di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io, reporter
Klaus Altmann, Otto Pape, Riccardo Klement, Helmut Gregor…Ad una prima sommaria lettura questi nomi tedeschi non dicono nulla. E’ la formazione di una squadra di calcio? Sono generalità prese a caso da un vecchio elenco telefonico? A chi appartengono? La risposta è tutta racchiusa in un piano segreto assolutamente sconvolgente. Un piano che ebbe a Genova il suo snodo cruciale.
NOME IN CODICE: OPERAZIONE ODESSA
Dopo la sconfitta di Hitler, numerosi gerarchi nazisti trovarono rifugio in Sudamerica (soprattutto in Argentina): criminali di guerra come Adolf Eichmann, Nikolaus Barbie e Josef Mengele, passati da Genova tra il 1949 e il 1951, ma anche Friedrich Rauch, l’ufficiale che aveva svuotato per conto del Führer la Banca centrale tedesca. Lungo la “rotta dei topi” fuggirono anche ustascia croati, collaborazionisti belgi e filo-nazisti francesi. Ad organizzare la fuga fu la misteriosa ed efficiente Organisation der ehemaligen SS-Angehorigen, nome in codice Odessa. In molti hanno cercato i segreti di Odessa: tra questi il giornalista Uki Goni che ho avuto il privilegio di incontrare e intervistare a Genova il 28 ottobre 2003. A lui si deve l’inchiesta più approfondita e documentata su una delle pagine più oscure della storia recente. Un esempio di giornalismo investigativo grazie al quale è stato possibile ricostruire l’intreccio di complicità inconfessabili che hanno permesso a centinaia di criminali nazisti di godere una seconda esistenza in incognito, lontani da Tribunali di guerra e cacciatori di taglie. Chi li ha protetti? Chi ha finanziato la loro fuga? Su quali forze si reggeva l’Internazionale Nera? Le risposte sono ormai note e ancora oggi fanno rabbrividire. I gerarchi nazisti, i responsabili operativi dello sterminio degli ebrei, i perversi teorici della tortura, sono stati protetti da accordi intercorsi tra il Governo del presidente argentino Juan Domingo Peròn e la Chiesa cattolica.
Non solo. Per la loro salvezza si attivarono autorità elvetiche, alte sfere del Vaticano e servizi segreti di diversi paesi occidentali. In Sudamerica trovarono riparo sanguinari collaboratori di Hitler e tesori sterminati: nella sola Argentina, ad esempio, venne trasferito il tesoro di stato della Croazia, frutto della spoliazione di 600mila ebrei e serbi. Un’operazione di salvataggio efficace e sommersa comprovata da testimonianze attendibili e decine di documenti risparmiati dai tritacarte e riordinati da Uki Goni in sei anni di indefesso lavoro. Tuttavia, di fronte all’evidenza delle prove, il Vaticano e le alte sfere ecclesiastiche hanno sempre opposto un ostinato silenzio. Mai una parola, un’ammissione, una scusa. Nemmeno dagli ultimi Papi, ironia della sorte proprio un tedesco e un argentino.
Silenzi vergognosi e muri di gomma che da sempre sono i migliori alleati del negazionismo imperante (fabbrica sempre efficiente di false notizie) e del revisionismo dissennato incapace, ormai, di distinguere gli innocenti dai criminali, la parte giusta da quella sbagliata. Del resto, anche di fronte all’evidenza storica si continua a gridare, oggi più di ieri, al complotto sionista. Segno che il nazismo non è morto.
NAZISTI, LA GRANDE FUGA
Sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, il Sudamerica ha accolto schiere di uomini, tutti di lingua tedesca e con un passato da nascondere. Scendevano da motonavi partite da Genova o sbarcavano da battelli approdati nottetempo sulle coste della Patagonia; impossibile riconoscere in quelle figure dall’aspetto dimesso, gli sgherri hitleriani che fino a poche settimane prima, protetti dalle divise delle SS, torturavano, uccidevano e avviavano moltitudini di innocenti alle camere a gas e ai forni.
In Brasile, Argentina o Paraguay quelle ombre anonime dai volti impiegatizi avrebbero vissuto il crepuscolo delle loro esistenze. Esistenze maledette.
