PRINCIPESSE

di Annika Dell’Antico & Guia Cerruti – Genoa News Chronicle / Io reporter

Grace Patricia Kelly e Diana Frances Spencer, figure femminili tra le più influenti del Novecento. Bellissime e biondissime, accomunate dallo straziante destino della morte prematura, improvvisa e violenta. Principesse diversamente tormentate, strappate alla vita e ai loro popoli, da sciagure stradali piombate su entrambe al tramonto dell’estate. Grace di Monaco e Lady D si conobbero nel corso di un concerto alla Goldmisth’s Hall di Londra. Era il 9 marzo 1981 e questa è la breve storia di quell’incontro.

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Grace e Diana, creature apparentemente fiabesche, lo stigma dell’aristocrazia, il passato e il presente, la tradizione e la svolta, il classico e il pop. Grace è una raggiante cinquantenne, madre di tre figli, appena segnata e indurita dal tempo. Sicura di sè, naturalmente regale in un cangiante shantung blu dai riflessi borgogna e indaco, perfettamente a suo agio nella gestione del protocollo. Il luminoso passato di attrice, i 25 anni di regno nel piccolo Principato di Casa Grimaldi e l’intelligenza sopraffina l’hanno resa infallibile nel riconoscere ed aggirare le insidie dello star-system. Grace appare sorridente, ma non vive un periodo sereno a causa delle preoccupazioni di madre. La figlia primogenita Caroline, perseguitata dai paparazzi, è appena uscita da un matrimonio rovinoso, avvelenato dai tradimenti del marito Philippe Junot, uomo maturo e inguaribile playboy. Mentre gli osservatori più scafati e le immancabili cassandre osano presagire per lady Diana lo stesso fallimento matrimoniale toccato in sorte a Caroline (i presupposti di un matrimonio senza amore, certamente, non mancavano), nessuno, davvero nessuno, può anche solo immaginare che l’evento londinese sarebbe stato ricordato come una delle ultime apparizioni pubbliche di Grace. La Principessa di Monaco morirà, infatti, appena 18 mesi dopo, in un rovinoso incidente stradale innescato da un malore improvviso.

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Nella sera londinese del 9 marzo 1981 tutti gli occhi sono per lei, Diana, bocciolo di 19 anni, al debutto ufficiale in qualità di fidanzata e promessa sposa del Principe Carlo d’Inghilterra, l’erede al trono del Regno Unito, la monarchia più antica del mondo. Diana è annuncio di primavera, delicata e pura come la rosa che regge tra le dita (foto sopra). Il contrasto quasi pittorico tra il suo diafano incarnato e il notturno del vestito, cattura l’attenzione. E’ fasciata nel taffetà di un abito nero dall’ampia scollatura che le lascia le spalle nude; il morbido décolleté impreziosito da un collier di diamanti e poi quel taglio di capelli che conquisterà le donne di tutto il mondo, il celebre caschetto, l’iconica chioma color miele che farà scuola: vaporosa, sfilata e ben scalata.

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Diana appare timida, acerba, impacciata; vampe di rossore colorano le gote chiarissime del suo viso. Intenerisce a attrae. Non è ancora la donna libera, indipendente e sexy plasmata dagli amici stilisti, ma una ragazza inglese di buona famiglia finita nel tritacarne del gossip. La famelica stampa inglese, più scatenata che mai, ha già scavato senza ritegno nella sua intimità. Nel vano tentativo di bloccare l’assalto, Diana si era trovata quasi costretta a dichiarare pubblicamente la sua verginità, viatico ancestrale e anacronistico per il matrimonio con il trentatreenne Carlo. Sicuramente è una teenager insicura e inesperta circondata da trappole: già quella sera teme di non essere ricambiata dal futuro consorte, avverte il suo cinismo, soffre la sua freddezza, conosce la predilizione di Carlo per un’altra donna, una certa Camilla Shand, forse è stata bersaglio di qualche caustico commento pronunciato dall’entourage della royal family…Inorridisce al pensiero di essere stata scelta solo per filiare, per garantire la successione del Casato Windsor senza fare storie. Timori che nel corso degli anni saranno confermati dai fatti. Per tutte queste ragioni, Diana, quella sera, si sente maledettamente a disagio:

“Non sapevo cosa fare, dove guardare – ricorderà anni dopo – dove andare. Se tenere la borsetta nella mano sinistra o nella destra. Ero semplicemente terrorizzata”.

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 Ogni errore (un gesto goffo, un’imperfezione, un’azione o una parola inopportuna) possono scatenare riprovazione e gogna mediatica. Puntuali, contro Diana, si scatenano le critiche; attacchi temutissimi, perchè piovono a pochi mesi dalle nozze. I fucili vengono puntati proprio sull’abito, meraviglioso per noi comuni mortali, sconveniente e sbagliato per i cultori dell’etichetta reale.

“Ero convinta che fosse il colore in assoluto più elegante che si potesse indossare a 19 anni. Era un abito molto adulto” raccontò la principessa anni dopo al biografo Andrew Morton.

Il primo affondo – narrano le cronache – arrivò proprio dal fidanzato Carlo che rimproverò alla futura moglie il colore, il modello eccessivamente sensuale e il fatto che apparisse così impacciata in un’occasione mondana. Il nero era riservato strettamente al lutto, impensabile indossarlo nelle uscite pubbliche ufficiali. Una bocciatura su tutta la linea che mortificò lo slancio da debuttante della giovane Diana. Fu Grace Kelly, testimone del disagio, a consolare la principessa designata. L’aneddoto è riportato da molti biografi reali, da Andrew Morton alla giornalista Tina Brown: l’incontro e lo scambio di confidenze a cuore aperto avvenne in bagno. Diana, ferita dalle critiche sussurrate con perfidia, stava piangendo. Grace, con delicatezza, le chiese cosa fosse accaduto. Diana confessò allora i suoi dubbi a causa dell’abito sbagliato. A quel punto la Principessa di Monaco, che sapeva quanto fosse arduo difendersi dagli attacchi pubblici di ogni sorta, con fare materno, fece notare a Diana che effettivamente il vestito nero era inadatto per quella occasione, ma assicurò alla ragazza che le stava bene. Poi, con un filo di amara ironia, fece capire a Diana che la macchina dei giudizi e del fango non si sarebbe fermata mai più. Un insegnamento che col senno di poi è stato interpretato alla stregua di una premonizione: “Non preoccuparti, andando avanti sarà peggio”, profetizzò Grace.

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Non si sa bene cosa successe dopo: forse Diana rientrò in sala-concerto con gli occhi gonfi e la dignità ricostruita, forse le due donne di generazioni lontane e problemi vicini si scambiarono altre confidenze. Certamente la Principessa Grace nutrì per Diana Spencer un sentimento di sincero affetto e considerazione. Ci piace pensare che avesse intuito il potenziale rivoluzionario di quella giovanissima debuttante. Qualcuno si è spinto perfino a dichiarare che Diana, da quella sera, divenne segretamente la sua protetta. Purtroppo ancora per poco.

FOTO | Diana alle esequie della Principessa Grace

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La verità è che quel vestito così contestato, rappresentò la prima spallata di Lady D alla polverosa, conservatrice ed opprimente monarchia inglese. Fu il primo di una lunga serie di revenge dresses (foto sotto), gli abiti da vendetta utilizzati da Diana come messaggi di emancipazione femminile e libertà; armi estetiche contro le convenzioni, le regole restrittive, le ferree limitazioni di una vita già tracciata sulle carte reali.

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Di quei look sbagliati o considerati fuori luogo, Diana andò sempre fiera. Costretta, negli anni del matrimonio, a un look preciso, esibiva sempre uno stile imprevedibile. Sentiva i vestiti imposti come una gabbia, eppure sapeva renderli leggeri solo indossandoli. Grazie a lei molti codici alternativi furono finalmente compresi e accettati.

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GRACE

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 Grace Kelly, americana di Filadelfia, attrice-feticcio di Alfred Hitchcock, musa di Hollywood, premio Oscar per la sua interpretazione nel film La ragazza di Campagna. Irresistibile per il contrasto tra il distacco apparente e la carica di sensualità pronta ad esplodere. Una maschera di freddezza che in realtà nascondeva una tempesta di erotismo. Gelo e palpito. Per lei il maestro del brivido coniò un ossimoro diventato celebre: “ghiaccio bollente”. Altera e disinibita, una chiostra di denti bianchissimi, un’eleganza che non sbagliava un colpo, in una parola una fuoriclasse.

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Grace, giunta all’apice della carriera, abbandonò i fasti dello spettacolo per sposare il Principe Ranieri III di Monaco. Dal cinema alla reggia dorata da duecento stanze di Montecarlo, dai copioni alla diplomazia, dai set all’etichetta di corte. Le nozze cinematografiche, celebrate il 18 aprile 1956 e trasmesse in tv, furono il primo evento mondano globale dopo gli orrori della guerra.



