DOORS, GLI SCIAMANI DEL ROCK


Tratto da When You’re Strange – A Film About the Doors” di Tom Di Cillo

a cura di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io reporter

Il 3 luglio 1971 muore a Parigi, a 27 anni, Jim Morrison, icona ribelle del rock psichedelico degli anni ’60, poeta e frontman carismatico dei Doors, il gruppo fondato con i compagni Ray Manzarek, Robby Krieger e John Densmore.

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Avvolte nel mistero le cause della morte. E ad oltre mezzo secolo dalla sua scomparsa il mito è talmente denso che la tomba del Re Lucertola al cimitero Père Lachaise è – ancora oggi – meta del pellegrinaggio dei fans.

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Nato nel 1943, Morrison è stato uno dei più importanti esponenti della rivoluzione culturale degli anni Sessanta, “profeta della libertà” e poeta maledetto, simbolo dell’inquietudine giovanile di quegli anni. Appassionato di cinema, incontrò Ray Manzarek, a uno dei corsi dell’Università della California. Era il luglio del 1965: sulla spiaggia di Venice Beach nacquero i Doors. Il primo disco uscì nel ’67, l’ultimo nel ’71. In tutto i Doors hanno lasciato 6 album di studio e un live. Pezzi memorabili di blues e rock, jazz, pop e sonorità classiche come amava definire la sua musica Morrison: Love me two times, Waiting for the sun, People are strange, Roadhouse blues, Break on through, Light my fire, Riders on the storm, L.A. Woman, The End.

THE DOORS, QUESTA E’ LA LORO STORIA

Gli anni ’60 iniziano con uno sparo. Il movimento dei diritti civili di Martin Luther King si sta rafforzando, la guerra in Vietnam diventa sempre più brutale e sanguinaria, esplode il movimento giovanile; chiunque abbia più di trent’anni è un potenziale nemico culturale. I tempi delle sitcom puritane sono ormai lontani. L’establishment resiste, ma sta crescendo un’autentica contro-cultura. Per alcuni le droghe psichedeliche come l’LSD aprono le porte della percezione. C’è un vastissimo terremoto culturale che sta letteralmente lacerando il Paese e dalle sue crepe nasce una band: The Doors formata da quattro ventenni: Robbie Krieger (chitarrista), John Densmore (percussionista), Raymond (Ray) Daniel Manzarek (tastierista), Jim Morrison (voce e frontman). Jim Morrison è il primogenito di un ufficiale di Marina decorato. A 16 anni ha già letto Nietzsche, Rimbaud e Blake ed è letteramente fissato con Elvis Presley. Un giorno un insegnante, in una nota per la famiglia, lo definisce egocentrico.

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Jim Morrison frequenta tre college prima di iscriversi alla Scuola di Cinema dell’Università della California dove stringe amicizia con Ray Manzarek che suona le tastiere nella band del fratello. Ray ha iniziato con il pianoforte classico, ma poi si è indirizzato verso il jazz e il blues. Anche Jim è attratto dal blues, condividono anche l’interesse per il cinema e insieme assumono acidi diverse volte al mese. Jim realizza un solo film all’università con cui ottiene un voto molto basso. Non si laurea e comunica a Ray di volersi trasferire a New York. Pochi mesi dopo, a Venice Beach, Ray per caso incontra Jim che viveva in una soffitta e stava scrivendo canzoni per un concerto rock che aveva in mente. Ray gli chiede di cantarne una, Jim non vorrebbe…poi canta. Ray è colpito dalla poesia dei suoi testi e insieme decidono di formare una band. Jim ha già in mente un nome che gli piace, ispirato ad una poesia di William Blake: “Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo così com’è: infinita”. Jim va a vivere con Ray e la sua ragazza, Dorothy Fujikawa. Ray invita i suoi compagni del corso di meditazione a improvvisare con loro: John Densmore porta il suo amico Robbie Krieger; Jim è così entusiasta del suo slide per chitarra che gli chiede di usarlo in ogni canzone. A Robbie e John piacciono più i suoi testi che la sua voce, ma c’è qualcosa in questo ragazzo che li attrae.

Nell’estate del 1965 nascono i Doors

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Jim non ha mai cantato prima, Robbie suona la chitarra elettrica da soli sei mesi: aveva iniziato studiando chitarra acustica, per l’esattezza flamenco spagnolo, poi aveva suonato in una rock and roll band con John Densmore quando erano insieme al liceo. John, alle percussioni, si era trasformato in un virtuoso del jazz (stile Coltrane e Mingus). Ray affitta una casa dove la band prova per tutta l’estate. Hanno bisogno di canzoni. Jim chiede a tutti di scriverne una durante il weekend, ma solo Robbie fa i compiti: la prima canzone che compone si intitola “Light my fire”.



I Doors ottengono il loro primo ingaggio in un locale di Los Angeles. Ancora troppo insicuro Jim volta le spalle al pubblico e guarda la band, cosa che è abituato a fare durante le prove. Una sera entra l’impresaria del “Whisky ‘a Go Go”, si invaghisce di Jim Morrison e convince il suo capo ad assumere i Doors come gruppo fisso del locale. Alla fine del ’66 aprono i concerti di Van Morrison, dei The Byrds, di Frank Zappa e dei Buffalo Springfield; la voce si diffonde, si parla soprattutto del cantante.

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Jac Holzman, talent scout della Elektra Records, è così colpito da Morrison che offre alla band un contratto per tre album. La sera seguente Jim non si presenta al Whisky ‘a Go Go. John e Ray vanno a cercarlo nel motel dove alloggia e lo trovano imbottito di LSD. Quando lo riportano al locale Jim vuole suonare “The end”, il pezzo che ha scritto il giorno in cui è finita la storia con la sua ragazza ai tempi del liceo. Nel gruppo nessuno conosce le sue intenzioni…Dopo aver dato a Jim Morrison del bastardo depravato il proprietario del Whisky ‘a Go Go non vuole più saperne del gruppo. Poche settimane dopo i Doors registrano il loro primo album in cinque giorni. Holzman chiama il vecchio produttore Paul A. Rothchild. Apparecchiature all’avanguardia, un registratore a quattro piste. Su una pista si registrano le percussioni di John; le tastiere di Ray e la chitarra di Robbie su un’altra; la terza per la voce di Jim; la quarta per le sovraincisioni. Light my fire” e The End” superano i sette minuti, per inciderle è bastato eseguirle solo due volte. Per volontà di Jim tutte le canzoni vengono firmate dal gruppo, gli autori sono semplicemente i Doors.

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Per promuovere l’album Holzman acquista un cartellone pubblicitario su Sunset Street. Non era mai stato fatto prima. Break on through” è il loro primo singolo, ma non va oltre il 106° posto in classifica. Holzman decide allora di lanciare Light my fire”. Rothchild elimina le parti strumentali e la canzone diventa un successo radiofonico. Siamo nel luglio del 1967 e la prima canzone che Robbie Krieger ha scritto nella sua vita balza al primo posto in classifica. I primi diritti d’autore fruttano ai Doors 50mila dollari a testa. La famiglia di Jim è all’oscuro di tutto finchè un amico del fratello minore non arriva da loro con l’album…sembra proprio che il ragazzo in copertina somigli al figlio Jim.

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I familiari restano allibiti quando scoprono quello che Jim scrive di loro nella sua biografia: MORTI. Holzman manda i Doors a New York: è un successo immediato. Anche Andy Wharol resta affascinato, soprattutto da Morrison. E poi, come era successo ai Beatles e ai Rolling Stones, prima di loro, i Doors si esibiscono dal vivo al The Ed Sullivan Show”. Sullivan chiede ai Doors di eliminare dai testi cantati ogni riferimento alla droga; i Doors accettano, ma durante l’esibizione Jim canta le canzoni esattamente come erano state scritte. E’ passato appena un anno da quando Jim Morrison non riusciva nemmeno a guardare in faccia il pubblico, adesso la metamorfosi è completa.



Il fatto è che questa musica è strana, è musica che piace al diverso, all’emarginato, trascina l’ascoltatore nel magico regno del sogno. Una delle peculiarità sonore del gruppo dipende dalla mancanza di un bassista; questo lascia a Densmore la responsabilità della sezione ritmica. Il suo stile jazz lo rende preciso e nello stesso tempo imprevedibile. Le influenze del flamenco, nello stile di Krieger, apportano un alone di mistero: lui non usa mai il plettro, sia nelle ritmiche che negli arpeggi, ma c’è bisogno di un basso e Manzarek utilizza con la mano sinistra un piano-base per fare le parti di basso alle tastiere, mentre con la destra suona gli accordi all’organo tingendo il suo blues con venature barocche. L’organo produce una sensazione di festa, richiama l’infanzia, ma un’infanzia inquieta. Non a caso la copertina del secondo album “Strange Days” ritrae degli artisti circensi.

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E se la band crea una surreale atmosfera da circo, Jim Morrison è un funambolico trapezista. Ray vede Jim come un vecchio sciamano che trascina i suoi seguaci in un mondo dove non avrebbero mai osato entrare da soli. Morrison è innocente e profano, è un poeta del rock, pericoloso e molto intelligente; nessuno ha mai posseduto questa magica combinazione di qualità prima di lui. Per quanto possa volare in alto i suoi compagni sono sempre pronti ad afferrarlo per riportarlo a terra. La fama dei Doors esplode improvvisa ed intensa. Quasi tutta l’attenzione è rivolta a Jim. Robbie, Ray e John non sembrano mai infastiditi dalla sua popolarità e Jim gode a stare al centro dell’attenzione, sembra nato per questo: destinato ad essere famoso. Ogni cosa che fa sembra geniale o brillantemente congegnata per fare effetto. Jim crea la sua immagine senza l’aiuto di un personal manager. E’ lui che sceglie i vestiti, gli accessori, quei pantaloni in pelle così aderenti quasi a voler mettere in risalto i genitali.

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Sa esattamente cosa è meglio per lui. Forse per proteggersi, si comporta come se non gliene importasse nulla. Nel 1968 gli Who suonano come gruppo-spalla dei Doors al Singer Bowl di Long Island. Sembra quasi che Jim Morrison abbia bisogno dell’attenzione dei fans per sopravvivere. Il pubblico del Singer Bowl è già eccitato, Morrison lo accende ancora di più. Qualcuno tira una sedia. Prima del concerto un fotografo stava scattando foto dalla prima fila, ha visto Jim guardare direttamente una ragazza e toccarsi i genitali. Il fidanzato della ragazza ha afferrato una sedia. Secondo il fotografo è stata la prima sedia ad essere tirata.



La poesia di Morrison “The celebration of the Lizard” avrebbe dovuto occupare un lato intero del successivo album dei Doors, ma Paul Rothchild decide di non includerla; la reazione di Jim è imprevedibile e Rothchild sta ricevendo delle pressioni perchè la band produca un altro album, ora che è al top del successo. Il produttore riempie l’intera facciata del disco con canzoni che erano state scartate dal primo LP. Nonostante la grezza intensità delle nuove canzoni i critici bocciano l’album, ma i fans sono di diverso parere: l’album sarà un successo. Nel 1968 i Doors iniziano a registrare “The soft parade”. Jim inizia ad arrivare in studio strafatto o ubriaco. Robbie Krieger scrive metà delle canzoni dell’album e per la prima volta lui e Jim separano i diritti d’autore. Il movimento giovanile continua a crescere, nel 1968 l’America è radicalmente cambiata. In origine Ray era convinto che l’LSD fosse la chiave dell’illuminazione, ma una serie di brutti trip gli hanno fatto cambiare idea, così con Robbie e John si dedica alla meditazione nel tentativo di trovare la serenità. Morrison invece continua ad assumere acidi.



