumate e ancora l’ennesimo riferimento a quei compagni torturati, verità a lungo negata:

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1982: L’anno della disfatta. Il cumulo di errori e di debolezza politica trova il punto di coagulo. Divisioni interne, battaglie perdute, arresti di massa, compagni torturati. E, ad inequivocabile segnale della profondità della crisi politica, l’infamia dei traditori. Fratelli di ieri che denunciano gli altri e di questi si fanno giudici e cacciatori“.

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Perché – si disse da più parti – prestare attenzione ai sovversivi? Perché ascoltare e comprendere chi meriterebbe, come pena accessoria, la negazione della parola?

In questo clima, i casi di tortura ascrivibili agli Anni ’70 e ’80 sono stati sistematicamente ignorati, segregati nella categoria del falso o, ancor peggio, giustificati in nome della ‘ragion di stato’, della ‘difesa della democrazia’ e della ‘lotta al terrorismo’.

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Il coro dello Stato vincitore ha soffocato, per lunghi anni, la ferocia di interrogatori e detenzioni speciali e i rituali da dittatura sudamericana. Uno scempio venuto a galla dopo assoluzioni sospette, coperture ostinate, ammissioni tardive.

Oggi è ormai accertato che la tortura in Italia non è legata al solo G8 di Genova, alle aberranti coercizioni fisiche e psicologiche perpetrate nella caserma di Bolzaneto.  

E’ stata (è ancora?) una consuetudine pianificata nel silenzio, praticata nel chiuso di stanzoni segreti o di anonimi fabbricati dove squadrette del terrore superprotette hanno stuprato, annientato, ridotto a burattini disarticolati i ‘prigionieri politici’ di una sola sponda. 

Metodi medievali in tempo di democrazia. All’apparenza, solo all’apparenza,  una contraddizione in termini.



16 ottobre 2013, una data importante. In un’aula del Tribunale di Perugia viene pronunciata una sentenza che riscrive un pezzo di storia degli Anni di Piombo. Dopo aver riaperto a sorpresa una vicenda già passata al vaglio della Cassazione, la Corte d’appello assolve l’ex brigatista rosso Enrico Triaca, il “tipografo” delle Br ai tempi del sequestro Moro. Cancella la condanna per calunnia che allo stesso Triaca era stata inflitta per aver denunciato d’essere stato torturato dopo il suo arresto, avvenuto il 17 maggio 1978. In poche parole: secondo i magistrati perugini Triaca disse il vero, quando rivelò che ogni sua dichiarazione era stata estorta con la pratica del waterboarding, cioè la somministrazione forzata di acqua salata che provoca nella vittima la sensazione dell’annegamento e in qualche caso anche gli effetti. Non solo. Colui che per la prima volta viene individuato come il leader dei torturatori – l’ex questore e funzionario Ucigos Nicola Ciocia, alias ‘Professor De Tormentis, oggi ultraottantenne – dev’essere indagato dai pm capitolini. Atto che si rivelerà poco più che simbolico. Essendo gli addebiti troppo datati e non essendo contemplato nell’ordinamento italiano il reato di tortura, i misfatti commessi e, come vedremo, orgogliosamente rivendicati dal ‘Professor De Tormentis‘, sono prescritti.

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Salvatore Genova, ex dirigente della Polizia Ferroviaria (Polfer) nel capoluogo ligure e ‘aggregato’ in Veneto durante l’inchiesta sul sequestro del generale Dozier ha rivelato che le sevizie erano praticate sistematicamente, al tempo, da un gruppo segreto di seviziatori creato dall’Ucigos e denominato “I cinque dell’Ave Maria”. Ecco in questa intervista la sua testimonianza:



Nicola Ciocia, dunque, era a capo di una ‘squadretta‘ creata dopo il sequestro Moro (ma già entrata in azione nel ’75) e rimasta attiva negli anni seguenti: fino a tutto il 1982, il ‘periodo sudamericano‘ delle torture ai brigatisti: con l’acqua e sale, ma anche con gli elettrodi, come la picaña in Cile e in Argentina. Lo racconta anche l’ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato nel libro ‘Grandi illusioni, conversando sull’Italia’:

La classe politica aveva coperto il ricorso a metodi e strumenti ai margini della legalità, quando non extralegali, di fatto ammettendo una sorta di sua subordinazione all’iniziativa di inquirenti e polizie. Accanto alle inchieste coraggiose e ai sacrifici vi fu infatti il ricorso a forme di pressione fisica e psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti, che nel caso dei primi sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura.