Grace è stata per casa Grimaldi la principessa perfetta, il simbolo di uno stile senza tempo e di un’ideale irraggiungibile, esempio di dignità e decoro che solo l’adorata primogenita Caroline e la nipote (mai conosciuta) Charlotte Casiraghi sapranno incarnare e reinterpretare con il gusto del loro tempo. Grazie alle capacità di Grace, il Principato rafforzò il suo blasone, moltiplicò la ricchezza, vinse le fibrillazioni con la Francia, si impose come crocevia del jet set internazionale, prestigiosa capitale del turismo d’élite, avamposto della cultura e della beneficienza.

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Genova 1966 – Grace e Ranieri ospiti della 1^ edizione di Euroflora

Ma nella sfera privata, con la crescita dei tre figli, iniziarono per Grace le trepidazioni.

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Ebbe solo il tempo di affrontare le bizze, l’anelito di libertà e gli amori sfortunati della splendida Caroline. Grace, per un certo periodo, accarezzò forse l’idea di un matrimonio tra la figlia e il Principe Carlo (foto sopra), ma dovette cedere di fronte alle infatuazioni spericolate di quella sua magnifica ragazza, resa così avventata dalla giovinezza e dalla dolcezza del vivere.

Malgrado i presentimenti negativi, acuiti dal sesto senso materno, fu costretta a subirne il disastroso matrimonio con il finanziere quarantenne Philippe Junot che tradì Caroline prima, durante e dopo le nozze. Playboy dalla spiccata personalità narcisistica, Junot mantenne una relazione con una giovane donna con la quale aveva già convissuto e non fece una piega quando vennero diffuse le prove delle bollenti liaisons con Agnette Furstenberg e Giannina Facio. Addirittura la decisione di conquistare la principessa Caroline sarebbe nata da una scommessa fatta con amici in un night club di Monaco con relativo assegno bancario a sancire la vincita, una volta avvenuto il matrimonio. A Grace, addolorata, toccò assistere al naufragio dello sciagurato legame, sancito dall’inevitabile divorzio. Anni dopo, nel 1992, il Tribunale della Sacra Rota, con un colpo di spugna, dichiarò quel matrimonio nullo, senza valore, non valido. Per Caroline una forma di risarcimento postumo dopo le umiliazioni patite e la certezza che i figli Andrea, Charlotte e Pierre, nati dalla successiva unione, densa d’amore, con l’italiano Stefano Casiraghi, sarebbero entrati di diritto nella linea di successione al trono. Anche se mai sposati con rito religioso, il matrimonio tra Caroline e Stefano fu legittimato da Papa Giovanni Paolo II nel febbraio 1993 dopo lo strazio per la scomparsa improvvisa dello stesso Casiraghi, avvenuta tre anni prima in un terribile incidente nautico. Nel 1990 Caroline, improvvisamente vedova, non ebbe neppure il sostegno di mamma Grace, ormai definitivamente lontana…Otto anni prima, infatti, un’altra irreparabile tragedia aveva sconvolto il Principato…

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Per Grace lo strappo improvviso e definitivo dalla vita si consumò il 14 settembre 1982, sotto forma di un incidente d’auto, lungo la corniche di Montecarlo. Il Principato diede in quell’occasione il peggio di sé: comunicati ufficiali macchinosi, l’ossessione della segretezza, il disgusto per una pubblicità non voluta e che non si sapeva come gestire, le mezze verità, le notizie ritardate che alimentarono congetture e sospetti. Ranieri che di colpo apparve invecchiato, impietrito, sconvolto. Secondo la ricostruzione ufficiale della dinamica, Grace, mentre era alla guida con accanto la figlia più piccola Stephanie, perse conoscenza a causa di un aneurisma cerebrale. L’auto stava affrontando il gomito del diavolo, una curva della tortuosa strada panoramica resa famosa – ironia della sorte – dal film di Alfred Hitchcock Caccia al Ladro interpretato magistralmente da Cary Grant e dalla stessa Kelly.

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L’impatto fu devastante. L’auto, una Rover 3500 V8 S, precipitò nello strapiombo, 40 metri più a valle, dopo essersi ribaltata più volte. Sull’asfalto nessun segno di frenata. Stephanie si salvò per miracolo, mentre le condizioni di maman Grace apparvero subito disperate. Trasportata all’ospedale di La Colle, venne operata d’urgenza dal professor Jean Duplay. Tutto inutile. L’autopsia delineò, con alta probabilità, le cause della sciagura: Grace, mentre guidava, fu vittima di un malore, un’ischemia che le fece perdere conoscenza e quindi il controllo della vettura (da giorni – riferirono successivamente i domestici reali – la Principessa lamentava una forte emicrania).

Per anni si insinuò il dubbio che al volante ci fosse Stephanie, minorenne e quindi ancora senza patente. Ad alimentare i sospetti, un testimone, che affermò di avere estratto la principessina ferita dalla parte del guidatore. Per scagionare la terzogenita di Grace e Ranieri, bisognerà aspettare il 2014, quando il giornalista Bertrand Tessier, intervistando l’allora capo della Gendarmeria di Mentone, Roger Bencze, analizzando le foto scattate dopo lo schianto, concluse che Stéphanie venne fatta certamente uscire (come la madre) dalla parte del conducente, ma solo perché l’auto era rovesciata sulla fiancata destra, la parte più accartocciata e impenetrabile. “Non solo ha visto morire sua madre, ma è stata accusata della sua morte, denunciò Tessier. A cancellare ogni residuo sospetto sulla dinamica, la testimonianza fondamentale di un poliziotto che qualche minuto prima dell’incidente aveva riconosciuto la Principessa Grace al volante della Rover.

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Certamente, con la scomparsa di Grace si chiuse il periodo d’oro del Principato, un periodo magico durato trent’anni. Da allora, altre favole nere, storie d’amore sbagliate o spezzate si sono succedute con impressionante cadenza. Oggi, in una Montecarlo senza poesia, solo Caroline e la figlia Charlotte accendono ancora i cuori con la scintilla della classe, ma questa è davvero un’altra storia…

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1982 – L’ultima foto ufficiale della Principessa Grace

DIANA

Diana, la donna che rifiutò un futuro da regina. Il mondo si innamorò di lei il giorno delle nozze con Carlo, l’erede al trono della Monarchia britannica. Per Diana la realizzazione di un sogno e l’inizio di un’agonia mitigata, solo in parte, dalla nascita dei due figli maschi, William ed Harry.

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Si chiamava come la dea della caccia e finì per essere la donna più cacciata del suo tempo. Spiata, umiliata, assediata. Mal tollerata dalla royal family, Diana è stata medicina e ricostituente per l’asfittica monarchia inglese. Respinta da pochi e amata da molti. Non esistevano i social, non si mostrava tutto di sè in ogni dove e in ogni momento, ma Lady D era diventata la star di una soap opera mondiale, l’icona di un’epoca. Magnetica e timida, umana e disponibile, sensibile e compassionevole, utilizzò la sua fama per dare amore. Dalle cene di gala ai campi minati, dalla beneficienza agli incontri con gli emarginati. La sua stretta di mano a un malato di Aids, cancellando paure e pregiudizi, cambiò, in un baleno, la percezione della malattia.

Diana empatica: abbracciava le persone, parlava con loro e le sapeva ascoltare, prendeva a cuore i problemi, cercava soluzioni e promuoveva donazioni. Ha combattuto contro gli schemi e le etichette. Diana rivoluzionaria, Diana politica: ha vissuto la stagione del Governo ultraconservatore e repressivo di Margareth Thatcher e ne ha osservato le drammatiche ricadute: privatizzazioni e primato della finanza, perdita di posti di lavoro, emarginazione, divario sociale, erosione della middle class, grandi ricchezze nelle mani di pochi, povertà in espansione e persino una guerra: quella combattuta e vinta dall’Inghilterra contro l’Argentina per il dominio sulle isole Falkland. E’ stato detto giustamente che nella tempesta del cambiamento Diana è stata il “ministro ombra” delle vittime del governo Thatcher. Dove non arrivava lo Stato, arrivava lei. Con le sue forze ha ridotto le distanze tra il popolo e la monarchia, ha costretto le istituzioni al cambio di passo dopo secoli di immobilismo. E’ stata l’anima e il motore di cause umanitarie che hanno lasciato il segno. Speciale il suo rapporto con Madre Teresa di Calcutta.

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“Faccio le cose in modo diverso, perché non seguo un libro di regole, perché seguo il cuore, non la testa, e anche se questo mi ha messo nei guai nel mio lavoro, lo capisco. Ma qualcuno deve andare là fuori, amare le persone e dimostrarlo. Sono uno spirito libero. A qualcuno non piace, ma è quello che sono”.