Jim ha ancora dubbi sulla sua voce, non ha studiato musica e non sa leggere uno spartito. Il suo cantante preferito non è più Elvis, adesso è Frank Sinatra. Ora Jim descrive la sua stessa voce come un grido o una cantilena malata. Morrison passa dagli allucinogeni agli alcolici. Ci vogliono 11 mesi per registrare “The soft parade” in parte a causa del perfezionismo di Rothchild che costringe la band a rieseguire continuamente i pezzi…ma tutti fingono di non vedere il vero problema…Morrison, in un vortice di eccessi, continua ad assumere droga e alcol, mentre Densmore accusa emicranie e soffre di eruzioni cutanee da stress; un giorno se ne va dallo studio, dicendo che non ne può più. Il giorno dopo ricompare e come se niente fosse la band riprende a registrare.

L’ARRESTO SUL PALCO

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A volte il bere aiuta Morrison, a volte no. Durante i concerti, la più grande preoccupazione della band è tenere Jim sveglio sul palco. Il primo arresto in scena, avviene a New Haven, Connecticut. Prima del concerto Jim si era appartato con una ragazza in una doccia nel backstage. Un poliziotto li aveva sorpresi, ma non riconoscendo Jim gli aveva ordinato di uscire. Jim lo manda a fanculo e il poliziotto lo prende a manganellate. Mancano pochi minuti allo show e Jim sta male: i suoi occhi sono ancora iniettati di sangue, gonfi di lacrime. A metà della prima canzone si interrompe e dice al pubblico quello che è appena successo. Jim continua a definire il poliziotto un piccolo uomo blu, con un piccolo vestito blu e un piccolo berretto blu. Quando arrivano i poliziotti sul palco Jim vuole che raccontino la loro versione, ma loro non vogliono parlare. Jim viene arrestato per turbamento della quiete pubblica e comportamento immorale.



Poi viene colpito in faccia e preso a calci mentre è a terra. I Doors iniziano a guadagnarsi la reputazione di band immorale e pericolosa. L’episodio segna un cambiamento nel rapporto dei Doors con il pubblico: ormai l’interesse di tutti è concentrato su Jim, sulle sue stravaganze. Cresce la sensazione che il pubblico non sia lì, tanto per ascoltare la musica, ma per assistere ad un evento. Diventa sempre più difficile distinguere tra il vero Jim e il personaggio che appare sul palco, ma il treno corre sempre più veloce e nessuno vuole saltare giù.

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Nell’aprile del 1968 Morrison viene scelto come cantante dell’anno, i Doors vincono il titolo come miglior band e Ray Manzarek quello di miglior musicista. L’album “The soft parade” è per il gruppo il quarto Disco d’Oro consecutivo, Touch me”, scritta da Krieger, diventa il terzo singolo top ten della band. A fine dicembre ’68 i Doors vengono definiti “i Rolling Stones d’America”…e proprio a quel punto Jim annuncia che vuole mollare. La band è sconvolta, senza Jim i Doors non esistono. La sua ragazza, Pamela Courson, vuole che lui si concentri sulla poesia. Jim aveva già pubblicato due raccolte autoprodotte, entrambe dedicate a lei. Il suo scrivere è simbolismo puro, lo innalza dalla quotidianità e lo libera dagli obblighi che una rockstar deve rispettare. Ma uscire da quei meccanismi non è così semplice come sembra.

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Ray lo convince a restare con loro per altri sei mesi, ma la sua tendenza a bere aumenta e Ray si accorge che l’alcol dà vita all’alter ego di Morrison: il suo nome è Jimbo e tutti, nella band, temono la sua comparsa. Preoccupati per la salute di Jim e per il futuro del gruppo decidono di affrontare Morrison in modo diretto. Jim ascolta rimanendo calmo. Resta sobrio per una settimana, poi ritorna Jimbo. La band gli affianca un gruppo di “bevitori professionali”, cioè bevitori che apprezzano l’alcol senza abusarne, ma è inutile. Durante un party a Los Angeles, Jim si addormenta con la testa sulle gambe di Janis Joplin. Lei scoppia a piangere e poi gli spacca una bottiglia di whisky in testa. Pam inizia ad essere stufa delle infedeltà da sbronza di Jim e vorrebbe aiutarlo. Lo convince a incontrare uno psichiatra, Jim ci va una volta. Si sta allontanando sempre di più dalla sua famiglia. Quando la madre va a Washington per vedere un concerto dei Doors, Jim non la incontra nemmeno. Dal 1966 non parla con suo padre che in quell’anno gli aveva scritto una lettera in cui gli intimava di abbandonare ogni idea di cantare o qualsiasi legame con un gruppo musicale perchè lo considerava completamente privo di talento. Al culmine della fama di suo figlio, l’ammiraglio Morrison comanda una Divisione di portaerei al largo delle coste del Vietnam; nel suo mondo la sopravvivenza dipende dall’obbedienza. Per Jim, invece, obbedienza equivale a suicidio.

Nel settembre del ’68 i Doors sono in tour in Europa. E’ un vero trionfo. Anche dopo che Jim ingoia un pezzo di hashish ad Amsterdam e sviene sul palco. Quella sera la band si esibirà senza di lui e Ray canterà tutte le canzoni. In seguito Jim resta a Londra con Pam, ma nel frattempo scopre che i Doors hanno concesso “Light my fire” per la pubblicità di un’auto. Robbie, Ray e John spiegano che hanno cercato di contattarlo per giorni, ritengono che l’offerta sia unica e che Jim debba essere d’accordo, ma Jim non lo è: la pubblicità e i 75mila dollari svaniscono. L’alcol sta compromettendo i rapporti personali. All’inizio, quando Ray ha formato la band, lui e Jim erano molto vicini. E Jim si era sempre trovato bene con Robbie, lo consigliava anche su come dare molteplici significati ai testi. L’alcol è diventato un muro. I primi tempi John e Jim giravano in auto, sognando di far parte di una famosa band di rock ‘n’ roll, ma per colpa dell’alcol l’armonia si è infranta. Tutti assistono al conflitto di Jim, ma non sanno come aiutarlo. Ormai i Doors fanno concerti sempre più grandi. Il primo di questi è all’Hollywood Bowl nel ’68. Jim sembra un po’ perso; John crede che si sia preso un acido poco prima di salire sul palco, Robbie pensa che Jim sia distratto da Mick Jagger che è tra il pubblico, seduto in prima fila con Pam sulle ginocchia. Al Madison Square Garden e al Forum di Los Angeles fanno il tutto esaurito. All’inizio del ’69 i Doors sostengono il primo vero tour negli Stati Uniti: tocca 19 città, la prima data è quella di Miami. La band arriva in anticipo, ma senza Jim. Una lite con Pam gli aveva fatto perdere il volo, si era fermato al bar dell’aeroporto, perdendo anche il successivo. Arriva con venti minuti di ritardo. L’atmosfera, dentro l’hangar trasformato in un’arena per l’occasione, è già tesa; l’impresario, togliendo tutte le sedie, ha creato più spazio e ha venduto duemila biglietti in più. Jim sembra disorientato nel momento in cui la band sale sul palco. La settimana precedente il Living Theatre (foto sotto) era andato in scena a Los Angeles: il loro è un manifesto fondamentalmente politico. Il cambiamento può avvenire solo rifiutando tutte le regole. Jim non si perde uno spettacolo.

Lui che aveva definito i Doors “politici erotici” confessa al regista della Compagnìa che, sebbene un’intera generazione lo stia idolatrando, sente come se non avesse mai avuto niente da dire. Sceglie questo come momento per cambiare. Qualcuno lancia un secchio di vernice arancione alla band, Jim insulta il pubblico, c’è agitazione sul palco. Un amico di Jim gli si avvicina e gli mette in braccio un agnellino, una donna versa una bottiglia di champagne addosso a Morrison, lui si toglie la maglietta e incita tutti a fare altrettanto: magliette, pantaloni, reggiseni, biancheria intima…tutto vola in aria, ma il pubblico chiede sempre la stessa canzone, “Light my fire”. Morrison si infuria: “Siete venuti per vedere qualcos’altro, vero?…Va bene! Ecco il mio cazzo!” Ray grida: “Fermatelo!” Il palco sembra impazzito, scoppia il caos. Robbie e John saltano giù, Manzarek invece continua a suonare. Jim viene scaraventato tra la folla da una guardia della sicurezza. A meno di un’ora dall’inizio il concerto era già finito. I Doors sono riusciti ad accennare solo frammenti di quattro canzoni. Il giorno dopo tutta la band vola in Giamaica per una vacanza. I Doors non sanno che a Miami sta accadendo qualcosa di strano. Jim ha tre denunce per cattiva condotta e una per oltraggio al pudore ed è questa la più preoccupante: si sostiene che Jim ha mostrato il pene in modo volgare e immorale, lo ha afferrato e scosso simulando l’atto della masturbazione e poi quello della copulazione orale con un’altra persona. Sebbene durante il concerto siano state scattate numerose foto, in nessuna si vede Morrison esibire il sesso.

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I Doors sono spiazzati. Al concerto erano presenti più di cento poliziotti, ma nessuno ha cercato di fermare Morrison. Secondo John l’unica cosa di cui sono colpevoli, in realtà, è di aver fatto un pessimo concerto. Un’ondata di conservatorismo percorre gli Usa, vengono organizzate manifestazioni a favore della decenza, contro i Doors. Persino la stampa rock è contro di loro. Le canzoni dei Doors non vengono più trasmesse dalle radio, e una dopo l’altra tutte le date del primo grande tour della band vengono cancellate. Il 4 aprile 1969 Jim Morrison, arreso, si consegna alla FBI. Il processo inizia ad agosto; Ray, Robbie e John testimoniano a suo favore, tutti e tre negano che abbia mai mostrato il sesso. Ma il pubblico Ministero Terence Mc Williams è irremovibile e insiste sull’accusa di copulazione orale. Jim spiega che era inginocchiato (foto sopra) semplicemente per ammirare da vicino la tecnica di Robbie nell’assolo. Mc Williams risponde che gliel’avrà visto fare centinaia di volte e Jim controbatte: “Beh…ma Robbie migliora sempre di più”. Sembra una commedia degli errori, ma il processo non è uno scherzo. Il 30 ottobre 1969 Morrison viene giudicato colpevole per atti osceni in luogo pubblico. Il giudice condanna Jim a sei mesi di lavoro duro in prigione. 

Non pentirti di qualcosa che hai fatto, se quando l’hai fatta eri felice – Jim Morrison

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L’avvocato dei Doors presenta subito appello, ma l’incertezza del risultato getta la band in una sorta di scomodo limbo. Morrison la prende molto male. Non è solo la paura di trascorrere del tempo in una prigione del profondo sud, ma è come se all’improvviso si fosse reso conto di non essere invincibile. L’innocenza di Morrison è messa in discussione e anche quella del Paese. Un sussulto di violenza si propaga per tutto il decennio e continua a riflettersi nella musica dei Doors. Morrison è convinto che la violenza sia una tradizione degli Stati Uniti, gli americani ne sono affascinati e sono assuefatti. I Doors non suonano a Woodstock (foto sotto).

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E così nel 1970, mentre aspettano il processo d’appello, volano su una piccola isola al largo delle coste inglesi; il concerto sull’isola di Wight è inteso come una fusione di spiriti tra i migliori musicisti rock del momento. I fans sostengono che il concerto dovrebbe essere gratuito, la polizia e gli organizzatori non sono d’accordo.