Verso il Sudamerica sono confluiti non solo uomini, ma anche quintali di oro. Testimoni hanno raccontato i viaggi avventurosi di casse colme di tesori trafugati dai nazisti e trasportate in nascondigli sulle montagne andine. Secondo ulteriori resoconti, (queste sì leggende metropolitane), lo stesso Hitler trascorse gli ultimi giorni della sua vita tra Argentina e Brasile, dove si troverebbe ancora oggi sepolto. Voci, solo voci, che necessitavano ovviamente di prove inoppugnabili e di verità storiche. Uki Goni, nelle sue ricerche, ha svelato con precisione inganni e connivenze, ha mostrato documenti post-bellici, lasciapassare, accordi segreti e carte che dimostrano la diretta complicità del Vaticano e dell’Argentina peronista nell’assistenza e nella protezione dei fuggiaschi nazisti. Del resto, il legame tra nazismo e cattolicesimo fu il detonatore che accese l’infatuazione dell’élite argentina per Hitler.
Già alla fine degli anni Trenta, l’Argentina ubriaca di antisemitismo, aveva chiuso i suoi confini agli ebrei minacciati dal nazismo. Alcuni perseguitati riuscirono a farsi passare per cattolici, altri pagarono le salate tangenti chieste da diplomatici e funzionari argentini dell’Immigrazione. “Quante migliaia di persone in più si sarebbero potute salvare se i burocrati di Buenos Aires avessero mostrato un minimo di decenza umana?“, si chiede Goni. L’Argentina divenne ben presto un centro di riciclaggio del denaro proveniente dal racket delle estorsioni messo in piedi dai nazisti. Questi ultimi concedevano agli ebrei più facoltosi visti d’uscita dai territori occupati in cambio di grosse somme di denaro in valuta estera. Veri e propri ricatti.
Goni ha alzato il sipario su una miniera di episodi. Racconta che suo nonno, console argentino a San Francisco, Vienna, Genova e La Paz, dovette gestire moltissime richieste di ebrei che desideravano entrare in Argentina dalla Bolivia. Un giorno una giovane e bellissima donna svuotò sulla sua scrivania una borsa piena di gioielli, ma non essendo riuscita a convincerlo, si spogliò e gli si offrì, invano, in cambio del permesso d’ingresso. Questo era il clima. Molti ebrei morirono nel tentativo di varcare a piedi il confine con l’Argentina, uccisi, rapinati o abbandonati al loro destino dalle guide che avevano assoldato. Nell’Argentina filonazista, insomma, gli ebrei perseguitati non potevano entrare, ma i nazisti sì. Alla fine della guerra alcuni fedelissimi di Hitler, che avevano sulla coscienza milioni di vite di ebrei, cercarono rifugio tra le braccia della chiesa cattolica, altri offrirono la propria esperienza di anticomunisti ai servizi segreti alleati. Molti capi delle SS per sottrarsi ai processi, il più noto quello celebrato a Norimberga, iniziarono a inventarsi un falso passato, attraverso un campionario di raggiri e metamorfosi che culminavano quasi sempre nel cambio di identità e dei connotati.
In Argentina, paese reso ricco dalle esportazioni di carne, i nazisti in fuga si installarono soprattutto nella capitale Buenos Aires o a San Carlos de Bariloche, località sciistica della Patagonia circondata dalle Ande, una piccola Svizzera. Quelle che conducevano erano esistenze sotto traccia, quasi monacali. Dalla banalità del male al quieto vivere: lavori tranquilli, la protezione discreta del governo peronista, gli affetti familiari in case ovattate. Solo alcuni si abbandonarono alle tentazioni offerte dalla movida viziosa di Buenos Aires, con i suoi locali di tango, i night animati da bellissime prostitute di importazione e i bordelli della Boca, il fatiscente quartiere a sud della metropoli animato da immigrati italiani.
Tra le poche distrazioni degli ex gerarchi qualche incontro conviviale per ricordare in compagnìa i bei tempi andati e soprattutto l’attività del mensile “Der Weg” (foto sopra) che i nazisti rifugiati in Sudamerica sovvenzionavano, scrivevano e distribuivano anche nella lontana Germania. In pochi anni “Der Weg” divenne l’organo di informazione di un “Quarto Reich” in Argentina, il mezzo per diffondere il culto nazista nel mondo.