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Diana vulnerabile, vittima di un matrimonio senza amore: “Eravamo in tre in questo matrimonio, quindi era un po’ affollato” (il celebre riferimento è a Camilla Parker Bowles, storica amante di Carlo n.d.r.), sottomessa per anni a un marito freddo e infedele, ma stritolata dai giudizi malevoli se si abbandonava a una storia sentimentale. Quando osò ribellarsi a Carlo contraccambiandone i tradimenti, subì la peggiore delle imboscate: venne spiata. Le registrazioni di una telefonata bollente tra Diana e un suo amante finirono nelle redazioni dei tabloid; conversazioni intime e particolari piccanti dati in pasto all’opinione pubblica. Ma la trappola si rivelò un boomerang. Il mondo, disgustato dalla perversa macchinazione, continuò ad amare Diana, se possibile ancora di più. Per tutti divenne la regina di cuori.


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I segni evidenti della crisi di coppia in ogni pubblica apparizione

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E poi Diana autenticamente pop (popolare): amica di stilisti, artisti e rockstar, rispettata dall’intellighenzia internazionale. Diana ripiegata sul suo dolore fiabesco: la depressione, la bulimia, i tentativi di suicidio. Nella sua brevissima vita, ricchezza, libertà e felicità non coincisero quasi mai. Secondo i biografi più sensibili un solo, vero, grande amore: quello per il cardiochirurgo pakistano Hasnat Khan che Diana incontrò casualmente la prima volta il 1º settembre 1995.

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Portofino, 19 agosto 1997 | La foto più iconografica di Diana. L’autore è il reporter inglese Jason Fraser. Il lusso, il volo di un gabbiano simbolo di libertà, la sospensione nel vuoto, la solitudine. Mancano 12 giorni allo schianto mortale.

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Il 31 agosto 1997, a soli 36 anni, un mese e 29 giorni, Diana Spencer muore in un incidente automobilistico sotto il tunnel del Pont de l’Alma a Parigi, insieme al suo nuovo compagno Dodi Al-Fayed. La loro Mercedes, braccata dai fotografi e guidata dall’autista Henri Paul (forse ubriaco e sotto l’effetto di farmaci), si infrange contro il tredicesimo pilastro della galleria. Trevor Rees-Jones, guardia del corpo di Dodi, seduto sul sedile anteriore (il solo ad avere la cintura di sicurezza allacciata), è gravemente ferito, ma si salverà. Diana, liberata dal groviglio di lamiere, è ancora viva. Dopo i primi soccorsi, praticati da un medico che si trovava sul posto, viene trasportata da un’ambulanza all’ospedale Pitié-Salpêtrière dove arriva intorno alle 2:00. A causa delle gravi lesioni interne, viene dichiarata morta due ore più tardi.

L’ULTIMA FOTO

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Le cause dell’incidente non sono mai state del tutto chiarite. A distanza di anni non è ancora tramontata la teoria del complotto e la possibilità che Diana possa essere stata vittima di un assassinio organizzato dai servizi segreti britannici che reputavano il suo legame con il musulmano Al-Fayed un pericolo per la stabilità e la sicurezza della monarchia.

Le storie che ci vengono raccontate non sono mai quello che sembrano…

La notizia della morte di Diana provoca uno choc planetario. Londra si trasforma in un gigantesco tappeto di fiori.

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Il 6 settembre, giorno dei funerali, nelle strade della capitale britannica si riversano tre milioni di sudditi  in lacrime.

Tra le infinite testimonianze di quel giorno abbiamo scelto le struggenti parole dell’attrice anglo-francese Jane Birkin (foto sotto), così vera nel restituire il clima e l’atmosfera della perdita collettiva.

Tratto da Post Scriptum Diario 1982 – 2013 di Jane Birkin

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Avevo sottovalutato il bisogno di piangere degli inglesi, da sempre ci hanno insegnato a trattenerci, che mostrare i sentimenti non si fa, c’era un bisogno straordinario di sentire. Dappertutto c’erano foglietti con su scritto “perdono” e “regina dei cuori”. Hanno capito la compassione di Diana per gli altri, il suo modo di provare dolore e mostrare la propria modestia di fronte alle persone povere. Noi non l’abbiamo capita, le abbiamo fatto del male, abbiamo letto i tabloid ed è stata uccisa. Si poteva sentire fino a che punto fosse una perdita, così intimamente sentita…c’è stato un suono percepibile, come se si fosse mozzato il respiro di tutti nello stesso momento, e poi un sospiro di pietà. Era come se tutti fossero cresciuti di colpo, fossero diventati adulti e avessero assunto le proprie responsabilità. Sono sicura che è il più grande sentimento d’amore che abbia mai visto…Il rumore degli zoccoli dei cavalli e la vista dei gigli bianchi che fremono sono scomparsi nel sole autunnale. La principessa se n’è andata nel velo da sposa con cui era apparsa nelle nostre vite. Lì, la principessa dondolava dolcemente sulle spalle di quei giovani uomini, le loro guance contro la bara, come se ascoltassero il suo cuore.

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Le esequie solenni, trasmesse in diretta dalle televisioni di tutto il mondo, sono seguite da 2 miliardi e 700 milioni di persone. L’addio alla principessa di cuori diventa in assoluto l’evento più visto della storia. Diana ci ha lasciati, ma non del tutto. Nella resa fu la vera vincitrice e la sua stella continua a brillare.

Kristen Stewart, attrice, interprete di Diana nel film “Spencer”, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2021

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“Un’icona famosa e bellissima che è anche una madre, la madre di un futuro re. Una donna che è riuscita a creare empatia nella gente nonostante la sua condizione privilegiata. Ha sempre trasmesso mistero e magnetismo. Una dote innata. Eppure il suo destino era avverso, lei che voleva sempre aprirsi al mondo ed entrare in sintonia con le persone che aveva accanto, era l’essere più solo del mondo. Aveva una luce particolare e voleva essere amata per quella luce che pochi invece capivano. Era brillante, aveva un fuoco dentro, ma questo non è bastato a contrastare la sua fragilità di donna. Tutti abbiamo l’impressione di averla conosciuta, di essere state sue amiche, invece era la donna meno conoscibile in assoluto. Non sapremo mai chi è stata veramente”.

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di Annika dell’Antico & Guia Cerruti – Genoa News Chronicle / Io reporter

DELON, IL DIVO SUPREMO

Tania Brando Genoa News Chronicle / Io, reporter


Liberamente tratto dal documentario “Alain Delon, il lato oscuro di una stardi Philippe Kohly


Da tre generazioni Alain Delon è un’icona, una star. Brigitte Bardot ha detto di lui:

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E’ un animale selvaggio. Uno di quegli animali superbi e indomabili in via di estinzione. Il suo sorriso sanguigno e sconvolgente è una forza maggiore come il blu del suo sguardo che trafigge, analizza, strega e seduce. Lui, semplicemente, è. Lui è il mondo intero e il mondo intero lo conosce.

Come un cavaliere medioevale, Alain Delon ha sempre riconosciuto il valore salvifico delle donne. Molte lo accompagneranno nella vita, alcune ne influenzeranno la carriera.

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Devo tutto a mia madre e alle altre donne che ho conosciuto e amato. Le donne sono state la motivazione di tutta la mia vita. Esisto perchè ci sono le donne. Io amo solo le donne. Faccio questo lavoro grazie alle donne, devo tutto a loro. Sapevo di piacere, erano loro che mi cercavano.

Di Delon non esistono biografie, non le ha mai autorizzate. Solo un film scruta oltre il velo di riserbo. Il titolo originale è già di per sè rivelatore: “Frank Costello faccia d’angelo” (“Le samourai” del 1967). E’ un film che gira a 31 anni per la regia di Jean Pierre Melville. Il Samurai Frank Costello faccia d’angelo è un assassino, un combattente, ma l’uomo sembra inconsolabile e tormentato. Fa una vita solitaria come il suo interprete: Alain Delon.

La solitudine non mi pesa più di tanto. Mi piace. Ho sfondato giovanissimo. La solitudine non è dovuta alla popolarità, al fenomeno Delon. Risale a prima, all’infanzia, alle lacrime dell’infanzia.

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E comunque mi ha seguito per tutta la vita, è parte della mia vita e ci convivo bene. E quando non è presente ne ho bisogno.

Alain Delon, l’ultimo divo. Su di lui è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Adorabile canaglia, incorreggibile donnaiolo, principe degli arroganti, generoso e guascone, aperto e sfrontato, chiuso e cupo, insopportabile, ma profondo. Sicuramente complesso. La vita di Alain Delon è un caleidoscopio di lampi. Nasce l’8 novembre 1935. E’ la passione di sua madre. Edith Delon è pazza di questo figlio che le assomiglia come una goccia d’acqua, ma la sua felicità è di breve durata. Alain non ha ancora 4 anni quando i genitori divorziano. Il suo sconforto è il preludio a un’infanzia solitaria e, forse, a un’esistenza tormentata. Come sempre il padre la dà vinta a Edith che ottiene la custodia del figlio. Poi sparirà per diversi anni lasciando un vuoto nella vita del piccolo Alain. Edith si risposa e affida il figlio a una balìa che vive a Fresnes accanto al noto carcere. Il marito della balìa lavora come guardia carceraria e Alain vive dietro quelle alte mura, giocando con i figli degli altri agenti penitenziari.