Alla fine del 1970 il sogno che aveva acceso un’intera generazione è giunto ufficialmente alla fine. L’LSD non ha condotto Charles Manson all’illuminazione, ma alla follia e un nuovo Presidente (Nixon) toglie qualsiasi speranza di cambiamento. Jim soffre molto la perdita di Jimi Hendrix e Janis Joplin, scherza con gli amici dicendo che stanno aspettando il terzo. Intanto viene pubblicata la sua prima collezione di poesie. Il libro diventa un grande motivo di orgoglio per Morrison:

“Niente – dice – è così eterno come la poesia e la canzone”

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Mentre il Paese entra nel nuovo decennio, i Doors ricominciano. L’album “Morrison Hotel” è un ulteriore passo fuori dalle convenzioni, è un ritorno alle loro radici, il blues. In soli due giorni si aggiudica il Disco d’Oro. Nonostante il disastro di Miami, Jac Holzman li incoraggia a preparare un altro album, ma le cose non cambiano: Jim arriva tardi, ubriaco, solo che ora in più ha aggiunto al cocktail anche la cocaina. Il gruppo è esausto e furioso. Rothchild si addormenta sul mixer, li accusa di suonare musica troppo soft, vorrebbe motivarli. Rothchild si rende conto che è arrivato il momento di andarsene. Le sue parole di saluto ai Doors saranno: “L’unico modo per voi di sopravvivere è di registrare questo album da soli”. Sorpresi dal suo abbandono i Doors si rivolgono a Bruce Botnick. Botnick incita la band a suonare e basta. Per John è come tornare indietro nel tempo, come quando si incontravano a suonare nei garage. E’ una sua idea quella di rallentare la parte centrale di L.A. Woman. Jim tira fuori un frase che vuole continuare a ripetere e dopo aver registrato, ne butta giù un’altra su un pezzo di carta, poi la mostra al gruppo: Mr Mojo Risin“(anagramma di Jim Morrison).



Registrano velocemente facendo diverse canzoni ogni giorno. Tra queste il capolavoro che diventerà il primo singolo dell’album “Riders on the Storm” (Cavalieri nella Tempesta). L’album viene registrato in una sola settimana. Ancora una volta tutte le canzoni vengono firmate Doors. L’8 dicembre 1970 Jim Morrison festeggia il suo compleanno, incidendo una sua poesia. Ha 27 anni. Gli amici non si spiegano come mai sia cambiato tanto negli ultimi due anni. La poesia lo fa uscire dalla depressione:

“Non ci sarà mai più nessuno come te. Non ci sarà mai più nessuno capace di fare le cose che fai. Oh! Mi darai un’altra possibilità? Vuoi fare un piccolo tentativo? Per favore, fermati, e ricorderai che eravamo insieme, comunque. Va bene, adesso, se hai una sera sicura, potresti prestarmela. Te la restituirò. So come potrebbe essere con te. Conosco i tuoi umori e la tua mente. E la tua mente. E la tua mente. E la tua mente. E tu sei mia…”

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Tratto da: Il blues dello sciamano

Jim Morrison accetta di esibirsi di nuovo dal vivo con i Doors. Il 12 dicembre a New Orleans vengono presentate le nuove canzoni dell’album “L.A. Woman”. Per un momento riappare il vecchio Jim, poi crolla sul palco e non si rialza. E’ proprio qui, che secondo Ray, tutta l’energia mentale di Jim lo abbandona. Pochi giorni dopo Pam Courson torna a Los Angeles dopo una vacanza a Parigi. Trova Jim a letto con un’altra donna che sostiene di averlo sposato con un rito pagano di streghe, ma la strega vola a New York e Jim torna con Pam. Lei sogna una vita insieme a Jim e vuole che lui abbandoni i Doors…potrebbe stare a casa e scrivere poesie, mentre lei potrebbe gestire una boutique esclusiva.

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Quando la band sta per ultimare “L.A. Woman”, Jim annuncia che lui e Pam si trasferiscono a Parigi. Vuole rilassarsi un po’, smettere di bere, concentrarsi sulla poesia. Ray gli chiede quando tornerà, ma Jim non sa rispondere. Il 17 aprile 1971, con il processo di Miami ancora in sospeso, Jim vola a Parigi. Per qualche tempo le cose procedono secondo i piani: Jim si concentra sulla sua poesia, si taglia la barba, gira per le strade da solo, visita il cimitero dove sono sepolti Chopin, Oscar Wilde, Edith Piaf. Soffre di tosse persistente. In America la Elektra lancia “L.A. Woman”, la critica lo accoglie come l’album del ritorno. Quando la tosse peggiora Pam lo porta da un medico che gli intima di smettere immediatamente di bere. Mentre vagabonda per la città porta con sè dei quaderni di appunti in una busta di plastica bianca: sono pieni di testi di canzoni e di poesie. Ma scrivere in solitudine non offre quell’eccitazione che lui conosce bene. Un giorno Jim fa una telefonata in America, John Densmore è sorpreso di sentirlo; Jim gli dice che sta pensando di tornare a casa per comporre un altro album con i Doors, ma John sente che la sua voce è impastata.

THE END

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Una notte, dopo ore di pesanti bevute, Jim dice di non sentirsi bene. Vuole fare un bagno. Dopo aver chiamato Pam “Sei ancora lì?”, muore, nella vasca da bagno. E’ il 3 luglio 1971.

Finalmente la guerra del Vietnam è finita, il movimento giovanile svanisce e non tornerà più. Ma quella ventata di protesta, seppur breve, è stata autentica e ha forgiato la coscienza di un’intera generazione. Per alcuni Jim Morrison è stato un poeta con l’anima intrappolata tra paradiso e inferno; per altri è solo l’ennesima rockstar caduta e bruciata, ma una cosa è certa: non puoi bruciare se non ti eri prima acceso. Ci sono voluti altri dieci anni prima che suo padre dicesse “mio figlio aveva una genialità unica che ha espresso senza compromessi”.

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I Doors sono esistiti per 54 mesi, hanno venduto 80 milioni di dischi in tutto il mondo, ne vendono ancora 1 milione all’anno e nessuna loro canzone è stata mai usata per vendere automobili.

IO E RAY MANZAREK, IL MIO RICORDO

Genova, 5 Luglio 2001 – Ray Manzarek – Foto by Alberto Terrile

Genova, giovedì 5 luglio 2001. E’ un pomeriggio caldissimo. La città è in subbuglio. Fervono i preparativi per il G8 che a fine mese precipiterà in un bagno di sangue e nessuno sa ancora che di lì a poco si sarebbe consumato l’attacco all’America, con gli attentati alle Torri Gemelle. Al Teatro della Corte è in programma la conferenza stampa di Ray Manzarek, il fondatore dei Doors. Manzarek è impegnato in un tour europeo per celebrare il trentennale della scomparsa di Jim Morrison e arriva a Genova nell’ambito del Festival Internazionale della Poesia. Come giornalista (all’epoca lavoravo per Telegenova Eurotelevision, gloriosa testata che oggi non esiste più) sono tra gli accreditati all’evento. Entro nel foyer del teatro assieme al mio cameraman Luca Faravelli. Siamo l’unica tv presente. Veniamo accolti da un’addetta stampa, prendiamo posto, ed ecco, su un divano di fronte a noi, Ray Manzarek, il mito dei Doors, l’amico fraterno di Jim Morrison. Ray è un elegante e gentilissimo signore dall’impronta dandy. Il suo eloquio è poetico, fluido e raffinato. Dopo la conferenza stampa, chiedo ed ottengo un’intervista esclusiva e per qualche minuto si apre un mondo di vibrazioni positive. Ray Manzarek è disponibile, sono a mio agio, tutto, insomma, fila liscio. Nell’intervista vengo coadiuvato da un interprete (il mio inglese è pessimo) e ho subito la sensazione (i giornalisti sanno cosa intendo) che sto vivendo l’intervista ideale. Ray Manzarek mi racconta uno dei suoi primi incontri con Jim Morrison…ricorda che lo vide uscire dal mare di Venice Beach simile a una divinità; aggiunge che tutti, nella band, beneficiarono della sua fascinazione. Secondo Ray Manzarek, Jim era uno sciamano e lo ripete durante l’intervista. Sono professionalmente coinvolto, sto parlando con un monumento della storia della musica, un artista che ha ispirato le grandi trasformazioni dell’ultimo scorcio degli anni ’60. Chiedo a Manzarek di pronunciarsi anche sull’imminente G8 e lui spende parole bellissime sul movimento no global che è pronto a contestare la politica arrogante dei grandi della Terra. L’intervista volge al termine, il mio operatore ha filmato tutto, ma ecco la svolta che non ti aspetti. Mentre stringo la mano a Manzarek, lui mi guarda e lancia un’idea fantastica: “Perchè tu e il tuo cameraman non mi seguite sul palco per la prova del concerto di questa sera? Potete filmarmi per qualche minuto mentre suono al pianoforte…potrebbe essere utile per il vostro servizio…”. E’ tutto vero, non è un sogno! Penso che Ray è una meravigliosa anima hippy…oltretutto con grandi competenze giornalistiche. Ed eccomi, dopo qualche minuto, sul palco del Teatro della Corte, mentre il fondatore dei Doors suona – solo per me e a favore di telecamera – uno degli “attacchi” più leggendari della storia della musica…l’inizio di “Light my fire” entrato nell’immaginario collettivo.

Genova, 5 Luglio 2001 – Ray Manzarek – Foto by Alberto Terrile

Il servizio è uno scoop, sono felice e orgoglioso. Viene trasmesso la sera stessa nel Tg delle 19, replicato in tre edizioni successive e inserito in una rubrica settimanale. Per 12 anni la cassetta Betacam del prezioso documento viene custodita nell’imponente archivio della tv; poi, nel 2013, a causa di una sciagurata e criminale gestione dell’emittente, l’intero patrimonio-video finisce al macero. E’ il dolore più grande nella mia carriera di cronista, una perdita irreparabile di memorie, immagini e testimonianze. Della visita di Ray Manzarek a Genova rimane comunque pochissimo. Di quel 5 luglio 2001 si sono salvate le intense fotografie di Alberto Terrile (vedi sopra).



Testo liberamente tratto da:

When You’re Strange – A Film About the Doors” di Tom Di Cillo

a cura di Fabio Tiraboschi  – Genoa News Chronicle / Io reporter

PRINCIPESSE

di Annika Dell’Antico & Guia Cerruti – Genoa News Chronicle / Io reporter

Grace Patricia Kelly e Diana Frances Spencer, figure femminili tra le più influenti del Novecento. Bellissime e biondissime, accomunate dallo straziante destino della morte prematura, improvvisa e violenta. Principesse diversamente tormentate, strappate alla vita e ai loro popoli, da sciagure stradali piombate su entrambe al tramonto dell’estate. Grace di Monaco e Lady D si conobbero nel corso di un concerto alla Goldmisth’s Hall di Londra. Era il 9 marzo 1981 e questa è la breve storia di quell’incontro.