GENOVA, SNODO DELLA RATLINE
Genova portuale e socialista, Genova che da sola costrinse alla resa le forze di occupazione nazista, Genova, medaglia d’oro della Resistenza, è stata anche l’avamposto europeo dell’operazione Odessa. Sembra incredibile, ma tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, nella capitale italiana dell’antifascismo, molti nazisti di primo piano hanno potuto contare su una rete di sostegno, neppure troppo clandestina, organizzata dalla diplomazia argentina con la benedizione dell’ultraconservatore e potentissimo Cardinale Giuseppe Siri (foto sotto). In una nota del Central Intelligence Group, datata 21 gennaio 1947, Siri viene segnalato come referente di “un’organizzazione internazionale il cui scopo era favorire l’emigrazione di europei anticomunisti in Sudamerica”. Mentre altri due rapporti inviati a Washington quello stesso anno sottolineano come i nazisti in arrivo a Genova, non solo fossero assistiti da dignitari cattolici, ma che la Pontificia Commissione di Assistenza avesse a tal fine persino aperto un ufficio alla stazione Principe. Un centro che faceva capo all’Auxilium. Il 21 settembre 2003 il cardinale Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, garantiva che la Chiesa «era pulita», che non aveva favorito quelle fughe e, per spazzare ogni sospetto, annunciava l’apertura di una controinchiesta affidata a un pool di esperti incaricati di confutare le tesi di Uki Goni, rilanciate in Italia da Il Secolo XIX. Da allora sono passati molti anni, ma dei risultati di quella commissione non si è avuta più notizia. È davvero possibile che la curia genovese fosse del tutto ignara di quanto stava avvenendo in città? Perchè l’archivio privato del Cardinale Giuseppe Siri è tuttora inaccessibile? Domande aperte soffocate dall’afasia di chi avrebbe dovuto rispondere.
Chiesa cattolica e governo argentino agirono su binari paralleli. Peròn aveva insediato in Italia un’organizzazione nota col nome di DIAE, Delegazione per l’immigrazione argentina in Europa. La DIAE godeva di uno status semidiplomatico; aveva uffici a Roma, dove veniva gestito tutto il lavoro amministrativo, e a Genova, dove chi voleva emigrare in Argentina doveva sottoporsi a un esame sanitario effettuato da medici argentini. Negli uffici genovesi della Diae, in via Albaro 38, fior di gerarchi nazisti ottennero il via libera verso il Sudamerica. Tutte le pratiche venivano raccolte in fascicoli numerati presso il Centro dell’immigrazione a Buenos Aires. Si è così scoperto che dagli uffici di Albaro della Daie, dal 1947 al ’51, erano passati non solo Mengele, Eichmann, Barbie e camerati più o meno noti, ma anche centinaia di “figure minori”, di sterminatori e seviziatori al servizio della follia nazista che in quell’edificio genovese trovarono una nuova identità, un visto per entrare in Argentina e un passaporto rilasciato dalla Croce Rossa. I passaporti della Croce Rossa erano poco più che un attestato introdotto negli anni del dopoguerra per ridare un’identità ai molti che, nelle vicissitudini del conflitto mondiale, avevano perso (o distrutto) il proprio documento. Identità che, nella maggior parte dei casi, veniva certificata da testimoni accreditati. Ed è proprio grazie alle copie di questi passaporti conservati nella sede centrale di Ginevra della Croce Rossa che si è potuto ricostruire la rotta genovese dei fuggiaschi, determinare dove avevano alloggiato in città e, soprattutto, chi aveva garantito per loro. Solo nel 1948 approdarono in Argentina, su transatlantici di linea, i famigerati Eichmann, Mengele, Priebke e Schwammberger. In una lettera il vescovo Alois Hudal (foto sotto), sostenitore di Hitler, chiedeva (e poi otteneva) al Presidente Peròn “visti di espatrio per 5mila soldati tedeschi e austriaci, combattenti anti-comunisti il cui sacrificio in guerra aveva salvato l’Europa dal dominio sovietico”.
Proprio a Genova Monsignor Hudal stipulò un accordo segreto con polizia e carabinieri: anzichè arrestare nazisti ricercati, i carabinieri accettarono di indirizzarli verso chiese e conventi indicati dal vescovo. Ma un giorno quell’accordo si ruppe a causa di un episodio poco conosciuto. Accadde che 110 nazisti, dal ponte di una nave in partenza da Genova, sentendosi ormai al sicuro, iniziarono a intonare canti hitleriani e rivolgere offese ad un gruppo di carabinieri che stazionavano in banchina. Ultrà ante litteram. Un tripudio di oscenità e saluti romani all’indirizzo dei militari italiani. Sfortunatamente per gli sfrontati nazisti, la nave ebbe un guasto tecnico e dovette rientrare in porto. I fuggiaschi tedeschi furono così accolti – o meglio presi in consegna – dai carabinieri e come si può immaginare gli abbracci non furono affettuosi…Sempre a Genova l’organizzazione Odessa indirizzava i suoi protetti all’hotel Nazionale di via Lomellini 6, tra la centralissima piazza De Ferrari, la stazione ferroviaria di Genova Principe e il porto passeggeri, una posizione ideale per chi si apprestava a fuggire. In quell’albergo molti nazisti, prossimi all’imbarco, trascorsero l’ultima notte prima di lasciare l’Europa dove sino a pochi mesi prima avevano seminato orrore e dolore. Sicuramente Eichmann, il suo assistente Hans Fischbock e Barbie alloggiarono alcuni giorni nell’hotel di via Lomellini, assistiti durante il soggiorno genovese da Krunoslav Draganovic, prelato ungherese e criminale di guerra croato legato sia al Vaticano, sia ai servizi segreti americani.