8 anni: non ha più l’età per vivere con la nutrice e scopre che non ha più una casa. Ormai è di troppo. Finisce in un’altra prigione, quella dei sei successivi collegi: Benedettini, Gesuiti, Francescani, a volte a trenta chilometri dalla famiglia. E’ una vita da nomade, da un collegio all’altro, senza amici. Da questa lunga notte Alain esce dopo sei anni, dopo l’ennesima espulsione.

Ho passato tutta la mia infanzia, dagli otto ai quattordici anni, in collegio, in diversi collegi. Mi trasferivano regolarmente da uno all’altro perchè ero un ragazzo davvero insopportabile e pestifero.

14 anni: il ragazzo interrompe gli studi. E’ il momento di rendersi utile. La famiglia (la madre e il suo nuovo compagno) gli rimedia un posto da apprendista salumiere a Bourg La Reine. Alain impara subito le basi del mestiere. La salumeria è una grande azienda che conta sedici dipendenti. Delon vuole prendere il posto del patrigno, intende diventare maestro salumiere. E’ un ragazzo di Bourg La Reine, un mondo piccolo e chiuso, un paesino della periferia che nel ’50 è lontanissimo da Parigi.

A 17 anni si arruola, vuole andare in Aviazione, finirà in Marina. Comincia a vivere. “Ero attirato dall’ignoto“, ricorderà più volte.

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Nel 1954 parte per la Guerra di Indocina, c’è da combattere, ma trova degli amici e un gruppo di cui si sente parte. Nelle forze Armate Alain trova una famiglia. E poi c’è la realtà: i Francesi finiranno per perdere questa guerra coloniale. A Saigon, Alain conosce gli ultimi mesi di vita militare. Le partite a poker nel Quartiere Cinese, le ragazze orientali, ma anche la nostalgia per la Francia che ritrova al cinema attraverso la visione di “Grisbì con Jean Gabin.

Una rivelazione. Non sapevo che sarei diventato attore e che poi avrei incontrato Gabin, che gli avrei dato delle battute…Incredibile…Che bel ricordo.

E poi c’è la prigione militare. Per spassarsela Alain ruba una jeep dell’Esercito con la quale finisce in un fiume. Viene messo agli arresti e, alla fine, il ladro di jeep viene espulso dalle Forze Armate.

Nel 1956 eccolo a Parigi. Ha 20 anni ed è con le spalle al muro. Che fare? Non ha progetti ad eccezione di vivere. Vivere libero, finalmente.

Avevo troncato tutti i rapporti con la famiglia. Sono rientrato, da solo, a Parigi che ho scoperto per la prima volta. E’ solo nel ’56 che sono diventato parigino.

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Hotel Regina, condivide una camera con un ex commilitone. Non ha un soldo, ma le belle di notte non resistono al suo fascino.

Visto che non ero malaccio fisicamente, ed ero giovane, attiravo delle belle di notte desiderose di aiutarmi, offrendomi cibo e un tetto, il che non è affatto sgradevole quando hai ventun anni. Così, mi sono lasciato andare.

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Alain vive alla giornata, all’assalto di un mondo che gli è ignoto, Parigi. La sua faccia d’angelo gli spalanca molte porte. A Saint Germain des Prés lega con altre donne oltre a quelle di Pigalle. Il destino assume il volto di Michèle Cordoue, affascinante attrice diventata la sua amante. Il marito di lei è il regista Yves Allégret e sta per girare “Godot” il cui titolo originale è calzante: “Quando una donna si impiccia“. La donna convince il marito: deve prendere assolutamente questo ragazzo che le ha fatto un ottima impressione.



Un po’ ingenuo, un po’ canaglia, questo ragazzo disarmante non è un personaggio di fantasia. E’ Alain Delon com’è realmente a 21 anni. La contaminazione tra la propria esistenza e il cinema sarà la sua predominante cifra stilistica. Delon, più di ogni altro, è l’artista che ha soffiato la sua vita nei personaggi che ha interpretato. La sua vita sembra un film e i suoi film sembrano attraversati dalla sua vita.

Quando ho cominciato questo mestiere mi sono subito sentito nel mio elemento. Quando urlavano “motore!”, dopo avermi detto fai questo, lo trovavo normalissimo, facevo quello che facevo tutti i giorni. Non avevo la sensazione di girare un film, di recitare…mi limitavo a vivere. Fare l’attore è un meraviglioso incidente, è l’espressione più alta della naturalezza.

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L’attore debuttante ha anche una agente, Olga Orstig, la stessa di Brigitte Bardot. Ben presto Olga gli procura il ruolo da protagonista, degno della sua bellezza, assieme alla giovane star austriaca Rosemarie Magdalena Albach-Retty, in arte, Romy Schneider che Alain accoglie a Orly. E’ il loro primo incontro organizzato dalla produzione ad uso e consumo dei fotografi. Mi è sembrato un ragazzo poco interessante. Io gli davo il voltastomaco“, dirà Romy, il cui cachet è venti volte quello di Alain. Un’ereditiera, una borghese che per il teppista di Bourg La Reine è un’oca giuliva: “Appartiene alla classe sociale che odio di più al mondo“, scrive. Le riprese de “L’amante pura” (titolo originale “Christine“) cominciano in studio. Lei non parla francese, lui nemmeno una parola di tedesco.

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E’ una vera storia d’amore che vivono alla luce del sole, una storia romantica che si conclude con l’ultimo ciak. Alain riparte per la Francia, Romy torna in Germania, ma all’ultimo momento cambia il suo biglietto; non è più diretta a Colonia, ma a Parigi. Innamorata, irrompe nella vita di Alain, emancipata, armata di una grande determinazione.

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Intanto l’attore esibisce la sua bellezza in un nuovo film. E’ ormai consacrato sex-symbol e se lo contendono le più belle ragazze del cinema francese: una volta ancora il titolo non mente: “Le donne sono deboli” (titolo originale “Femmes faibles” del 1959). Una piccola commedia realizzata da un grande regista. René Clément sceglie Alain, gli offre il ruolo di un bravo ragazzo, ma Delon rifiuta. Vuole l’altro ruolo, quello della canaglia, “o faccio il protagonista, o niente“.

Io e Clément discutemmo e successe qualcosa. In fondo alla sala c’era una donna che ascoltava la conversazione senza fiatare, e di colpo ha detto: “René…caro…il piccolo ha ragione”. Era la moglie di René Clément.

Accanto a Clément, Alain entra in un altro mondo, quello di un artigiano che conosce i segreti del mestiere. Clément ha 46 anni, Alain ne ha 23. In lui trova una nuova figura paterna. L’astro nascente è prima di tutto un corpo in movimento. Alain possiede da sempre questo magnetismo animale. Ben presto l’attore fa colpo anche per quegli occhi blu-acciaio. Uno sguardo malinconico, ma affascinante che incrocia quello di un grande regista italiano, Luchino Visconti. Da tre anni Visconti cerca il suo eroe, un attore dolce, ma anche violento, e l’ha trovato. A 23 anni Alain recita in un film che diventerà un classico, “Rocco e i suoi fratelli” del 1961. Rocco ha vinto il suo incontro, ma la violenza lo disgusta. Incalzato da Visconti, Alain deve abbassare la guardia e dimostrare che oltre ad essere maschio sa anche piangere.

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Ora l’apprendista salumiere frequenta un grande artista, un uomo di grande cultura, l’erede dei Duchi di Milano. Nasce una relazione intima. Visconti ha trent’anni di più ed è affascinato, soggiogato dalla bellezza di Delon. Romy scopre di avere un rivale. Alain subisce l’ascendente del regista italiano, Visconti non fa che ripeterne il nome. Vuole incontrare l’attrice, lei rifiuta, lui insiste. Pur diffidente, Romy accetta. Visconti conquista anche lei. Offre alla coppia una vera sfida a Parigi, in teatro. Una pièce elisabettiana di John Ford, un’impresa carica di rischi. Per entrambi è la prima esperienza teatrale.

Ma Alain quanto ama la sua Romy? Le è accanto quando viene ricoverata d’urgenza per essere operata d’appendicite. La aiuta nella sua nuova vita in Francia che lei ha scelto contro la volontà della famiglia. “Non era il grande amore, ma l’amore dei vent’anni, l’amore della giovinezza, dirà lui più tardi. Quale futuro si immagina con lei? Tutta la vita insieme? Un matrimonio imminente? Dei figli? Romy gira la Francia in tournée con “Il gabbiano” di Cechov. Alain non c’è. Lei sa che è a Roma e che dovrà spogliarsi davanti alla cinepresa di Michelangelo Antonioni, di fronte a Monica Vitti e incarnare l’uomo seduttore, quello che lei ha conosciuto. Il film è “L’eclisse” del 1962.