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Grace e Diana, creature apparentemente fiabesche, lo stigma dell’aristocrazia, il passato e il presente, la tradizione e la svolta, il classico e il pop. Grace è una raggiante cinquantenne, madre di tre figli, appena segnata e indurita dal tempo. Sicura di sè, naturalmente regale in un cangiante shantung blu dai riflessi borgogna e indaco, perfettamente a suo agio nella gestione del protocollo. Il luminoso passato di attrice, i 25 anni di regno nel piccolo Principato di Casa Grimaldi e l’intelligenza sopraffina l’hanno resa infallibile nel riconoscere ed aggirare le insidie dello star-system. Grace appare sorridente, ma non vive un periodo sereno a causa delle preoccupazioni di madre. La figlia primogenita Caroline, perseguitata dai paparazzi, è appena uscita da un matrimonio rovinoso, avvelenato dai tradimenti del marito Philippe Junot, uomo maturo e inguaribile playboy. Mentre gli osservatori più scafati e le immancabili cassandre osano presagire per lady Diana lo stesso fallimento matrimoniale toccato in sorte a Caroline (i presupposti di un matrimonio senza amore, certamente, non mancavano), nessuno, davvero nessuno, può anche solo immaginare che l’evento londinese sarebbe stato ricordato come una delle ultime apparizioni pubbliche di Grace. La Principessa di Monaco morirà, infatti, appena 18 mesi dopo, in un rovinoso incidente stradale innescato da un malore improvviso.

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Nella sera londinese del 9 marzo 1981 tutti gli occhi sono per lei, Diana, bocciolo di 19 anni, al debutto ufficiale in qualità di fidanzata e promessa sposa del Principe Carlo d’Inghilterra, l’erede al trono del Regno Unito, la monarchia più antica del mondo. Diana è annuncio di primavera, delicata e pura come la rosa che regge tra le dita (foto sopra). Il contrasto quasi pittorico tra il suo diafano incarnato e il notturno del vestito, cattura l’attenzione. E’ fasciata nel taffetà di un abito nero dall’ampia scollatura che le lascia le spalle nude; il morbido décolleté impreziosito da un collier di diamanti e poi quel taglio di capelli che conquisterà le donne di tutto il mondo, il celebre caschetto, l’iconica chioma color miele che farà scuola: vaporosa, sfilata e ben scalata.

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Diana appare timida, acerba, impacciata; vampe di rossore colorano le gote chiarissime del suo viso. Intenerisce a attrae. Non è ancora la donna libera, indipendente e sexy plasmata dagli amici stilisti, ma una ragazza inglese di buona famiglia finita nel tritacarne del gossip. La famelica stampa inglese, più scatenata che mai, ha già scavato senza ritegno nella sua intimità. Nel vano tentativo di bloccare l’assalto, Diana si era trovata quasi costretta a dichiarare pubblicamente la sua verginità, viatico ancestrale e anacronistico per il matrimonio con il trentatreenne Carlo. Sicuramente è una teenager insicura e inesperta circondata da trappole: già quella sera teme di non essere ricambiata dal futuro consorte, avverte il suo cinismo, soffre la sua freddezza, conosce la predilizione di Carlo per un’altra donna, una certa Camilla Shand, forse è stata bersaglio di qualche caustico commento pronunciato dall’entourage della royal family…Inorridisce al pensiero di essere stata scelta solo per filiare, per garantire la successione del Casato Windsor senza fare storie. Timori che nel corso degli anni saranno confermati dai fatti. Per tutte queste ragioni, Diana, quella sera, si sente maledettamente a disagio:

“Non sapevo cosa fare, dove guardare – ricorderà anni dopo – dove andare. Se tenere la borsetta nella mano sinistra o nella destra. Ero semplicemente terrorizzata”.

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 Ogni errore (un gesto goffo, un’imperfezione, un’azione o una parola inopportuna) possono scatenare riprovazione e gogna mediatica. Puntuali, contro Diana, si scatenano le critiche; attacchi temutissimi, perchè piovono a pochi mesi dalle nozze. I fucili vengono puntati proprio sull’abito, meraviglioso per noi comuni mortali, sconveniente e sbagliato per i cultori dell’etichetta reale.

“Ero convinta che fosse il colore in assoluto più elegante che si potesse indossare a 19 anni. Era un abito molto adulto” raccontò la principessa anni dopo al biografo Andrew Morton.

Il primo affondo – narrano le cronache – arrivò proprio dal fidanzato Carlo che rimproverò alla futura moglie il colore, il modello eccessivamente sensuale e il fatto che apparisse così impacciata in un’occasione mondana. Il nero era riservato strettamente al lutto, impensabile indossarlo nelle uscite pubbliche ufficiali. Una bocciatura su tutta la linea che mortificò lo slancio da debuttante della giovane Diana. Fu Grace Kelly, testimone del disagio, a consolare la principessa designata. L’aneddoto è riportato da molti biografi reali, da Andrew Morton alla giornalista Tina Brown: l’incontro e lo scambio di confidenze a cuore aperto avvenne in bagno. Diana, ferita dalle critiche sussurrate con perfidia, stava piangendo. Grace, con delicatezza, le chiese cosa fosse accaduto. Diana confessò allora i suoi dubbi a causa dell’abito sbagliato. A quel punto la Principessa di Monaco, che sapeva quanto fosse arduo difendersi dagli attacchi pubblici di ogni sorta, con fare materno, fece notare a Diana che effettivamente il vestito nero era inadatto per quella occasione, ma assicurò alla ragazza che le stava bene. Poi, con un filo di amara ironia, fece capire a Diana che la macchina dei giudizi e del fango non si sarebbe fermata mai più. Un insegnamento che col senno di poi è stato interpretato alla stregua di una premonizione: “Non preoccuparti, andando avanti sarà peggio”, profetizzò Grace.

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Non si sa bene cosa successe dopo: forse Diana rientrò in sala-concerto con gli occhi gonfi e la dignità ricostruita, forse le due donne di generazioni lontane e problemi vicini si scambiarono altre confidenze. Certamente la Principessa Grace nutrì per Diana Spencer un sentimento di sincero affetto e considerazione. Ci piace pensare che avesse intuito il potenziale rivoluzionario di quella giovanissima debuttante. Qualcuno si è spinto perfino a dichiarare che Diana, da quella sera, divenne segretamente la sua protetta. Purtroppo ancora per poco.

FOTO | Diana alle esequie della Principessa Grace

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La verità è che quel vestito così contestato, rappresentò la prima spallata di Lady D alla polverosa, conservatrice ed opprimente monarchia inglese. Fu il primo di una lunga serie di revenge dresses (foto sotto), gli abiti da vendetta utilizzati da Diana come messaggi di emancipazione femminile e libertà; armi estetiche contro le convenzioni, le regole restrittive, le ferree limitazioni di una vita già tracciata sulle carte reali.

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Di quei look sbagliati o considerati fuori luogo, Diana andò sempre fiera. Costretta, negli anni del matrimonio, a un look preciso, esibiva sempre uno stile imprevedibile. Sentiva i vestiti imposti come una gabbia, eppure sapeva renderli leggeri solo indossandoli. Grazie a lei molti codici alternativi furono finalmente compresi e accettati.

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GRACE

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 Grace Kelly, americana di Filadelfia, attrice-feticcio di Alfred Hitchcock, musa di Hollywood, premio Oscar per la sua interpretazione nel film La ragazza di Campagna. Irresistibile per il contrasto tra il distacco apparente e la carica di sensualità pronta ad esplodere. Una maschera di freddezza che in realtà nascondeva una tempesta di erotismo. Gelo e palpito. Per lei il maestro del brivido coniò un ossimoro diventato celebre: “ghiaccio bollente”. Altera e disinibita, una chiostra di denti bianchissimi, un’eleganza che non sbagliava un colpo, in una parola una fuoriclasse.

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Grace, giunta all’apice della carriera, abbandonò i fasti dello spettacolo per sposare il Principe Ranieri III di Monaco. Dal cinema alla reggia dorata da duecento stanze di Montecarlo, dai copioni alla diplomazia, dai set all’etichetta di corte. Le nozze cinematografiche, celebrate il 18 aprile 1956 e trasmesse in tv, furono il primo evento mondano globale dopo gli orrori della guerra.



Grace è stata per casa Grimaldi la principessa perfetta, il simbolo di uno stile senza tempo e di un’ideale irraggiungibile, esempio di dignità e decoro che solo l’adorata primogenita Caroline e la nipote (mai conosciuta) Charlotte Casiraghi sapranno incarnare e reinterpretare con il gusto del loro tempo. Grazie alle capacità di Grace, il Principato rafforzò il suo blasone, moltiplicò la ricchezza, vinse le fibrillazioni con la Francia, si impose come crocevia del jet set internazionale, prestigiosa capitale del turismo d’élite, avamposto della cultura e della beneficienza.

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Genova 1966 – Grace e Ranieri ospiti della 1^ edizione di Euroflora

Ma nella sfera privata, con la crescita dei tre figli, iniziarono per Grace le trepidazioni.

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Ebbe solo il tempo di affrontare le bizze, l’anelito di libertà e gli amori sfortunati della splendida Caroline. Grace, per un certo periodo, accarezzò forse l’idea di un matrimonio tra la figlia e il Principe Carlo (foto sopra), ma dovette cedere di fronte alle infatuazioni spericolate di quella sua magnifica ragazza, resa così avventata dalla giovinezza e dalla dolcezza del vivere.

Malgrado i presentimenti negativi, acuiti dal sesto senso materno, fu costretta a subirne il disastroso matrimonio con il finanziere quarantenne Philippe Junot che tradì Caroline prima, durante e dopo le nozze. Playboy dalla spiccata personalità narcisistica, Junot mantenne una relazione con una giovane donna con la quale aveva già convissuto e non fece una piega quando vennero diffuse le prove delle bollenti liaisons con Agnette Furstenberg e Giannina Facio. Addirittura la decisione di conquistare la principessa Caroline sarebbe nata da una scommessa fatta con amici in un night club di Monaco con relativo assegno bancario a sancire la vincita, una volta avvenuto il matrimonio. A Grace, addolorata, toccò assistere al naufragio dello sciagurato legame, sancito dall’inevitabile divorzio. Anni dopo, nel 1992, il Tribunale della Sacra Rota, con un colpo di spugna, dichiarò quel matrimonio nullo, senza valore, non valido. Per Caroline una forma di risarcimento postumo dopo le umiliazioni patite e la certezza che i figli Andrea, Charlotte e Pierre, nati dalla successiva unione, densa d’amore, con l’italiano Stefano Casiraghi, sarebbero entrati di diritto nella linea di successione al trono. Anche se mai sposati con rito religioso, il matrimonio tra Caroline e Stefano fu legittimato da Papa Giovanni Paolo II nel febbraio 1993 dopo lo strazio per la scomparsa improvvisa dello stesso Casiraghi, avvenuta tre anni prima in un terribile incidente nautico. Nel 1990 Caroline, improvvisamente vedova, non ebbe neppure il sostegno di mamma Grace, ormai definitivamente lontana…Otto anni prima, infatti, un’altra irreparabile tragedia aveva sconvolto il Principato…

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Per Grace lo strappo improvviso e definitivo dalla vita si consumò il 14 settembre 1982, sotto forma di un incidente d’auto, lungo la corniche di Montecarlo. Il Principato diede in quell’occasione il peggio di sé: comunicati ufficiali macchinosi, l’ossessione della segretezza, il disgusto per una pubblicità non voluta e che non si sapeva come gestire, le mezze verità, le notizie ritardate che alimentarono congetture e sospetti. Ranieri che di colpo apparve invecchiato, impietrito, sconvolto. Secondo la ricostruzione ufficiale della dinamica, Grace, mentre era alla guida con accanto la figlia più piccola Stephanie, perse conoscenza a causa di un aneurisma cerebrale. L’auto stava affrontando il gomito del diavolo, una curva della tortuosa strada panoramica resa famosa – ironia della sorte – dal film di Alfred Hitchcock Caccia al Ladro interpretato magistralmente da Cary Grant e dalla stessa Kelly.