QUEI SANGUINARI SALVATI DALLA CHIESA
Dunque, tra le iene naziste aiutate dalla Chiesa cattolica sulla via dell’Argentina figura lo sterminatore delle SS Klaus Barbie (foto sopra), capo della Gestapo, descritto sui libri di Storia come il “macellaio di Lione” per aver pianificato l’enorme eccidio di ebrei francesi. I suoi sistemi erano spicci e crudeli. Aveva stabilito il suo quartier generale all’Hotel Terminus di Lione che divenne il luogo per le sue torture ai danni dei sospettati. Ma non soltanto le persone che in qualche modo avevano legami con la Resistenza erano le sue vittime. Barbie aveva escogitato il sistema di rastrellare a caso i passanti per le strade di Lione e di torturarli sino a che qualcuno, stremato dal dolore, non si decideva a rivelare qualcosa…qualsiasi cosa. Fu Barbie, che dopo aver scovato 44 bambini ebrei nascosti nel villaggio di Izieu, li deportò ad Auschwitz. Nel settembre 1944, all’avvicinarsi delle truppe americane, Barbie bruciò tutti gli archivi della Gestapo di Lione e fece uccidere un centinaio di persone che conoscevano la sua attività. Eliminò anche 22 agenti che lavoravano per suo conto e che si erano infiltrati nella Resistenza. Dopo la guerra si riciclò come informatore anticomunista per i servizi segreti americani che gli restituirono il favore consegnandolo all’organizzazione Odessa per favorirne l’espatrio in Sudamerica. Nel marzo del ’51 arrivò a Genova, tranquillamente in treno, e ad accoglierlo alla stazione Principe trovò il sacerdote croato Krunoslav Draganovic che aveva controfirmato il suo passaporto attestandone le false generalità. Con il nome di copertura di Klaus Altmann, il “macellaio di Lione” soggiornò nell’albergo Nazionale di via Lomellini 6 in attesa di imbarcarsi, il 22 marzo, sul piroscafo argentino Corrientes. La destinazione per lui non fu l’Argentina di Peron, ma la Bolivia.
Ecco Barbie (foto sotto) in versione borghese da tranquillo signore in vacanza fotografato a Lima, in Perù, nel gennaio del 1972.
“A Genova – riferisce Uki Goni nel suo libro “Operazione Odessa” – Draganovic si assicurò che Barbie non si annoiasse. L’SS e il colonnello ustascia frequentarono insieme night club e ristoranti. Alla fine, il 22 marzo 1951, Barbie si imbarcò a Genova sul transatlantico di linea “Corrientes” con un gruppo di altri nazisti, giungendo tre settimane dopo a Buenos aires, da dove, al termine di una breve sosta in città, proseguì (sotto falso nome) per la Bolivia”.
Ma chi furono i principali attivisti dell’Operazione Odessa? Il nucleo operativo era sicuramente composto da una quarantina di elementi. Una cricca assortita che comprendeva criminali di guerra, scienziati, giornalisti, cardinali, banchieri. Ecco un breve profilo di coloro che tirarono le fila dell’organizzazione a Genova: Edoardo Domoter, prelato ungherese a capo della parrocchia francescana di Sant’Antonio a Genova Pegli. Fu lui a procurare il passaporto della Croce Rossa al criminale delle SS Adolf Eichmann, diretto in Argentina con il falso nome di Ricardo Klement, nato a Bolzano e figlio di N.N. (così allora venivano definiti negli atti ufficiali i figli cosiddetti illegittimi).