Maggio 1962: la coppia – Alain e Romy – si fa notare al Festival di Cannes. Ora è lui la star, è lui che ha sempre i giornalisti alle calcagna. Romy è l’attrice che lo accompagna. In tre anni i loro ruoli si sono invertiti: lei recita a teatro, mentre al cinema la stella di Alain diventa sempre più fulgida. A Palermo, per “Il Gattopardo“, ritrova Luchino Visconti per la terza volta in due anni. Alain è l’attore-feticcio di Visconti, è diventato suo complice; nella vita tratta Luchino alla pari, lo maltratta persino. L’attore si lascia plasmare dal regista, un maniaco dei dettagli. E’ stato il suo pugile e adesso è Tancredi, l’impetuoso nipote del Principe di Salina, un ruolo che spaventa il teppista di Bourg La Reine. Visconti lo rassicura. Alain ha dalla sua la nobiltà della bellezza. Palma d’Oro a Cannes, il film raccoglie consensi in tutto il mondo. Alain è una star internazionale, ha vinto la sua “campagna” d’Italia e ottiene anche un nuovo apprendistato frequentando per sette mesi Burt Lancaster che definisce il “boss“.

La vita privata, al contrario, non è serena. E’ il periodo in cui Delon prende una decisione grave con implicazioni pesanti. L’11 agosto 1962 la cantante e modella tedesca Nico, musa dei Velvet Underground, dà alla luce un maschio di nome Ari (ufficializzato più tardi con le generalità di Christian Aaron Boulogne). Il bambino è il frutto di una notte di passione con l’attore che tuttavia non accetterà il legame di sangue con lui.

Nico

Nico, a causa della sua vita sregolata e della dipendenza dall’eroina, conscia di non poter crescere il figlio (foto sotto) in modo sano, decide di affidarlo alla madre di Alain, Edith, che lo considererà suo nipote e gli darà il cognome del suo secondo marito, Boulogne. Alain, invece, rimarrà fermo sulla sua posizione e non riconoscerà mai la paternità.

Nico e Ari

Ari – una vita tormentata dall’abuso di eroina e da forti depressioni fino alla morte in solitudine il 20 maggio 2023, a soli 60 anni (“Dai miei 16 anni fino alla fine, ho condiviso con mia madre la stessa droga, la stessa siringa. Era un modo per stare insieme”) – ha raccontato di aver visto il padre Alain più volte, ricordando in particolare un incontro avvenuto per caso nel 1986 a casa della nonna Edith, all’epoca malata. Secondo i suoi ricordi, dopo averlo riportato in macchina alla stazione della metro più vicina, l’attore fu lapidario:

“Alain Delon, una mano sul volante, l’altra che mi dava delle pacche sulla spalla, mi fa questo discorso: ‘Sei mio amico, sei mio amico. Ma ti dirò una cosa: non hai i miei occhi, non hai i miei capelli. Non sei mio figlio, non sarai mai figlio. Ho fatto sesso con tua madre una sola volta’”. Eppure la somiglianza con il divo francese era impressionante (foto sotto).

Ari

“Certe volta mi scoccia parlarne”, spiegava Ari in un’intervista rilasciata nel 2001, in occasione dell’uscita della sua autobiografia,L’amore non dimentica mai”. Ma per i legali di Delon, si trattava semplicemente di “coincidenze morfologiche”.

Problemi privati, demoni e scelte drammatiche non pregiudicano le affermazioni artistiche e la scalata al successo dell’attore. In Francia, da trent’anni, c’è il patron, Jean Gabin. Alain vuole succedergli per ereditare il suo scettro. Ma Jean Paul Belmondo, suo rivale da sempre, ha preso una lunghezza di vantaggio. Il suo nome appare accanto a quello di Gabin in un grande successo di Henry Verneuil, “Quando torna l’inverno” del 1962. E ora che Verneuil progetta un nuovo film col patron, l’occasione è imperdibile. Delon vuole quel ruolo a tutti i costi, ma è troppo tardi per la produzione, che rifiuta. Allora Alain lo gira gratuitamente e in cambio chiede i diritti di sfruttamento all’estero. E’ fatta. Il film, uscito nel 1963, tiene inchiodati dal primo all’ultimo minuto. E’ avvincente e diventa subito celebre. In italiano si intitola “Colpo grosso al Casinò“.

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Il duo Gabin – Delon fa meraviglie e attira, solo a Parigi, 800mila spettatori. E’ il più grande successo dell’anno, Alain raggiunge la vetta, ha fatto centro. A 28 anni è un idolo delle folle. E’ anche un attore di cinema impegnato e d’essai. E’ la quadratura del cerchio, un tour de force su cui forgiare una leggenda. L’attore ha terminato il suo apprendistato e apre una nuova pagina, anche nella vita sentimentale…

Gli eterni fidanzati non convoleranno a nozze. Alain ama un’altra. Dopo 5 anni lascia Romy. La rottura arriva sotto forma di una lettera di quindici pagine che le fa consegnare mentre è lontanissima negli Stati Uniti. “Non ho risposto alla lettera“, scriverà lei “Non c’era più nulla da dire…e poi non vorrei mai rivivere quei momenti, non lo sopporterei”. Alain ha incontrato Francine Canovas, una stupenda attrice francese di Casablanca e dopo un po’ è a lei che propone di sposarlo. Francine accetta e sarà conosciuta in tutto il mondo come Nathalie Delon.



All’inizio è in America che vive il suo amore con Nathalie. E’ laggiù che nasce il loro figlio Anthony. Alain cambia vita, forma una famiglia. Per il ragazzo che è stato abbandonato è la più bella delle vittorie; ed eccolo che si avventura su un terreno che fino ad ora gli è stato precluso: la felicità interiore. Proteggere i suoi cari, un ruolo per il quale non ha mai avuto modelli. Ma Alain voleva davvero proteggerla questa felicità oppure è disposto a rischiarla, a distruggerla?…Diciotto mesi più tardi la giovane coppia è in crisi. Con le loro reciproche infedeltà i due sgretolano il loro rapporto. Nathalie vuole andarsene ed ottenere la custodia di Anthony che ha meno di 4 anni. Alain accusa il colpo. Suo figlio ha l’età che aveva lui quando i suoi hanno divorziato. Ha rivissuto la sua storia familiare, lo smacco è terribile. Proietta il suo sconforto nel suo nuovo personaggio, il Samurai che va incontro alla sua tragica fine.

Samurai

Il Samurai sono io, ma in maniera inconsapevole, dirà Alain. Jean-Pierre Melville l’ha intuito. Dalla solitudine di Alain ricava un film epocale. Poi gliene propone un secondo, “I senza nome“. L’incontro con Melville è fondamentale per Delon perchè il regista condivide le sue predilezioni, per la notte, per l’onore, per la tragedia, per i fuorilegge. Eroe da film noir, Delon corre di nuovo incontro alla morte. Sullo schermo morirà 27 volte.

Sono un eroe cupo…Nella morte un eroe diventa simpatico

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Agosto 1968: nella campagna di Saint Tropez Alain sorride alla vita. Si sente libero come non mai, nella vita privata e nella carriera. Nessuna strada gli è preclusa. E’ venuto a Nizza per accogliere la partner del suo nuovo film. Ha rifiutato Natalie Wood, Monica Vitti e impone questa meravigliosa attrice che ora si è ritirata a Berlino: Romy Schneider! Nella loro relazione è il momento del terzo atto, la redenzione. Alain, che aveva lasciato Romy, ora le spalanca le porte di una grande carriera in Francia.

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La Piscina“, diretto da Jacques Deray, è un film-manifesto che segna il passaggio dalla spensieratezza degli anni ’60 alle inquietudini dei ’70. Non a caso la vicenda inizia metaforicamente nel pieno di un’estate rovente e si conclude tragicamente alle prime avvisaglie autunnali. E’ un film potente, drammatico, innervato da erotismo e scavo psicologico.

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Davanti alla cinepresa Alain e Romy interpretano scene della loro vita passata. “Non sento nulla, è come se baciassi un muro“, scrive Romy nel suo diario. E’ una donna diversa, ma non è questo il soggetto del film. La vera stella, lo sa bene, non è lei. A 32 anni la bellezza di Delon è al suo picco. Oggetto di contemplazione per 400mila spettatori in esclusiva a Parigi.



Al centro della trama le relazioni pericolose tra Marianne (Romy Schneider), Jean-Paul (Alain Delon), Penelope (l’iconica Jane Birkingif sotto) ed Harry (Maurice Ronet).


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A PROPOSITO DELLA MERAVIGLIOSA JANE BIRKIN (1946 – 2023)

Il film “La Piscina” segna l’incontro artistico tra Alain Delon, star affermata, e Jane Birkin, capelli color miele lunghi, soffici e lisci, la frangia fitta, grandi occhi da cerbiatta, labbra fruttate perennemente dischiuse e un habitus fisico sottile e sinuoso; è una stella nascente, ammirata per il suo stile unico e la connaturata eleganza (sarà sempre riconosciuta come la regina dell’hippy-chic indossato con sublime – e inimitabile – nonchalance). All’epoca della lavorazione Jane Birkin non ha ancora compiuto 22 anni, eppure è come se avesse già vissuto due vite (“la mia giovinezza sembra così lontana”): è madre della piccola Kate, nata dal matrimonio – ormai fallito – con il celebre compositore John Barry, il premio Oscar delle colonne sonore; da qualche mese è legatissima all’eclettico artista Serge Gainsbourg (foto sotto) con il quale vivrà una “torrida” e passionale storia d’amore condensata nel capolavoro (originariamente scritto per Brigitte Bardot) Je t’aime…moi non plus, la canzone più erotica, libera, struggente – e censurata – di sempre che Jane Birkin renderà perfetta grazie alla sua carica di pudore innocentemente perverso.