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L’impatto fu devastante. L’auto, una Rover 3500 V8 S, precipitò nello strapiombo, 40 metri più a valle, dopo essersi ribaltata più volte. Sull’asfalto nessun segno di frenata. Stephanie si salvò per miracolo, mentre le condizioni di maman Grace apparvero subito disperate. Trasportata all’ospedale di La Colle, venne operata d’urgenza dal professor Jean Duplay. Tutto inutile. L’autopsia delineò, con alta probabilità, le cause della sciagura: Grace, mentre guidava, fu vittima di un malore, un’ischemia che le fece perdere conoscenza e quindi il controllo della vettura (da giorni – riferirono successivamente i domestici reali – la Principessa lamentava una forte emicrania).

Per anni si insinuò il dubbio che al volante ci fosse Stephanie, minorenne e quindi ancora senza patente. Ad alimentare i sospetti, un testimone, che affermò di avere estratto la principessina ferita dalla parte del guidatore. Per scagionare la terzogenita di Grace e Ranieri, bisognerà aspettare il 2014, quando il giornalista Bertrand Tessier, intervistando l’allora capo della Gendarmeria di Mentone, Roger Bencze, analizzando le foto scattate dopo lo schianto, concluse che Stéphanie venne fatta certamente uscire (come la madre) dalla parte del conducente, ma solo perché l’auto era rovesciata sulla fiancata destra, la parte più accartocciata e impenetrabile. “Non solo ha visto morire sua madre, ma è stata accusata della sua morte, denunciò Tessier. A cancellare ogni residuo sospetto sulla dinamica, la testimonianza fondamentale di un poliziotto che qualche minuto prima dell’incidente aveva riconosciuto la Principessa Grace al volante della Rover.

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Certamente, con la scomparsa di Grace si chiuse il periodo d’oro del Principato, un periodo magico durato trent’anni. Da allora, altre favole nere, storie d’amore sbagliate o spezzate si sono succedute con impressionante cadenza. Oggi, in una Montecarlo senza poesia, solo Caroline e la figlia Charlotte accendono ancora i cuori con la scintilla della classe, ma questa è davvero un’altra storia…

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1982 – L’ultima foto ufficiale della Principessa Grace

DIANA

Diana, la donna che rifiutò un futuro da regina. Il mondo si innamorò di lei il giorno delle nozze con Carlo, l’erede al trono della Monarchia britannica. Per Diana la realizzazione di un sogno e l’inizio di un’agonia mitigata, solo in parte, dalla nascita dei due figli maschi, William ed Harry.

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Si chiamava come la dea della caccia e finì per essere la donna più cacciata del suo tempo. Spiata, umiliata, assediata. Mal tollerata dalla royal family, Diana è stata medicina e ricostituente per l’asfittica monarchia inglese. Respinta da pochi e amata da molti. Non esistevano i social, non si mostrava tutto di sè in ogni dove e in ogni momento, ma Lady D era diventata la star di una soap opera mondiale, l’icona di un’epoca. Magnetica e timida, umana e disponibile, sensibile e compassionevole, utilizzò la sua fama per dare amore. Dalle cene di gala ai campi minati, dalla beneficienza agli incontri con gli emarginati. La sua stretta di mano a un malato di Aids, cancellando paure e pregiudizi, cambiò, in un baleno, la percezione della malattia.

Diana empatica: abbracciava le persone, parlava con loro e le sapeva ascoltare, prendeva a cuore i problemi, cercava soluzioni e promuoveva donazioni. Ha combattuto contro gli schemi e le etichette. Diana rivoluzionaria, Diana politica: ha vissuto la stagione del Governo ultraconservatore e repressivo di Margareth Thatcher e ne ha osservato le drammatiche ricadute: privatizzazioni e primato della finanza, perdita di posti di lavoro, emarginazione, divario sociale, erosione della middle class, grandi ricchezze nelle mani di pochi, povertà in espansione e persino una guerra: quella combattuta e vinta dall’Inghilterra contro l’Argentina per il dominio sulle isole Falkland. E’ stato detto giustamente che nella tempesta del cambiamento Diana è stata il “ministro ombra” delle vittime del governo Thatcher. Dove non arrivava lo Stato, arrivava lei. Con le sue forze ha ridotto le distanze tra il popolo e la monarchia, ha costretto le istituzioni al cambio di passo dopo secoli di immobilismo. E’ stata l’anima e il motore di cause umanitarie che hanno lasciato il segno. Speciale il suo rapporto con Madre Teresa di Calcutta.

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“Faccio le cose in modo diverso, perché non seguo un libro di regole, perché seguo il cuore, non la testa, e anche se questo mi ha messo nei guai nel mio lavoro, lo capisco. Ma qualcuno deve andare là fuori, amare le persone e dimostrarlo. Sono uno spirito libero. A qualcuno non piace, ma è quello che sono”.

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Diana vulnerabile, vittima di un matrimonio senza amore: “Eravamo in tre in questo matrimonio, quindi era un po’ affollato” (il celebre riferimento è a Camilla Parker Bowles, storica amante di Carlo n.d.r.), sottomessa per anni a un marito freddo e infedele, ma stritolata dai giudizi malevoli se si abbandonava a una storia sentimentale. Quando osò ribellarsi a Carlo contraccambiandone i tradimenti, subì la peggiore delle imboscate: venne spiata. Le registrazioni di una telefonata bollente tra Diana e un suo amante finirono nelle redazioni dei tabloid; conversazioni intime e particolari piccanti dati in pasto all’opinione pubblica. Ma la trappola si rivelò un boomerang. Il mondo, disgustato dalla perversa macchinazione, continuò ad amare Diana, se possibile ancora di più. Per tutti divenne la regina di cuori.


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I segni evidenti della crisi di coppia in ogni pubblica apparizione

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E poi Diana autenticamente pop (popolare): amica di stilisti, artisti e rockstar, rispettata dall’intellighenzia internazionale. Diana ripiegata sul suo dolore fiabesco: la depressione, la bulimia, i tentativi di suicidio. Nella sua brevissima vita, ricchezza, libertà e felicità non coincisero quasi mai. Secondo i biografi più sensibili un solo, vero, grande amore: quello per il cardiochirurgo pakistano Hasnat Khan che Diana incontrò casualmente la prima volta il 1º settembre 1995.

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Portofino, 19 agosto 1997 | La foto più iconografica di Diana. L’autore è il reporter inglese Jason Fraser. Il lusso, il volo di un gabbiano simbolo di libertà, la sospensione nel vuoto, la solitudine. Mancano 12 giorni allo schianto mortale.

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Il 31 agosto 1997, a soli 36 anni, un mese e 29 giorni, Diana Spencer muore in un incidente automobilistico sotto il tunnel del Pont de l’Alma a Parigi, insieme al suo nuovo compagno Dodi Al-Fayed. La loro Mercedes, braccata dai fotografi e guidata dall’autista Henri Paul (forse ubriaco e sotto l’effetto di farmaci), si infrange contro il tredicesimo pilastro della galleria. Trevor Rees-Jones, guardia del corpo di Dodi, seduto sul sedile anteriore (il solo ad avere la cintura di sicurezza allacciata), è gravemente ferito, ma si salverà. Diana, liberata dal groviglio di lamiere, è ancora viva. Dopo i primi soccorsi, praticati da un medico che si trovava sul posto, viene trasportata da un’ambulanza all’ospedale Pitié-Salpêtrière dove arriva intorno alle 2:00. A causa delle gravi lesioni interne, viene dichiarata morta due ore più tardi.

L’ULTIMA FOTO

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Le cause dell’incidente non sono mai state del tutto chiarite. A distanza di anni non è ancora tramontata la teoria del complotto e la possibilità che Diana possa essere stata vittima di un assassinio organizzato dai servizi segreti britannici che reputavano il suo legame con il musulmano Al-Fayed un pericolo per la stabilità e la sicurezza della monarchia.

Le storie che ci vengono raccontate non sono mai quello che sembrano…

La notizia della morte di Diana provoca uno choc planetario. Londra si trasforma in un gigantesco tappeto di fiori.

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Il 6 settembre, giorno dei funerali, nelle strade della capitale britannica si riversano tre milioni di sudditi  in lacrime.

Tra le infinite testimonianze di quel giorno abbiamo scelto le struggenti parole dell’attrice anglo-francese Jane Birkin (foto sotto), così vera nel restituire il clima e l’atmosfera della perdita collettiva.

Tratto da Post Scriptum Diario 1982 – 2013 di Jane Birkin

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Avevo sottovalutato il bisogno di piangere degli inglesi, da sempre ci hanno insegnato a trattenerci, che mostrare i sentimenti non si fa, c’era un bisogno straordinario di sentire. Dappertutto c’erano foglietti con su scritto “perdono” e “regina dei cuori”. Hanno capito la compassione di Diana per gli altri, il suo modo di provare dolore e mostrare la propria modestia di fronte alle persone povere. Noi non l’abbiamo capita, le abbiamo fatto del male, abbiamo letto i tabloid ed è stata uccisa. Si poteva sentire fino a che punto fosse una perdita, così intimamente sentita…c’è stato un suono percepibile, come se si fosse mozzato il respiro di tutti nello stesso momento, e poi un sospiro di pietà. Era come se tutti fossero cresciuti di colpo, fossero diventati adulti e avessero assunto le proprie responsabilità. Sono sicura che è il più grande sentimento d’amore che abbia mai visto…Il rumore degli zoccoli dei cavalli e la vista dei gigli bianchi che fremono sono scomparsi nel sole autunnale. La principessa se n’è andata nel velo da sposa con cui era apparsa nelle nostre vite. Lì, la principessa dondolava dolcemente sulle spalle di quei giovani uomini, le loro guance contro la bara, come se ascoltassero il suo cuore.

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Le esequie solenni, trasmesse in diretta dalle televisioni di tutto il mondo, sono seguite da 2 miliardi e 700 milioni di persone. L’addio alla principessa di cuori diventa in assoluto l’evento più visto della storia. Diana ci ha lasciati, ma non del tutto. Nella resa fu la vera vincitrice e la sua stella continua a brillare.

Kristen Stewart, attrice, interprete di Diana nel film “Spencer”, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2021

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“Un’icona famosa e bellissima che è anche una madre, la madre di un futuro re. Una donna che è riuscita a creare empatia nella gente nonostante la sua condizione privilegiata. Ha sempre trasmesso mistero e magnetismo. Una dote innata. Eppure il suo destino era avverso, lei che voleva sempre aprirsi al mondo ed entrare in sintonia con le persone che aveva accanto, era l’essere più solo del mondo. Aveva una luce particolare e voleva essere amata per quella luce che pochi invece capivano. Era brillante, aveva un fuoco dentro, ma questo non è bastato a contrastare la sua fragilità di donna. Tutti abbiamo l’impressione di averla conosciuta, di essere state sue amiche, invece era la donna meno conoscibile in assoluto. Non sapremo mai chi è stata veramente”.

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di Annika dell’Antico & Guia Cerruti – Genoa News Chronicle / Io reporter

DELON, IL DIVO SUPREMO

Tania Brando Genoa News Chronicle / Io, reporter


Liberamente tratto dal documentario “Alain Delon, il lato oscuro di una stardi Philippe Kohly


Da tre generazioni Alain Delon è un’icona, una star. Brigitte Bardot ha detto di lui:

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E’ un animale selvaggio. Uno di quegli animali superbi e indomabili in via di estinzione. Il suo sorriso sanguigno e sconvolgente è una forza maggiore come il blu del suo sguardo che trafigge, analizza, strega e seduce. Lui, semplicemente, è. Lui è il mondo intero e il mondo intero lo conosce.