A parlarne sono stati gli stessi funzionari che ne furono i protagonisti. Essi hanno per esempio accennato all’uso del water-boarding (allora chiamato «algerina» perché usato dai francesi in Algeria) da parte di un gruppo speciale che – probabilmente ispirandosi a uno «spaghetti western» di successo – si era ribattezzato «I cinque dell’Ave Maria».

Le applicazioni controllate furono in tutto poche decine, e di esse si discusse alla Camera per tre volte dal marzo al luglio 1982, quando Rognoni negò ripetutamente la cosa, ma ve ne furono anche di selvagge, come ammise Scalfaro all’epoca ministro dell’Interno”.

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Non scherzava certo l’allora vicequestore Umberto Improta – che del nucleo speciale di investigatori formato dal Viminale per indagare sulle Br fu il capo operativo – quando affibbiò al suo collega Nicola Ciocia, specializzato nel condurre gli interrogatori, il soprannome di professor De Tormentis. Pugliese di Bitonto, ma residente a Napoli, Nicola Ciocia negli anni Settanta diresse prima la Squadra Mobile del capoluogo campano e poi la sezione interregionale Campania e Molise dell’Ispettorato generale antiterrorismo. Dalla polizia si dimise nel 1984 con il grado di questore (non accettò la sede di Trapani).

Dal Corriere della Sera del 10 febbraio 2012 si apprendono altri interessanti tratti del personaggio:

Fino a pochi anni fa Nicola Ciocia ha fatto l’avvocato. Ora si è ritirato del tutto, esce raramente dalla sua casa sulla collina del Vomero, e di sé dice: «Io sono fascista mussoliniano. Per la legalità». Lo si capirebbe anche se non lo dicesse, fosse solo per il busto del duce che tiene sulla libreria. Ciocia non ammette esplicitamente di aver praticato la tortura, anche se a dire il contrario non sono soltanto Genova e Triaca: agli atti di inchieste mai portate avanti ci sono le denunce di molti brigatisti, come per esempio Ennio Di Rocco, che con la sua confessione consentì vari arresti tra cui quello di Giovanni Senzani e per questo fu condannato a morte dalle Br e ucciso in carcere”.

“Colui che cede all’interrogatorio, non soltanto è stato costretto a parlare, ma gli è stato imposto per sempre uno status: quello di sotto-uomo”

Jean Paul Sartre

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COSI’ PARLO’ “DE TORMENTIS”

Se – come dicono – era bravo a estorcere ammissioni, Nicola Ciocia lo è altrettanto a schivare le domande dirette.

Lo stato italiano praticò la tortura attraverso lei e la sua squadra per sconfiggere le Brigate Rosse?

“Le Br hanno fatto stragi, e avrebbero continuato se non fossero state debellate da un’azione decisa dello Stato”.

Un’azione che si concretizzò anche attraverso i suoi interrogatori?

“Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l’interrogato sotto il tuo assoluto dominio. Non serve far male fisicamente. Io in vita mia ho dato solo uno schiaffo a un nappista che non voleva dirmi il suo nome”.

Ciocia sostiene che “non si può affermare che torturavamo i brigatisti, facendo passare noi per macellai e loro per persone inermi”.

Arriva a dire che “Di Rocco si mise spontaneamente a disposizione della giustizia”, e su Triaca si lascia scappare un ambiguolui non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionavano”.

E insiste pure:

“La lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano, ma io ho fatto sempre e solo il mio dovere, ottenendo a volte risultati e a volte no. Perché non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci”.

‘Quei metodi’, ‘quei sistemi’, ‘quelle pratiche’: sembrano tutti modi per non pronunciare la parola tortura. E Ciocia non la pronuncia:

Lo Stato si attivò per difendere la democrazia. I macellai erano loro, non noi.

RIGURGITI – 1993: LE TORTURE DELL’ESERCITO IN SOMALIA

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Tratto da “Patria 1978 – 2010” di Enrico Deaglio e Andrea Gentile