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Inglese, amatissima in Francia che in breve diventerà la sua terra adottiva (“l’Inghilterra è stata glaciale con me, volevo la Francia perchè la Francia mi voleva”), Jane Birkin, figlia d’arte, (la madre è l’attrice Judy Campbell) nel 1968 ha quattro film alle spalle tra i quali spicca l’opera-culto Blow Up” del maestro Michelangelo Antonioni.

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Nel film La Piscina, diretto da Jacques Deray, interpreta il personaggio-chiave: la giovanissima ed enigmatica Penelope, personificazione e metafora del rivoluzionario 1968. Penelope, perfetta immagine della “Swinging London”, incarna la bellezza, lo spirito, la moda e le contraddizioni del suo tempo; la sua apparizione, nella villa con piscina sulle colline di Saint Tropez, ha l’effetto di un terremoto destinato a sconvolgere le vite degli altri personaggi, tutti appartenenti, non a caso, alla generazione precedente.



Nei suoi Diari (i celebri Munkey Diaries) Jane Birkin restituisce l’atmosfera, a tratti drammatica ed inquietante, del set:

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1968, AGOSTO

Tante cose sono successe da quando ho rotto con John Barry. Ho appena finito un film intitolato “Slogan” in Francia. Dentro c’è un uomo che amo e il suo nome é Serge Gainsbourg. Ha un modo di fare particolare, ma io lo amo, è così diverso da tutto quello che conosco, abbastanza dissoluto ma puro al tempo stesso.

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Durante le riprese di La Piscina, Serge, Kate ed io vivevamo all’Hotel Byblos, a Saint Tropez. Serge aveva noleggiato una macchina colossale per portarci lì da Parigi. Legati con corde sul tetto, il passeggino di Kate e altre cose per bambini, che rompevano un po’ quell’aria di grandiosità desiderata da Serge. Per di più, la colossale vettura non poteva circolare nelle viuzze di Saint-Tropez, ed è portando a mano i bagagli che siamo arrivati fino all’albergo, per sistemarci lì per un mese.

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I miei genitori ci hanno raggiunti. Dato che la loro camera non era ancora pronta, avevo detto a mia madre di andare a rinfrescarsi nella nostra suite. Lei mi ha detto che in bagno, sullo specchio, c’erano dei cuori disegnati col rossetto e la scritta “Ti amo, ti amo, ti amo, Serge“. Aveva capito tutto!

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In quello stesso albergo si aggirava Demis Roussos, dall’ampia figura in caftano un po’ pelosa, che faceva paura a Kate vicino alla piscina, col suo vocione. La nostra vita privata era completamente separata dal set, dove l’atmosfera era pesante ed esotica. Piuttosto complicato per me. Un giorno, Romy aveva suggerito di portare Kate per giocare con suo figlio David e con Anthony, quello di Delon, e mi era sembrata una buona idea. L’ho quindi portata sul set. Arrabbiatura di Deray, il regista, che mi ha urlato contro: dovevo avere diciotto anni per la stampa e per l’immagine del film…Mi sono chiusa nei bagni con Kate, ed è Romy che è venuta a liberarmi.

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Mi sono rifiutata di uscire e lei mi ha detto che avrebbe mandato Jacques Deray a scusarsi, cosa che ha fatto. Romy è stata di una solidarietà totale. Durante la scena intima con Delon, mi hanno messo una matita in bocca per pronunciare più distintamente le parole, un’umiliazione…compensata totalmente dalla mia amicizia con la troupe e in particolare col capo macchinista, Jean Paul Meurice, che mi ha risposto, quando gli ho chiesto perchè misurassero sempre con un metro la distanza tra la cinepresa e Delon: “Segno sui soldi!”, la star non deve mai essere sfocata. Ho capito durante quelle riprese, e per tutta la vita, che la cosa più importante sono i tecnici, la loro protezione e la loro amicizia.

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Abbiamo creato un club, il club tropéziennes, in cui si mangiava la Tarte Tropézienne il venerdì sera, e hanno messo la mia foto dentro la cinepresa, dove si ricaricano le bobine, era ottimo per il morale. C’è un profumo, un odore, persino una pesantezza nelle immagini di La Piscina, che non assomiglia a nessun altro dei film in cui ho recitato, tanto l’erotismo era presente, e anche un certo pericolo.

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Alla fine delle riprese, la guardia del corpo di Alain Delon è stata trovata morta e chiusa in un telo di plastica. Detective veri si mescolavano a quelli falsi sul set, per la scena dell’annegamento di Maurice Ronet. Mi sentivo come una bambina che gioca in mezzo ai grandi, senza capire nulla, neanche l’importanza del mio ruolo, e che si lasciava solo portare da quelle persone che, loro sì, capivano tutto.



 Alain, come abbiamo visto, è coinvolto nelle indagini sul misterioso omicidio della sua guardia del corpo Stevan Marković, una storia che svela retroscena di sesso e droga nel suo entourage e che finisce per accrescerne la fama di attore difficile. Lo scandalo tocca la politica. Nel tritacarne della gogna mediatica finisce il Capo del Governo Georges Pompidou, braccio destro di De Gaulle e futuro presidente della Repubblica francese. I suoi nemici hanno implicato il nome della moglie Claude. Si mormora che il potente uomo politico e la futura première dame partecipassero a scorribande sessuali, con Delon e Nathalie, le guardie del corpo e alcune ragazze compiacenti. Tutti immortalati dalla macchina fotografica del bodyguard iugoslavo, che per questo sarebbe stato eliminato dai servizi segreti in nome della ragion di stato. Ipotesi verosimili? Macchinazioni e maldicenze? Attacchi e ricatti orditi da avversari politici? La verità sullo scandalo non si saprà mai. Si decide per il non luogo a procedere. Tutti usciranno indenni e Pompidou sarà eletto Presidente.


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La vicenda scuote Delon. L’attore sembra cambiato, appare chiuso e diffidente. Tutti i media mettono in piazza i suoi veri o presunti lati oscuri: la passione per le armi, qualche frequentazione corrotta, le amicizie discutibili che coltiva da sempre, come quella con il campione di pugilato Carlos Monzon, indio argentino detto El Macho. Un’amicizia che è segnata dal sangue: nella notte di San Valentino del 1988 Monzon strangola e getta dal balcone la sua compagna, la modella uruguaiana Alicia Muñiz. Il femminicidio divide l’Argentina, un Paese dove i maltrattamenti domestici erano all’ordine del giorno. Sull’onda emotiva del caso le donne marciano davanti al Parlamento di Buenos Aires e presentano le prime denunce per violenze. Monzon sarà condannato a 11 anni di carcere, ma l’amico Delon – da vero amico – lo sosterrà sempre.

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Delon e le donne, un capitolo senza fine. Tra le sue passioni c’è la cantante italo-francese Dalida, con cui negli anni ’60 ha avuto una travolgente storia d’amore; i due rimangono ottimi amici e nei primi anni ’70 incidono il brano “Paroles, paroles“. L’attore dirà di “avere amato terribilmente questa donna“.



Per Delon è un momento difficile, ma al suo fianco emerge un’altra donna che diventerà la più importante della sua vita. Durante le riprese di “Addio Jeff” scopre un’alleata che non lo abbandonerà mai, Mireille Darc. E’ la donna che lo ascolterà e lo capirà senza riserve. E’ la donna di cui ha bisogno.

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Col sostegno di Mireille, Alain inizia un nuovo capitolo della sua vita, quello del produttore. Sono gli anni dell’incontro con Belmondo e della nascita di una coppia formidabile. Tra le gemme del sodalizio il film “Borsalino“, del 1970, diretto ancora da Jacques Deray. Il film è il più grande successo dell’anno.

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E’ la consacrazione assoluta: a 35 anni, nella veste di attore-produttore, Alain si può permettere la libertà di ingaggiare direttamente al suo fianco, Jean Gabin, il mostro-sacro del cinema francese. Il film si intitola “Due contro la città” e sarà tra le 29 opere prodotte da Delon nel corso degli anni ’70, in un crescendo di impeto creativo. Non mancano le sorprese, anche amare. Nel 1976 Delon è il protagonista di “Monsieur Klein  una delle sue migliori interpretazioni di sempre, ma al botteghino la risposta del pubblico è fredda. Anche se selezionato a Cannes, il film non gli farà ottenere il premio come Miglior Attore che sognava. La delusione è cocente. Come un animale ferito si rifugia nel suo territorio, una foresta di 58 ettari immersa nella Valle della Loira, a Douchy. Mireille Darc è l’architetto di una casa spettacolare dove possono vivere felici. Amano le stesse cose, hanno gli stessi gusti, adorano i cani, dai 15 ai 25 animali che sono gli altri figli di Alain. Si può dire che lui è il capo-branco.