Come un cavaliere medioevale, Alain Delon ha sempre riconosciuto il valore salvifico delle donne. Molte lo accompagneranno nella vita, alcune ne influenzeranno la carriera.

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Devo tutto a mia madre e alle altre donne che ho conosciuto e amato. Le donne sono state la motivazione di tutta la mia vita. Esisto perchè ci sono le donne. Io amo solo le donne. Faccio questo lavoro grazie alle donne, devo tutto a loro. Sapevo di piacere, erano loro che mi cercavano.

Di Delon non esistono biografie, non le ha mai autorizzate. Solo un film scruta oltre il velo di riserbo. Il titolo originale è già di per sè rivelatore: “Frank Costello faccia d’angelo” (“Le samourai” del 1967). E’ un film che gira a 31 anni per la regia di Jean Pierre Melville. Il Samurai Frank Costello faccia d’angelo è un assassino, un combattente, ma l’uomo sembra inconsolabile e tormentato. Fa una vita solitaria come il suo interprete: Alain Delon.

La solitudine non mi pesa più di tanto. Mi piace. Ho sfondato giovanissimo. La solitudine non è dovuta alla popolarità, al fenomeno Delon. Risale a prima, all’infanzia, alle lacrime dell’infanzia.

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E comunque mi ha seguito per tutta la vita, è parte della mia vita e ci convivo bene. E quando non è presente ne ho bisogno.

Alain Delon, l’ultimo divo. Su di lui è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Adorabile canaglia, incorreggibile donnaiolo, principe degli arroganti, generoso e guascone, aperto e sfrontato, chiuso e cupo, insopportabile, ma profondo. Sicuramente complesso. La vita di Alain Delon è un caleidoscopio di lampi. Nasce l’8 novembre 1935. E’ la passione di sua madre. Edith Delon è pazza di questo figlio che le assomiglia come una goccia d’acqua, ma la sua felicità è di breve durata. Alain non ha ancora 4 anni quando i genitori divorziano. Il suo sconforto è il preludio a un’infanzia solitaria e, forse, a un’esistenza tormentata. Come sempre il padre la dà vinta a Edith che ottiene la custodia del figlio. Poi sparirà per diversi anni lasciando un vuoto nella vita del piccolo Alain. Edith si risposa e affida il figlio a una balìa che vive a Fresnes accanto al noto carcere. Il marito della balìa lavora come guardia carceraria e Alain vive dietro quelle alte mura, giocando con i figli degli altri agenti penitenziari.

8 anni: non ha più l’età per vivere con la nutrice e scopre che non ha più una casa. Ormai è di troppo. Finisce in un’altra prigione, quella dei sei successivi collegi: Benedettini, Gesuiti, Francescani, a volte a trenta chilometri dalla famiglia. E’ una vita da nomade, da un collegio all’altro, senza amici. Da questa lunga notte Alain esce dopo sei anni, dopo l’ennesima espulsione.

Ho passato tutta la mia infanzia, dagli otto ai quattordici anni, in collegio, in diversi collegi. Mi trasferivano regolarmente da uno all’altro perchè ero un ragazzo davvero insopportabile e pestifero.

14 anni: il ragazzo interrompe gli studi. E’ il momento di rendersi utile. La famiglia (la madre e il suo nuovo compagno) gli rimedia un posto da apprendista salumiere a Bourg La Reine. Alain impara subito le basi del mestiere. La salumeria è una grande azienda che conta sedici dipendenti. Delon vuole prendere il posto del patrigno, intende diventare maestro salumiere. E’ un ragazzo di Bourg La Reine, un mondo piccolo e chiuso, un paesino della periferia che nel ’50 è lontanissimo da Parigi.

A 17 anni si arruola, vuole andare in Aviazione, finirà in Marina. Comincia a vivere. “Ero attirato dall’ignoto“, ricorderà più volte.

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Nel 1954 parte per la Guerra di Indocina, c’è da combattere, ma trova degli amici e un gruppo di cui si sente parte. Nelle forze Armate Alain trova una famiglia. E poi c’è la realtà: i Francesi finiranno per perdere questa guerra coloniale. A Saigon, Alain conosce gli ultimi mesi di vita militare. Le partite a poker nel Quartiere Cinese, le ragazze orientali, ma anche la nostalgia per la Francia che ritrova al cinema attraverso la visione di “Grisbì con Jean Gabin.

Una rivelazione. Non sapevo che sarei diventato attore e che poi avrei incontrato Gabin, che gli avrei dato delle battute…Incredibile…Che bel ricordo.

E poi c’è la prigione militare. Per spassarsela Alain ruba una jeep dell’Esercito con la quale finisce in un fiume. Viene messo agli arresti e, alla fine, il ladro di jeep viene espulso dalle Forze Armate.

Nel 1956 eccolo a Parigi. Ha 20 anni ed è con le spalle al muro. Che fare? Non ha progetti ad eccezione di vivere. Vivere libero, finalmente.

Avevo troncato tutti i rapporti con la famiglia. Sono rientrato, da solo, a Parigi che ho scoperto per la prima volta. E’ solo nel ’56 che sono diventato parigino.

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Hotel Regina, condivide una camera con un ex commilitone. Non ha un soldo, ma le belle di notte non resistono al suo fascino.

Visto che non ero malaccio fisicamente, ed ero giovane, attiravo delle belle di notte desiderose di aiutarmi, offrendomi cibo e un tetto, il che non è affatto sgradevole quando hai ventun anni. Così, mi sono lasciato andare.

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Alain vive alla giornata, all’assalto di un mondo che gli è ignoto, Parigi. La sua faccia d’angelo gli spalanca molte porte. A Saint Germain des Prés lega con altre donne oltre a quelle di Pigalle. Il destino assume il volto di Michèle Cordoue, affascinante attrice diventata la sua amante. Il marito di lei è il regista Yves Allégret e sta per girare “Godot” il cui titolo originale è calzante: “Quando una donna si impiccia“. La donna convince il marito: deve prendere assolutamente questo ragazzo che le ha fatto un ottima impressione.



Un po’ ingenuo, un po’ canaglia, questo ragazzo disarmante non è un personaggio di fantasia. E’ Alain Delon com’è realmente a 21 anni. La contaminazione tra la propria esistenza e il cinema sarà la sua predominante cifra stilistica. Delon, più di ogni altro, è l’artista che ha soffiato la sua vita nei personaggi che ha interpretato. La sua vita sembra un film e i suoi film sembrano attraversati dalla sua vita.

Quando ho cominciato questo mestiere mi sono subito sentito nel mio elemento. Quando urlavano “motore!”, dopo avermi detto fai questo, lo trovavo normalissimo, facevo quello che facevo tutti i giorni. Non avevo la sensazione di girare un film, di recitare…mi limitavo a vivere. Fare l’attore è un meraviglioso incidente, è l’espressione più alta della naturalezza.

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L’attore debuttante ha anche una agente, Olga Orstig, la stessa di Brigitte Bardot. Ben presto Olga gli procura il ruolo da protagonista, degno della sua bellezza, assieme alla giovane star austriaca Rosemarie Magdalena Albach-Retty, in arte, Romy Schneider che Alain accoglie a Orly. E’ il loro primo incontro organizzato dalla produzione ad uso e consumo dei fotografi. Mi è sembrato un ragazzo poco interessante. Io gli davo il voltastomaco“, dirà Romy, il cui cachet è venti volte quello di Alain. Un’ereditiera, una borghese che per il teppista di Bourg La Reine è un’oca giuliva: “Appartiene alla classe sociale che odio di più al mondo“, scrive. Le riprese de “L’amante pura” (titolo originale “Christine“) cominciano in studio. Lei non parla francese, lui nemmeno una parola di tedesco.

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E’ una vera storia d’amore che vivono alla luce del sole, una storia romantica che si conclude con l’ultimo ciak. Alain riparte per la Francia, Romy torna in Germania, ma all’ultimo momento cambia il suo biglietto; non è più diretta a Colonia, ma a Parigi. Innamorata, irrompe nella vita di Alain, emancipata, armata di una grande determinazione.

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Intanto l’attore esibisce la sua bellezza in un nuovo film. E’ ormai consacrato sex-symbol e se lo contendono le più belle ragazze del cinema francese: una volta ancora il titolo non mente: “Le donne sono deboli” (titolo originale “Femmes faibles” del 1959). Una piccola commedia realizzata da un grande regista. René Clément sceglie Alain, gli offre il ruolo di un bravo ragazzo, ma Delon rifiuta. Vuole l’altro ruolo, quello della canaglia, “o faccio il protagonista, o niente“.

Io e Clément discutemmo e successe qualcosa. In fondo alla sala c’era una donna che ascoltava la conversazione senza fiatare, e di colpo ha detto: “René…caro…il piccolo ha ragione”. Era la moglie di René Clément.

Accanto a Clément, Alain entra in un altro mondo, quello di un artigiano che conosce i segreti del mestiere. Clément ha 46 anni, Alain ne ha 23. In lui trova una nuova figura paterna. L’astro nascente è prima di tutto un corpo in movimento. Alain possiede da sempre questo magnetismo animale. Ben presto l’attore fa colpo anche per quegli occhi blu-acciaio. Uno sguardo malinconico, ma affascinante che incrocia quello di un grande regista italiano, Luchino Visconti. Da tre anni Visconti cerca il suo eroe, un attore dolce, ma anche violento, e l’ha trovato. A 23 anni Alain recita in un film che diventerà un classico, “Rocco e i suoi fratelli” del 1961. Rocco ha vinto il suo incontro, ma la violenza lo disgusta. Incalzato da Visconti, Alain deve abbassare la guardia e dimostrare che oltre ad essere maschio sa anche piangere.

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Ora l’apprendista salumiere frequenta un grande artista, un uomo di grande cultura, l’erede dei Duchi di Milano. Nasce una relazione intima. Visconti ha trent’anni di più ed è affascinato, soggiogato dalla bellezza di Delon. Romy scopre di avere un rivale. Alain subisce l’ascendente del regista italiano, Visconti non fa che ripeterne il nome. Vuole incontrare l’attrice, lei rifiuta, lui insiste. Pur diffidente, Romy accetta. Visconti conquista anche lei. Offre alla coppia una vera sfida a Parigi, in teatro. Una pièce elisabettiana di John Ford, un’impresa carica di rischi. Per entrambi è la prima esperienza teatrale.

Ma Alain quanto ama la sua Romy? Le è accanto quando viene ricoverata d’urgenza per essere operata d’appendicite. La aiuta nella sua nuova vita in Francia che lei ha scelto contro la volontà della famiglia. “Non era il grande amore, ma l’amore dei vent’anni, l’amore della giovinezza, dirà lui più tardi. Quale futuro si immagina con lei? Tutta la vita insieme? Un matrimonio imminente? Dei figli? Romy gira la Francia in tournée con “Il gabbiano” di Cechov. Alain non c’è. Lei sa che è a Roma e che dovrà spogliarsi davanti alla cinepresa di Michelangelo Antonioni, di fronte a Monica Vitti e incarnare l’uomo seduttore, quello che lei ha conosciuto. Il film è “L’eclisse” del 1962.