5 giugno 1997 – Siamo alle soglie dell’estate quando i lettori del settimanale Panorama, sono scossi da foto scioccanti. Le foto risalgono al 9 aprile 1993 e sono state scattate a Johar (Somalia) da Michele Patruno, caporale maggiore. Le truppe italiane sono in Somalia perchè fanno parte dell’Unosom 2, una forza internazionale il cui impiego è stato autorizzato dalle Nazioni Unite, per tentare di ripristinare la sicurezza nello Stato africano, turbato da continui scontri tra fazioni opposte, dopo la caduta di Siad Barre, dittatore sin dal 1969. Il nome dell’operazione ha addirittura una valenza eroica: “Restore Hope”, restaurare la speranza. Ma le foto pubblicate da Panorama sembrano dirci che di speranza le truppe italiane non ne disseminino poi tanta. In una il sottufficiale della Folgore Valerio Ercole tiene in mano due fili elettrici collegati a un generatore. Dalla foto sembra evidente che li stia per attaccare ai testicoli di un prigioniero somalo. La settimana dopo Panorama va fino in fondo. Il 12 giugno pubblica altre foto: una ritrae lo stupro di una donna somala penetrata da un razzo illuminante spalmato di marmellata. Le foto sono corredate da due testimonianze: “La ragazza urlava e si dimenava, non tanto per il dolore fisico, ma perchè non voleva” racconta un soldato. Sui giornali c’è chi ricorda le magliette con la faccia di Mussolini indossate dai parà sotto la divisa, e “Faccetta nera” intonata la sera nei bivacchi, a conclusione della giornata. Vengono adottati dodici provvedimenti disciplinari verso militari e vengono istituite due commissioni d’inchiesta. Dopo un anno la relazione è stilata e dice che gli episodi di violenza in Somalia furono “sporadici e localizzati” e non “estesi e generalizzati”. Per Vincenzo Manca di Forza Italia si può “restituire alla Folgore la sua meritata gloria”.

G8 2001: IL LAGER DI BOLZANETO

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Nella caserma di Bolzaneto, appositamente ristrutturata per il G8 di Genova del 2001 e adibita a luogo di detenzione temporanea, vengono portati centinaia di manifestanti. Si tratta di persone che hanno partecipato alle iniziative del 20 luglio nella zona San Martino – Foce, o che in occasione del grande corteo del 21 luglio sono state fermate o ancora che erano alloggiate nella notte tra il 21 e il 22 nelle scuole Pertini-Diaz, oggetto del violento blitz della Polizia.

La ricostruzione dei drammatici eventi in questo documento Rai



Nella caserma di Bolzaneto, struttura del 6° Reparto Mobile, operavano, come ormai si sa, sia agenti della Digos, sia appartenenti alla Guardia di Finanza, sia membri del reparto GOM della Polizia Penitenziaria.

Nei racconti delle vittime ricorrono alcune costanti: stati di fermo prolungati sino alle 24 ore e oltre, senza che i fermati potessero mettersi in contatto con i propri congiunti né godere del diritto della difesa; costrizione a firmare verbali-fotocopia in cui l’ipotesi di reato veniva attribuita arbitrariamente; mancanza di refertazione medica; abusi durante le visite mediche; denudamenti e ispezioni corporali; costrizioni fisiche durate in media otto-dieci ore; minacce continue e ripetute; pestaggi nel cortile al momento dell’arrivo, nelle celle e al momento del trasferimento nelle strutture carcerarie.

L’articolo, a firma Marco Preve, pubblicato su ‘la Repubblica’ del 26 luglio 2001 raccoglie le testimonianze di un poliziotto in servizio a Bolzaneto e di una ragazza detenuta:

“Ho provato a parlare con dei colleghi e loro sai che rispondono? Che tanto non dobbiamo avere paura, perché siamo coperti. Quella notte il cancello si apriva in continuazione, dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi. Una volta all’interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano ‘Faccetta Nera’. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei GOM la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli”.

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Laura Jaeger, 20 anni: “Avevamo i polsi legati così stretti che il sangue non scorreva. Un ufficiale aveva delle croci uncinate tatuate sulle mani. Quando ha visto un mio distintivo antifascista, ha urlato dicendo che se mi avesse trovato per strada mi avrebbe ammazzata, fatta a pezzi e data in pasto ai maiali”.

A Bolzaneto, durante i tre giorni del G8, transitarono circa 300 fermati. 214  denunciarono le violenze subite.



Dall’articolo “Portraits: Il G8 di Genova” di Massimo Calandri e Pino Petruzzelli, pubblicato in MicroMega, numero 2/2003, riportiamo un brano straordinariamente indicativo. Si intitola ‘Un Giudice molto black‘ ed è il testo di uno spettacolo teatrale incentrato sull’esperienza di Enrico Zucca, tra i pubblici Ministeri del pool che ha indagato sui fatti e misfatti del G8:

“In questo libro ci sono le fotografie dei poliziotti indagati per i soprusi nella caserma di Bolzaneto e l’irruzione nella caserma della scuola Diaz. Ci abbiamo messo quasi un anno per averle. E sì che gliele abbiamo chieste in tutti i modi, come si fa con delle persone con cui hai lavorato insieme fino al giorno prima, come si fa con degli amici di cui ti fidi.