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Nel frattempo si ri-tuffa nel lavoro con la sua casa produttrice Adel e con una miriade di altre attività imprenditoriali. Ormai le sue partner sono tutte giovanissime. Alcune diventano amanti, una diventa la sua nuova compagna: è l’attrice Anne Parillaud. Accanto a lei si cimenta anche nella regia firmando due polizieschi pensati per il suo pubblico di sempre. Quasi 50enne Alain vive con Anne una passione che durerà due anni.

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Alla serata di gala del suo esordio da regista Alain Delon è accompagnato da Anne Parillaud, Mireille Darc e Romy Schneider. Romy ha accettato solo per Alain; dopo la tragica morte del giovanissimo figlio, l’attrice non esce più e vive sepolta in casa. L’anno dopo, inconsolabile, Romy si lascia morire.

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Per evitare i fotografi e per sfuggire al dolore in pubblico Alain non partecipa ai funerali. Tre giorni prima ha passato la notte davanti al corpo e ha scritto per la sua Romy una lettera struggente che diventerà un manifesto d’amore.

Delon riversa la malinconia nel personaggio del film “Un amore di Swann” del 1984. Interpreta un vinto, il barone di Charlus negli anni del crepuscolo, sotto la direzione di Volker Schlöndorff. In una scena, accanto a Jeremy Irons, pronuncia una riflessione che sembra perfettamente commisurata al suo stato d’animo.

La nostra vita è come un atelier di artisti, pieno di bozzetti lasciati a metà. Sacrifichiamo tutto per dei fantasmi che svaniscono uno dopo l’altro. Siamo infedeli alle nostre ambizioni, ai nostri sogni…L’amicizia conta pochissimo e quelli che la disprezzano, possono essere i migliori amici del mondo.

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Il grande attore affina ed arricchisce la sua galleria di personaggi. Non solo eroi e canaglie vincenti, ma anche uomini sconfitti, smarriti, sofferenti e intensi come il supplente della “Prima notte di quiete” di Valerio Zurlini.

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Per la magistrale interpretazione del garagista alcolizzato nel film “Notre Histoire” di Bertrand Blier, il mondo del cinema assegnerà a Delon il César come Migliore Attore, un riconoscimento che coincide con la rinascita privata, grazie a un nuovo grande amore: Rosalie Van Breemen, top-model olandese di 22 anni che gli darà due figli, Alain-Fabien e la prediletta Anouchka.

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Alain Delon e la figlia Anouchka – Festival di Cannes 2019

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Delon è ormai nella leggenda, è parte integrante della storia del cinema e del costume. Negli anni del nuovo millennio la star continua a far discutere. E’ scontroso, ma anche fragile e disarmante quando confida in pubblico le sue lancinanti depressioni. Nel 2013 è travolto dalle polemiche per una sua imprevedibile dichiarazione nel corso di un’ospitata televisiva a France 5:

Mi dispiace dirlo ma non esistono più differenze, non c’è più rispetto. Non ho niente contro i gay che si mettono insieme, ma noi uomini siamo fatti per amare le donne. Ora mi diranno che devo adattarmi a vivere nel mio tempo. Ma vivo male in quest’epoca che banalizza ciò che è contro natura.

Due anni dopo spacca ancora l’opinione pubblica per l’esplicito endorsement nei confronti del Front National di Marine Le Pen.

Ma chi è davvero Alain Delon?

Ciò che sono è frutto del caso, dunque devo accettarlo. Sono stato proiettato su una certa orbita e devo restarci. Dopodichè uno viene trascinato da questa cometa, da questa follia e poi, di colpo, ti appiccicano un’etichetta: “Tu sei Delon”. E devi continuare ad esserlo, devi interpretarlo, devi essere lui, devi immedesimarti in lui, perchè loro lo vogliono. Un po’ lo vuoi anche tu e perchè è così che funziona, ma è un gioco. E’ qui che Delon perde i punti di riferimento perchè non sa più bene dove si trova, perchè arriva un momento in cui il sistema ti sorpassa, questa macchina ti sorpassa e devi correre per riuscire a raggiungerla, a superarla. Ma alla fine chi è davvero quest’uomo? E’ il bambino che viveva a Fresnes!

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A Fresnes il bambino viveva solo, tagliato fuori dal mondo, al di là delle mura della prigione. Rosalie, intanto, è andata via. Alain ha bruciato la sua ultima passione e rimane fedele a colui che è sempre stato: il bambino abbandonato.

A Cannes, nel 2019, la Palma d’oro alla Carriera per l’attore che ha incantato il mondo. Sul palco, accompagnato dalla figlia Anouchka, pronuncia, commosso, un discorso che ha la forza di un ringraziamento estremo.

“È difficile durare e andarsene”



HANNO MANGIATO IL PANE E SONO DIVENTATI PAZZI

di Virna VianiGenoa News Chronicle / Io, reporter

Che sensazione di angoscia… E’ come essere avvolti in un miasma, come se una pestilenza vaporosa aleggiasse su tutti noi, ancora sospesa ma incipiente e inesorabile. E’ come respirare una di quelle malattie dell’aria che ammorbavano le città maledette delle antiche tragedie greche o calarsi negli scenari terribilmente visionari, trascendenti e irrazionali delle opere di Hieronymus Bosch. 

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El misterio del pan maldito

Pont-Saint-Esprit, Francia|Estate del 1951. Una tempesta di follia collettiva soffia sulla Francia del sud. L’epicentro è a Pont-Saint-Esprit, tranquillo villaggio di 5mila anime nel cuore della Linguadoca – Rossiglione.  500 abitanti sono colpiti da allucinazioni, vertigini, demenza, convulsioni, deliri, isteria, ipotermia (malgrado la calura estiva), iperattività motoria, esplosioni di violenza. Il paese, sconvolto, è prigioniero della pazzia e del panico. Le crisi sono terrificanti.

In quei giorni un giornale francese scrive:

Non è né Shakespeare né Edgar Allan Poe. Si tratta, purtroppo, della triste realtà di Pont-Saint-Esprit, teatro di episodi terrificanti provocati da allucinazioni. Sono scene che sembrano affiorare dal Medio Evo, scene di orrore e di pathos, piene di ombre sinistre”.

Altri particolari da un articolo del ‘TIME’, prestigiosa testata degli Stati Uniti con legami molto stretti con la CIA:

Tra i colpiti, delirium rosa: i pazienti battono selvaggiamente sul letto, urlando che fiori rossi germogliano dai loro corpi”.

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La piccola comunità di Pont-Saint-Esprit è un microcosmo dominato dall’orrore, ormai privo di freni inibitori o leggi morali. Nei rapporti delle Autorità stilati in quei giorni si delinea la fotografia di un paese simile a un girone infernale segnato da follia, eccessi, violenza e morte: persone che si gettano dai tetti, donne e uomini che si strappano i vestiti e corrono nudi per le strade, bambini terrorizzati che sostengono di avere le pance infestate da serpenti. Nel corso dei deliri alcuni sostengono di essere minacciati dalle fiamme, altri sono annichiliti da visioni colorate o terrorizzati da apparizioni improvvise di orribili creature o belve. Il parossismo dilaga.

Tra le vittime  il garagista del paese, Marcel Sauvet. Lo vedono girare per le strade mentre, in preda al delirio, sferra calci e pugni al vento, urlando ingiurie irripetibili all’indirizzo di una vecchia compaesana morta da più di dieci anni. “Risse con i morti”, ma non solo. Gli effetti degli stati allucinatori generano esperienze sciamaniche. L’alterazione delle percezioni spalanca le porte di un “altrove” spaventoso; l’uomo “diventa” pianta, animale o mostro. C’è chi sente nascere sul proprio corpo germogli di fiori ignoti e prega i parenti di innaffiarli.

Ancora oggi, a 65 anni dai fatti, testimoni e vittime restituiscono, nei loro racconti, esperienze estreme che sembrano emergere dalla notte dell’Apocalisse. Bernard Lunel e Paul Pages – all’epoca poco più che ventenni – ricordano la follia di quei giorni:

Alcuni, in preda alle allucinazioni, si buttavano dalle finestre. Una persona, tra le più integre e rispettabili del paese, a cavalcioni sul balcone, urlava a tutti che era una libellula e che poteva volare.

Ad aggravare il bilancio 5 morti (persone che non si ripresero dal declino psico-fisico),  2 casi accertati di suicidio, 300 intossicati, decine di internati nei manicomi di Montpellier, Nimes, Avignone, Orange e Lione e un  tessuto sociale in frantumi, minato da un grumo persistente ed insanabile di odi, accuse e vendette.