Maggio 1962: la coppia – Alain e Romy – si fa notare al Festival di Cannes. Ora è lui la star, è lui che ha sempre i giornalisti alle calcagna. Romy è l’attrice che lo accompagna. In tre anni i loro ruoli si sono invertiti: lei recita a teatro, mentre al cinema la stella di Alain diventa sempre più fulgida. A Palermo, per “Il Gattopardo“, ritrova Luchino Visconti per la terza volta in due anni. Alain è l’attore-feticcio di Visconti, è diventato suo complice; nella vita tratta Luchino alla pari, lo maltratta persino. L’attore si lascia plasmare dal regista, un maniaco dei dettagli. E’ stato il suo pugile e adesso è Tancredi, l’impetuoso nipote del Principe di Salina, un ruolo che spaventa il teppista di Bourg La Reine. Visconti lo rassicura. Alain ha dalla sua la nobiltà della bellezza. Palma d’Oro a Cannes, il film raccoglie consensi in tutto il mondo. Alain è una star internazionale, ha vinto la sua “campagna” d’Italia e ottiene anche un nuovo apprendistato frequentando per sette mesi Burt Lancaster che definisce il “boss“.

La vita privata, al contrario, non è serena. E’ il periodo in cui Delon prende una decisione grave con implicazioni pesanti. L’11 agosto 1962 la cantante e modella tedesca Nico, musa dei Velvet Underground, dà alla luce un maschio di nome Ari (ufficializzato più tardi con le generalità di Christian Aaron Boulogne). Il bambino è il frutto di una notte di passione con l’attore che tuttavia non accetterà il legame di sangue con lui.

Nico

Nico, a causa della sua vita sregolata e della dipendenza dall’eroina, conscia di non poter crescere il figlio (foto sotto) in modo sano, decide di affidarlo alla madre di Alain, Edith, che lo considererà suo nipote e gli darà il cognome del suo secondo marito, Boulogne. Alain, invece, rimarrà fermo sulla sua posizione e non riconoscerà mai la paternità.

Nico e Ari

Ari – una vita tormentata dall’abuso di eroina e da forti depressioni fino alla morte in solitudine il 20 maggio 2023, a soli 60 anni (“Dai miei 16 anni fino alla fine, ho condiviso con mia madre la stessa droga, la stessa siringa. Era un modo per stare insieme”) – ha raccontato di aver visto il padre Alain più volte, ricordando in particolare un incontro avvenuto per caso nel 1986 a casa della nonna Edith, all’epoca malata. Secondo i suoi ricordi, dopo averlo riportato in macchina alla stazione della metro più vicina, l’attore fu lapidario:

“Alain Delon, una mano sul volante, l’altra che mi dava delle pacche sulla spalla, mi fa questo discorso: ‘Sei mio amico, sei mio amico. Ma ti dirò una cosa: non hai i miei occhi, non hai i miei capelli. Non sei mio figlio, non sarai mai figlio. Ho fatto sesso con tua madre una sola volta’”. Eppure la somiglianza con il divo francese era impressionante (foto sotto).

Ari

“Certe volta mi scoccia parlarne”, spiegava Ari in un’intervista rilasciata nel 2001, in occasione dell’uscita della sua autobiografia,L’amore non dimentica mai”. Ma per i legali di Delon, si trattava semplicemente di “coincidenze morfologiche”.

Problemi privati, demoni e scelte drammatiche non pregiudicano le affermazioni artistiche e la scalata al successo dell’attore. In Francia, da trent’anni, c’è il patron, Jean Gabin. Alain vuole succedergli per ereditare il suo scettro. Ma Jean Paul Belmondo, suo rivale da sempre, ha preso una lunghezza di vantaggio. Il suo nome appare accanto a quello di Gabin in un grande successo di Henry Verneuil, “Quando torna l’inverno” del 1962. E ora che Verneuil progetta un nuovo film col patron, l’occasione è imperdibile. Delon vuole quel ruolo a tutti i costi, ma è troppo tardi per la produzione, che rifiuta. Allora Alain lo gira gratuitamente e in cambio chiede i diritti di sfruttamento all’estero. E’ fatta. Il film, uscito nel 1963, tiene inchiodati dal primo all’ultimo minuto. E’ avvincente e diventa subito celebre. In italiano si intitola “Colpo grosso al Casinò“.

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Il duo Gabin – Delon fa meraviglie e attira, solo a Parigi, 800mila spettatori. E’ il più grande successo dell’anno, Alain raggiunge la vetta, ha fatto centro. A 28 anni è un idolo delle folle. E’ anche un attore di cinema impegnato e d’essai. E’ la quadratura del cerchio, un tour de force su cui forgiare una leggenda. L’attore ha terminato il suo apprendistato e apre una nuova pagina, anche nella vita sentimentale…

Gli eterni fidanzati non convoleranno a nozze. Alain ama un’altra. Dopo 5 anni lascia Romy. La rottura arriva sotto forma di una lettera di quindici pagine che le fa consegnare mentre è lontanissima negli Stati Uniti. “Non ho risposto alla lettera“, scriverà lei “Non c’era più nulla da dire…e poi non vorrei mai rivivere quei momenti, non lo sopporterei”. Alain ha incontrato Francine Canovas, una stupenda attrice francese di Casablanca e dopo un po’ è a lei che propone di sposarlo. Francine accetta e sarà conosciuta in tutto il mondo come Nathalie Delon.



All’inizio è in America che vive il suo amore con Nathalie. E’ laggiù che nasce il loro figlio Anthony. Alain cambia vita, forma una famiglia. Per il ragazzo che è stato abbandonato è la più bella delle vittorie; ed eccolo che si avventura su un terreno che fino ad ora gli è stato precluso: la felicità interiore. Proteggere i suoi cari, un ruolo per il quale non ha mai avuto modelli. Ma Alain voleva davvero proteggerla questa felicità oppure è disposto a rischiarla, a distruggerla?…Diciotto mesi più tardi la giovane coppia è in crisi. Con le loro reciproche infedeltà i due sgretolano il loro rapporto. Nathalie vuole andarsene ed ottenere la custodia di Anthony che ha meno di 4 anni. Alain accusa il colpo. Suo figlio ha l’età che aveva lui quando i suoi hanno divorziato. Ha rivissuto la sua storia familiare, lo smacco è terribile. Proietta il suo sconforto nel suo nuovo personaggio, il Samurai che va incontro alla sua tragica fine.

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Il Samurai sono io, ma in maniera inconsapevole, dirà Alain. Jean-Pierre Melville l’ha intuito. Dalla solitudine di Alain ricava un film epocale. Poi gliene propone un secondo, “I senza nome“. L’incontro con Melville è fondamentale per Delon perchè il regista condivide le sue predilezioni, per la notte, per l’onore, per la tragedia, per i fuorilegge. Eroe da film noir, Delon corre di nuovo incontro alla morte. Sullo schermo morirà 27 volte.

Sono un eroe cupo…Nella morte un eroe diventa simpatico

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Agosto 1968: nella campagna di Saint Tropez Alain sorride alla vita. Si sente libero come non mai, nella vita privata e nella carriera. Nessuna strada gli è preclusa. E’ venuto a Nizza per accogliere la partner del suo nuovo film. Ha rifiutato Natalie Wood, Monica Vitti e impone questa meravigliosa attrice che ora si è ritirata a Berlino: Romy Schneider! Nella loro relazione è il momento del terzo atto, la redenzione. Alain, che aveva lasciato Romy, ora le spalanca le porte di una grande carriera in Francia.

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La Piscina“, diretto da Jacques Deray, è un film-manifesto che segna il passaggio dalla spensieratezza degli anni ’60 alle inquietudini dei ’70. Non a caso la vicenda inizia metaforicamente nel pieno di un’estate rovente e si conclude tragicamente alle prime avvisaglie autunnali. E’ un film potente, drammatico, innervato da erotismo e scavo psicologico.

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Davanti alla cinepresa Alain e Romy interpretano scene della loro vita passata. “Non sento nulla, è come se baciassi un muro“, scrive Romy nel suo diario. E’ una donna diversa, ma non è questo il soggetto del film. La vera stella, lo sa bene, non è lei. A 32 anni la bellezza di Delon è al suo picco. Oggetto di contemplazione per 400mila spettatori in esclusiva a Parigi.



Al centro della trama le relazioni pericolose tra Marianne (Romy Schneider), Jean-Paul (Alain Delon), Penelope (l’iconica Jane Birkingif sotto) ed Harry (Maurice Ronet).


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A PROPOSITO DELLA MERAVIGLIOSA JANE BIRKIN (1946 – 2023)

Il film “La Piscina” segna l’incontro artistico tra Alain Delon, star affermata, e Jane Birkin, capelli color miele lunghi, soffici e lisci, la frangia fitta, grandi occhi da cerbiatta, labbra fruttate perennemente dischiuse e un habitus fisico sottile e sinuoso; è una stella nascente, ammirata per il suo stile unico e la connaturata eleganza (sarà sempre riconosciuta come la regina dell’hippy-chic indossato con sublime – e inimitabile – nonchalance). All’epoca della lavorazione Jane Birkin non ha ancora compiuto 22 anni, eppure è come se avesse già vissuto due vite (“la mia giovinezza sembra così lontana”): è madre della piccola Kate, nata dal matrimonio – ormai fallito – con il celebre compositore John Barry, il premio Oscar delle colonne sonore; da qualche mese è legatissima all’eclettico artista Serge Gainsbourg (foto sotto) con il quale vivrà una “torrida” e passionale storia d’amore condensata nel capolavoro (originariamente scritto per Brigitte Bardot) Je t’aime…moi non plus, la canzone più erotica, libera, struggente – e censurata – di sempre che Jane Birkin renderà perfetta grazie alla sua carica di pudore innocentemente perverso.

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Inglese, amatissima in Francia che in breve diventerà la sua terra adottiva (“l’Inghilterra è stata glaciale con me, volevo la Francia perchè la Francia mi voleva”), Jane Birkin, figlia d’arte, (la madre è l’attrice Judy Campbell) nel 1968 ha quattro film alle spalle tra i quali spicca l’opera-culto Blow Up” del maestro Michelangelo Antonioni.

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Nel film La Piscina, diretto da Jacques Deray, interpreta il personaggio-chiave: la giovanissima ed enigmatica Penelope, personificazione e metafora del rivoluzionario 1968. Penelope, perfetta immagine della “Swinging London”, incarna la bellezza, lo spirito, la moda e le contraddizioni del suo tempo; la sua apparizione, nella villa con piscina sulle colline di Saint Tropez, ha l’effetto di un terremoto destinato a sconvolgere le vite degli altri personaggi, tutti appartenenti, non a caso, alla generazione precedente.



Nei suoi Diari (i celebri Munkey Diaries) Jane Birkin restituisce l’atmosfera, a tratti drammatica ed inquietante, del set:

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1968, AGOSTO

Tante cose sono successe da quando ho rotto con John Barry. Ho appena finito un film intitolato “Slogan” in Francia. Dentro c’è un uomo che amo e il suo nome é Serge Gainsbourg. Ha un modo di fare particolare, ma io lo amo, è così diverso da tutto quello che conosco, abbastanza dissoluto ma puro al tempo stesso.

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Durante le riprese di La Piscina, Serge, Kate ed io vivevamo all’Hotel Byblos, a Saint Tropez. Serge aveva noleggiato una macchina colossale per portarci lì da Parigi. Legati con corde sul tetto, il passeggino di Kate e altre cose per bambini, che rompevano un po’ quell’aria di grandiosità desiderata da Serge. Per di più, la colossale vettura non poteva circolare nelle viuzze di Saint-Tropez, ed è portando a mano i bagagli che siamo arrivati fino all’albergo, per sistemarci lì per un mese.

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I miei genitori ci hanno raggiunti. Dato che la loro camera non era ancora pronta, avevo detto a mia madre di andare a rinfrescarsi nella nostra suite. Lei mi ha detto che in bagno, sullo specchio, c’erano dei cuori disegnati col rossetto e la scritta “Ti amo, ti amo, ti amo, Serge“. Aveva capito tutto!