L’amico caro cui hai prestato un libro cui tieni in maniera particolare, e dopo un paio di mesi gli dici, tanto per fargli capire senza offenderlo: “Scusa, l’ho mica prestato a te quel libro?”. Dopo un altro mese, visto che non è accaduto nulla, allora ci riprovi: “Sai, quel libro mi serve per davvero: puoi restituirmelo?”. Alla fine perdi la pazienza, e rompi l’amicizia: “Dammi quel libro”, gli ringhi a denti stretti. E’ andata così”.



“E’ andata che quel libro – le fotografie dei poliziotti che hanno prestato servizio alla caserma di Bolzaneto, e quelli del blitz nella scuola: ci servivano per permettere ai ragazzi picchiati di riconoscere eventualmente qualcuno dei picchiatori – ce l’hanno dato quasi un anno dopo. Un anno, capite? E non era nemmeno il nostro libro, il libro che volevamo.

Che delusione. Tutte quelle immagini di ragazzini sorridenti, i capelli in ordine. Che belli. Gliele avranno scattate il giorno della prima comunione. Uno coi riccioli biondi, sembra un angioletto!

Un altro portava una barbetta da adolescente: eh, certo, quel giorno avrà avuto si e no 18 anni. Peccato che all’epoca dell’assalto alla Diaz avesse passato i quaranta da un pezzo. Peccato, rompere un’amicizia per colpa di un libro”.



“Dicono che vesto di nero perché sono una specie di black bloc, dicono che sono un black bloc perché vesto di nero e mi sono messo ad indagare sulla Polizia. “Ma come, processate i poliziotti e quei disgraziati che hanno distrutto una città intera li lasciate liberi?”. Intanto, perché vesto di nero lo sapete. C’è bisogno che vi racconti perché ho messo 150 poliziotti sotto inchiesta?

Ve lo ricordate, Donato Bilancia? Ha confessato di avere ucciso 17 persone in 6 mesi, qualcuna l’ha pure violentata: secondo voi cosa gli hanno fatto, quelli che l’hanno arrestato? Se è giusto spaccare la testa a decine di ragazzi con le mani alzate e sospettati di essere black bloc, a uno come Bilancia cosa gli avrebbero dovuto fare? Come minimo stuprarlo e tagliarlo a pezzi. E invece sapete cosa gli hanno fatto quelli che l’hanno arrestato? Si sono fatti offrire una sigaretta. Ecco cosa hanno fatto. Un tipo fortunato, quel Bilancia.

Arrivano qui, in questo ufficio, e ti guardano con quell’aria di superiorità. Come dire, guarda che alla fine non succederà nulla. Ma come: abbiamo lavorato insieme giorno e notte, per anni. Cercavamo la verità, la giustizia, eravamo pronti a qualsiasi sacrificio per ottenerla. E adesso, adesso che ti aspetti la massima collaborazione, adesso ti guardano con quella faccia, ti mostrano quel sorriso idiota.

Verità, giustizia. Ma è anche una questione di fiducia. Il nostro lavoro, quello dei giudici e degli investigatori, si basa proprio sulla collaborazione. Mica sui sorrisetti ironici. Perché così paghiamo tutti, anche i poliziotti e i giudici migliori.

Invece no “Io non c’ero, e se c’ero non ho visto nulla”: roba da barzellette sui mafiosi”.



“La cosa più divertente è che i no global si ricordano tutto, fino ai minimi particolari. E loro, i poliziotti, non ricordano nulla. Ma proprio nulla. “Con tutta quella confusione di allora, come faccio a ricordarmi?”, allargano le braccia. Come se non fossero pagati per quello, per fare chiarezza quando c’è confusione.

Prendete la scuola Diaz ad esempio: 60 ragazzi finiscono all’ospedale, 5 in prognosi riservata, sangue dappertutto. I feriti raccontano, i poliziotti no.

I volti mascherati, tutti. Black bloc, fazzoletti e passamontagna. Poliziotti, fazzoletti e caschi. Una verità mascherata, nascosta. Tocca a noi, trovarla: sapendo che comunque vada, ci sarà sempre qualcuno che mescolerà il piano giuridico con quello politico.

Mi sento solo, ma forse è meglio così. Ed è per questo, che vesto di nero. Per conservarla, questa solitudine”.

di Patrice Mersault – Genoa News Chronicle / Io, reporter