Pan maldito (2)

“Perché un dolore che si consuma nell’invisibilità, una sofferenza che strugge senza essere vista, è più di quanto l’essere umano possa sopportare… uno sparuto drappello di anime terrorizzate, attendate per cecità sull’orlo di un precipizio abissale”.

“Le ipotesi proliferavano, si agglutinavano, si addensavano, poi si liquefacevano sotto quel cielo affastellato di presagi e prodigi, ma dove si annunciavano solo assurdità. Dove tutto era, al tempo stesso, indefinito e sovradeterminato. Dove nessuna causa era abbastanza robusta per evitare che ogni singola cosa rimanesse senza la sua ragione”.

(Antonio Scurati – “Il Sopravvissuto”)



MA QUALI FURONO LE CAUSE DEL DELIRIO DI MASSA?

Una prima risposta arrivò dalla scienza. Alcuni medici, infatti, correlarono i sintomi descritti a Pont-Saint-Esprit con le terribili epidemie di ergotismo che tra il X e il XIX secolo avevano colpito l’Europa a ondate cicliche.

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L’ergotismo, nel corso dei secoli, ha profondamente agito sull’immaginario. Nel linguaggio popolare europeo, nel folklore e in moltissimi riti arcaici sospesi tra il sacro e il profano, l’ergot viene definito “grano pazzo” o “segale ubriaca”. Alcuni studiosi sostengono addirittura che abbia provocato più vittime della Peste.

Le epidemie di ergotismo erano molto comuni in Europa tra la fine del X e durante tutto il XIII secolo, diminuendo poi gradualmente, fino ai primi anni del XX secolo. Avvelenamenti collettivi relativamente recenti si sono verificati sul suolo francese nel 1819, mentre negli anni Venti del Novecento altri virulenti focolai hanno colpito migliaia di persone in Russia e in Inghilterra.

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La malattia colpiva soprattutto le comunità delle aree rurali povere, dove il pane rappresentava la parte più importante delle provvigioni giornaliere. La farina aveva prezzi differenti, a seconda del fatto che fosse non contaminata (farina bianca) o contaminata (farina scura); gli indigenti potevano permettersi solo quest’ultima, in quanto era il prodotto più economico. Gli intossicati, già debilitati da carenze alimentari, condizioni precarie di salute, inedia e miseria, non avevano scampo. Sempre grave il bilancio delle vittime proprio perchè i poveri rappresentavano in assoluto la fascia più numerosa della popolazione.

In epoca medioevale le descrizioni del “male” erano connotate da accenti apocalittici:

le carni cadevano a brani, come li bruciasse un fuoco sacro che divorava loro le viscere; le membra a poco a poco rose dal male, diventavano nere come il carbone. Morivano rapidamente tra atroci sofferenze oppure continuavano, privi dei piedi e delle mani, un’esistenza peggiore della morte; molti altri si contorcevano in convulsioni”.

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Ribattezzato, spesso erroneamente, fuoco sacro, fuoco di S.Antonio, ballo di San Vito, mal des ardents, l’ergotismo è una sindrome ancestrale associata al consumo di pane infettato dalla segale cornuta, la famigerata claviceps purpurea o ergot,  un fungo parassita – noto per i suoi effetti allucinogeniche attacca il grano.

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Nel caso di Pont-Saint-Esprit le conclusioni dei medici trovarono un’importante sponda nelle indagini di Polizia condotte sul campo. Elemento decisivo la confessione resa da un mugnaio, Maurice Maillet, il quale nel corso di un interrogatorio, ammise o fu costretto ad ammettere, di aver utilizzato farina di segale avariata, in aggiunta a quella di frumento, per risparmiare circa 2.000 franchi sulla fornitura. Nel 1951 l’intero paese precipitò in un clima da Inquisizione medioevale. Il pane prodotto dal fornaio incriminato venne subito bollato come pane del demonio o pane maledetto.

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Il suo negozio divenne bersaglio di improbabili esorcismi: l’ingresso fu sbarrato con una croce, mentre il panettiere, additato come untore, rischiò il linciaggio da parte della popolazione. Per placare la psicosi e l’angoscia collettiva le autorità arrestarono il mugnaio, più per proteggerlo che per la convinzione di ritenerlo realmente responsabile dell’intossicazione. L’inchiesta giudiziaria che seguì accertò l’inganno alimentare del mugnaio, ma non vi fu alcuna sentenza che riconobbe esplicitamente una relazione tra la truffa e l’avvelenamento di massa.



LA SVOLTA 

Nel volgere di pochi mesi la comunità di Pont-Saint-Esprit, seppure segnata per sempre dalla vicenda, tornò alla normalità. La storia del “pane infetto” tuttavia non fu mai completamente archiviata. Giornalisti, studiosi, antropologi  e ricercatori, nel corso dei decenni, non si sono accontentati della comoda versione ufficiale  (quella che indicava in un mugnaio – capro espiatorio l’autore del contagio)  e così hanno battuto altre piste, approdando a conclusioni sempre differenti, talvolta suggestive, ma non sempre convincenti. A tutt’oggi rimangono in piedi varie ipotesi: tra le spiegazioni prevalenti quella della contaminazione da micotossine, all’epoca ancora poco conosciute, oppure l’uso sconsiderato di un agente sbiancante per migliorare l’aspetto della farina.

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Tutto chiarito? Non proprio. Sui fatti di quella maledetta estate è affiorata, nel 2009, una tesi sconvolgente.  Ad aprire nuovi squarci sul mistero il giornalista statunitense Hank P. Albarelli, autore del libro “A Terrible Mistake: The Murder of Frank Olson and the CIA’s Secret Cold War Experiments”.

Albarelli, al termine di un’inchiesta durata sei anni, sostiene che gli abitanti di Pont-Saint-Esprit furono vittime di un esperimento segreto nel corso del quale la CIA avrebbe contaminato il pane con LSD per testarne gli effetti. Non si trattò, dunque, di un episodio accidentale, non fu l’ergotismo, ma una deliberata somministrazione di allucinogeni alla popolazione.

Punto di partenza dell’indagine la “strana” morte di Frank Olson, un biochimico al servizio della CIA, precipitato dal 13° piano di un edificio di New York nel 1953, due anni dopo i fatti francesi. Analizzando gli studi e le carte di Olson, Albarelli ipotizza che le allucinazioni di Pont-Saint-Esprit, furono causate dall’utilizzo di LSD, deliberatamente inserito nel pane prodotto dai forni del villaggio, o spruzzato nell’aria.

Sulla scorta delle confidenze di due ex colleghi di Olson, Albarelli conclude che la contaminazione di Pont-Saint-Esprit faceva parte di un esperimento di controllo mentale realizzato dalla CIA e dall’esercito americano, nell’ambito di un piano segreto più ampio, iniziato durante la Guerra di Corea e mirato a studiare l’efficacia di allucinogeni per scopi bellici. Il progetto della CIA noto come MKULTRA, si proponeva di testare un possibile utilizzo dell’LSD come arma segreta. L’operazione, peraltro,  fu oggetto di un’audizione davanti a una commissione al Senato nel 1977.  Tra il 1953 ed il 1965, aggiunge il giornalista, oltre 5700 soldati americani furono sottoposti a sperimentazioni con allucinogeni.

Ma non è tutto. Albarelli è riuscito anche a scovare un’intercettazione telefonica di una conversazione tra un agente della CIA ed una società farmaceutica svizzera, la Sandoz Pharmaceutical (oggi divisione della Novartis), nella quale viene citata l’operazione di Pont-Saint-Esprit e le cause che portarono all’epidemia di allucinazioni.

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La tesi complottista di Albarelli continua ad alimentare dubbi. Tra i critici più convinti l’accademico statunitense Steven Kaplan che sui fatti di Pont-Saint-Esprit ha pubblicato saggi ed articoli. Secondo Kaplan le teorie di Albarelli sono da rigettare, sia per la discordanza dei tempi, sia per le evidenze cliniche. Ripercorrendo quelle drammatiche giornate è possibile affermare che tra l’assunzione del pane avariato e la comparsa dei sintomi passarono circa 36 ore, mentre la somministrazione di Lsd accreditata da Albarelli avrebbe dovuto provocare effetti immediati: è noto, infatti, che l’acido lisergico agisce immediatamente. L’LSD, inoltre, non provoca i problemi gastro-intestinali e psichici descritti dagli abitanti del paese. Secondo Kaplan, insomma, credere che sia stato utilizzato come cavia un piccolo villaggio della Francia del sud per sperimentare l’uso di allucinogeni in campo bellico o come arma di controllo mentale è un esercizio assurdo e insensato.

Quale fu allora la vera causa della follia collettiva? Cosa accadde nell’estate del 1951 a Pont-Saint-Esprit, a pochi anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e in piena Guerra Fredda? Diverse ipotesi, nessuna certezza. Gli interrogativi si intrecciano, il mistero resta.


Virna VianiGenoa News Chronicle / Io, reporter