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In quello stesso albergo si aggirava Demis Roussos, dall’ampia figura in caftano un po’ pelosa, che faceva paura a Kate vicino alla piscina, col suo vocione. La nostra vita privata era completamente separata dal set, dove l’atmosfera era pesante ed esotica. Piuttosto complicato per me. Un giorno, Romy aveva suggerito di portare Kate per giocare con suo figlio David e con Anthony, quello di Delon, e mi era sembrata una buona idea. L’ho quindi portata sul set. Arrabbiatura di Deray, il regista, che mi ha urlato contro: dovevo avere diciotto anni per la stampa e per l’immagine del film…Mi sono chiusa nei bagni con Kate, ed è Romy che è venuta a liberarmi.

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Mi sono rifiutata di uscire e lei mi ha detto che avrebbe mandato Jacques Deray a scusarsi, cosa che ha fatto. Romy è stata di una solidarietà totale. Durante la scena intima con Delon, mi hanno messo una matita in bocca per pronunciare più distintamente le parole, un’umiliazione…compensata totalmente dalla mia amicizia con la troupe e in particolare col capo macchinista, Jean Paul Meurice, che mi ha risposto, quando gli ho chiesto perchè misurassero sempre con un metro la distanza tra la cinepresa e Delon: “Segno sui soldi!”, la star non deve mai essere sfocata. Ho capito durante quelle riprese, e per tutta la vita, che la cosa più importante sono i tecnici, la loro protezione e la loro amicizia.

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Abbiamo creato un club, il club tropéziennes, in cui si mangiava la Tarte Tropézienne il venerdì sera, e hanno messo la mia foto dentro la cinepresa, dove si ricaricano le bobine, era ottimo per il morale. C’è un profumo, un odore, persino una pesantezza nelle immagini di La Piscina, che non assomiglia a nessun altro dei film in cui ho recitato, tanto l’erotismo era presente, e anche un certo pericolo.

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Alla fine delle riprese, la guardia del corpo di Alain Delon è stata trovata morta e chiusa in un telo di plastica. Detective veri si mescolavano a quelli falsi sul set, per la scena dell’annegamento di Maurice Ronet. Mi sentivo come una bambina che gioca in mezzo ai grandi, senza capire nulla, neanche l’importanza del mio ruolo, e che si lasciava solo portare da quelle persone che, loro sì, capivano tutto.



 Alain, come abbiamo visto, è coinvolto nelle indagini sul misterioso omicidio della sua guardia del corpo Stevan Marković, una storia che svela retroscena di sesso e droga nel suo entourage e che finisce per accrescerne la fama di attore difficile. Lo scandalo tocca la politica. Nel tritacarne della gogna mediatica finisce il Capo del Governo Georges Pompidou, braccio destro di De Gaulle e futuro presidente della Repubblica francese. I suoi nemici hanno implicato il nome della moglie Claude. Si mormora che il potente uomo politico e la futura première dame partecipassero a scorribande sessuali, con Delon e Nathalie, le guardie del corpo e alcune ragazze compiacenti. Tutti immortalati dalla macchina fotografica del bodyguard iugoslavo, che per questo sarebbe stato eliminato dai servizi segreti in nome della ragion di stato. Ipotesi verosimili? Macchinazioni e maldicenze? Attacchi e ricatti orditi da avversari politici? La verità sullo scandalo non si saprà mai. Si decide per il non luogo a procedere. Tutti usciranno indenni e Pompidou sarà eletto Presidente.


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La vicenda scuote Delon. L’attore sembra cambiato, appare chiuso e diffidente. Tutti i media mettono in piazza i suoi veri o presunti lati oscuri: la passione per le armi, qualche frequentazione corrotta, le amicizie discutibili che coltiva da sempre, come quella con il campione di pugilato Carlos Monzon, indio argentino detto El Macho. Un’amicizia che è segnata dal sangue: nella notte di San Valentino del 1988 Monzon strangola e getta dal balcone la sua compagna, la modella uruguaiana Alicia Muñiz. Il femminicidio divide l’Argentina, un Paese dove i maltrattamenti domestici erano all’ordine del giorno. Sull’onda emotiva del caso le donne marciano davanti al Parlamento di Buenos Aires e presentano le prime denunce per violenze. Monzon sarà condannato a 11 anni di carcere, ma l’amico Delon – da vero amico – lo sosterrà sempre.

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Delon e le donne, un capitolo senza fine. Tra le sue passioni c’è la cantante italo-francese Dalida, con cui negli anni ’60 ha avuto una travolgente storia d’amore; i due rimangono ottimi amici e nei primi anni ’70 incidono il brano “Paroles, paroles“. L’attore dirà di “avere amato terribilmente questa donna“.



Per Delon è un momento difficile, ma al suo fianco emerge un’altra donna che diventerà la più importante della sua vita. Durante le riprese di “Addio Jeff” scopre un’alleata che non lo abbandonerà mai, Mireille Darc. E’ la donna che lo ascolterà e lo capirà senza riserve. E’ la donna di cui ha bisogno.

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Col sostegno di Mireille, Alain inizia un nuovo capitolo della sua vita, quello del produttore. Sono gli anni dell’incontro con Belmondo e della nascita di una coppia formidabile. Tra le gemme del sodalizio il film “Borsalino“, del 1970, diretto ancora da Jacques Deray. Il film è il più grande successo dell’anno.

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E’ la consacrazione assoluta: a 35 anni, nella veste di attore-produttore, Alain si può permettere la libertà di ingaggiare direttamente al suo fianco, Jean Gabin, il mostro-sacro del cinema francese. Il film si intitola “Due contro la città” e sarà tra le 29 opere prodotte da Delon nel corso degli anni ’70, in un crescendo di impeto creativo. Non mancano le sorprese, anche amare. Nel 1976 Delon è il protagonista di “Monsieur Klein  una delle sue migliori interpretazioni di sempre, ma al botteghino la risposta del pubblico è fredda. Anche se selezionato a Cannes, il film non gli farà ottenere il premio come Miglior Attore che sognava. La delusione è cocente. Come un animale ferito si rifugia nel suo territorio, una foresta di 58 ettari immersa nella Valle della Loira, a Douchy. Mireille Darc è l’architetto di una casa spettacolare dove possono vivere felici. Amano le stesse cose, hanno gli stessi gusti, adorano i cani, dai 15 ai 25 animali che sono gli altri figli di Alain. Si può dire che lui è il capo-branco.

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Nel frattempo si ri-tuffa nel lavoro con la sua casa produttrice Adel e con una miriade di altre attività imprenditoriali. Ormai le sue partner sono tutte giovanissime. Alcune diventano amanti, una diventa la sua nuova compagna: è l’attrice Anne Parillaud. Accanto a lei si cimenta anche nella regia firmando due polizieschi pensati per il suo pubblico di sempre. Quasi 50enne Alain vive con Anne una passione che durerà due anni.

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Alla serata di gala del suo esordio da regista Alain Delon è accompagnato da Anne Parillaud, Mireille Darc e Romy Schneider. Romy ha accettato solo per Alain; dopo la tragica morte del giovanissimo figlio, l’attrice non esce più e vive sepolta in casa. L’anno dopo, inconsolabile, Romy si lascia morire.

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Per evitare i fotografi e per sfuggire al dolore in pubblico Alain non partecipa ai funerali. Tre giorni prima ha passato la notte davanti al corpo e ha scritto per la sua Romy una lettera struggente che diventerà un manifesto d’amore.

Delon riversa la malinconia nel personaggio del film “Un amore di Swann” del 1984. Interpreta un vinto, il barone di Charlus negli anni del crepuscolo, sotto la direzione di Volker Schlöndorff. In una scena, accanto a Jeremy Irons, pronuncia una riflessione che sembra perfettamente commisurata al suo stato d’animo.

La nostra vita è come un atelier di artisti, pieno di bozzetti lasciati a metà. Sacrifichiamo tutto per dei fantasmi che svaniscono uno dopo l’altro. Siamo infedeli alle nostre ambizioni, ai nostri sogni…L’amicizia conta pochissimo e quelli che la disprezzano, possono essere i migliori amici del mondo.

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Il grande attore affina ed arricchisce la sua galleria di personaggi. Non solo eroi e canaglie vincenti, ma anche uomini sconfitti, smarriti, sofferenti e intensi come il supplente della “Prima notte di quiete” di Valerio Zurlini.

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Per la magistrale interpretazione del garagista alcolizzato nel film “Notre Histoire” di Bertrand Blier, il mondo del cinema assegnerà a Delon il César come Migliore Attore, un riconoscimento che coincide con la rinascita privata, grazie a un nuovo grande amore: Rosalie Van Breemen, top-model olandese di 22 anni che gli darà due figli, Alain-Fabien e la prediletta Anouchka.

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Alain Delon e la figlia Anouchka – Festival di Cannes 2019

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Delon è ormai nella leggenda, è parte integrante della storia del cinema e del costume. Negli anni del nuovo millennio la star continua a far discutere. E’ scontroso, ma anche fragile e disarmante quando confida in pubblico le sue lancinanti depressioni. Nel 2013 è travolto dalle polemiche per una sua imprevedibile dichiarazione nel corso di un’ospitata televisiva a France 5:

Mi dispiace dirlo ma non esistono più differenze, non c’è più rispetto. Non ho niente contro i gay che si mettono insieme, ma noi uomini siamo fatti per amare le donne. Ora mi diranno che devo adattarmi a vivere nel mio tempo. Ma vivo male in quest’epoca che banalizza ciò che è contro natura.

Due anni dopo spacca ancora l’opinione pubblica per l’esplicito endorsement nei confronti del Front National di Marine Le Pen.

Ma chi è davvero Alain Delon?

Ciò che sono è frutto del caso, dunque devo accettarlo. Sono stato proiettato su una certa orbita e devo restarci. Dopodichè uno viene trascinato da questa cometa, da questa follia e poi, di colpo, ti appiccicano un’etichetta: “Tu sei Delon”. E devi continuare ad esserlo, devi interpretarlo, devi essere lui, devi immedesimarti in lui, perchè loro lo vogliono. Un po’ lo vuoi anche tu e perchè è così che funziona, ma è un gioco. E’ qui che Delon perde i punti di riferimento perchè non sa più bene dove si trova, perchè arriva un momento in cui il sistema ti sorpassa, questa macchina ti sorpassa e devi correre per riuscire a raggiungerla, a superarla. Ma alla fine chi è davvero quest’uomo? E’ il bambino che viveva a Fresnes!

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A Fresnes il bambino viveva solo, tagliato fuori dal mondo, al di là delle mura della prigione. Rosalie, intanto, è andata via. Alain ha bruciato la sua ultima passione e rimane fedele a colui che è sempre stato: il bambino abbandonato.

A Cannes, nel 2019, la Palma d’oro alla Carriera per l’attore che ha incantato il mondo. Sul palco, accompagnato dalla figlia Anouchka, pronuncia, commosso, un discorso che ha la forza di un ringraziamento estremo.

“È difficile durare e andarsene”



INGRID

di Cora Richmond – Genoa News Chronicle / Io, reporter

Era di una bellezza così irresistibile e allo stesso tempo così irreale che un giorno a Parigi una zingara le chiese se fosse un angelo.

Ingrid BergmanAttrice (Stoccolma, 29 agosto 1915 – Londra, 29 agosto 1982)


di Cora Richmond – Genoa News Chronicle / Io, reporter