La belva che aveva pianificato e diretto i campi di sterminio di Hitler pensava di averla fatta franca. Era arrivato a Genova “solo” nella tarda primavera del 1950. In attesa del passaporto e dell’imbarco sulla motonave Giovanna C., in partenza per Buenos Aires il 17 giugno del 1950, aveva trovato alloggio in un albergo al numero 29 di via Balbi. Poi, una volta sbarcato a Buenos Aires il 14 luglio, era ripartito alla volta della lontanissima Tucuman, alle pendici delle Ande, dove lo aspettava un oscuro lavoro in un’industria meccanica. Con il passare degli anni, il vecchio criminale nazista aveva maturato la convinzione che il mondo si fosse dimenticato di lui. Si era trasferito con la famiglia nei dintorni di Buenos Aires dove aveva trovato un lavoro di tecnico nella filiale della Mercedes; faceva metodicamente la spola fra l’officina e la casa, ogni giorno a ore fisse, come un impiegato qualsiasi. E’ stato allora che gli 007 del Mossad, l’implacabile servizio segreto israeliano, fecero scattare la trappola. Nove giorni dopo la cattura, vestito grottescamente con una divisa da steward e narcotizzato, Eichmann veniva imbarcato sul volo ufficiale di una delegazione israeliana, verso il processo, che due anni più tardi, nel 1962, si sarebbe concluso con l’inesorabile condanna a morte. La posizione di una parte consistente della Chiesa rispetto ad uno dei massimi artefici dell’Olocausto, venne condensata in una dichiarazione dell’alto prelato argentino Antonio Caggiano, nominato cardinale da Papa Pio XII. Nel 1960, deprecando la cattura di Eichmann da parte d’Israele, Caggiano affermò: “Il nostro obbligo in quanto cristiani è perdonarlo per quanto ha fatto“.
La prima linea dell’organizzazione Odessa operante a Genova comprendeva inoltre Carlos Fuldner, principale agente dell’organizzazione salva-nazisti di Peròn, ex capitano e agente speciale dei servizi segreti delle SS. Nel 1948, nella veste di agente speciale di Peròn, aprì alcuni uffici per il salvataggio di nazisti a Genova e a Berna ed organizzò il trasferimento in Argentina di Adolf Eichmann, Josef Mengele, Erich Priebke, Josef Schwammberger e Gerhard Bohne. Ivo Heinrich, criminale di guerra croato e consigliere finanziario di Ante Pavelic, il dittatore fantoccio della Croazia. In Argentina vendette parte dell’oro nazista. Il vescovo austriaco Alois Hudal, come abbiamo visto, tra i principali agenti del Vaticano nell’opera di salvataggio dei nazisti. Fu lui ad organizzare la fuga di Franz Stangl (foto sotto), comandante di Treblinka, il terribile campo di sterminio dove furono assassinati 900mila esseri umani, secondo solo ad Auschwitz per intensità delle stragi.
Reinhard Kops, spia nazista. Assistente del vescovo Hudal, fu cooptato da Peròn nell’ufficio di Genova dell’organizzazione salva-nazisti denominata SARE. Charles Lesca, criminale di guerra francese nato in Argentina, organizzò il primo corridoio di fuga in Argentina per gli agenti segreti delle SS. Altra figura cruciale Don Carlo Petranovic, ex cappellano militare delle milizie ustascia di Ante Pavelic, punto di riferimento dell’Operazione Odessa all’interno del porto di Genova da dove faceva imbarcare i fuggiaschi nazisti sulle navi dirette in Argentina. La storia genovese di Don Carlo cominciò nei primi mesi del 1946 con un biglietto di presentazione scritto dal cardinale di Milano Ildebrando Schuster e inviato all’arcivescovo Giuseppe Siri. Con questo viatico il sacerdote croato si stabilì a Genova ed è qui, che fino ai primi mesi del ‘52, gestì direttamente la trama di rapporti tra Vaticano, Croce Rossa, Auxilium e Comitato nazionale per l’emigrazione in Argentina. In città Petranovic alloggiava in una cella del convento benedettino del Boschetto, sopra Fegino, ed ebbe, rivelano alcune fonti, un rapporto personale e costante con il cardinale Siri che dell’Auxilium e del Comitato nazionale per l’emigrazione in Argentina era il referente principe. E’ peraltro noto che Petranovic usasse la Mercedes nera del Cardinale Siri con targa diplomatica della Città del Vaticano; viaggiava spesso di notte tra Genova e Roma, e ritornava sempre di notte non staccandosi mai da una “valigia diplomatica”. C’è chi dice che contenesse proprio i passaporti in grado di garantire una nuova vita ai nazisti e agli ustascia in fuga da Genova. Lui stesso, nel corso di un’intervista rilasciata nell’89 a Mark Aarons e a John Loftus, autori del saggio “Unholy Trinity”, si vanterà di essere stato molto vicino al cardinale genovese dichiarando di avere aiutato 2mila persone a imbarcarsi a Genova.
Franz Ruffinengo, impiegato nell’ufficio di Genova della SARE. A Buenos Aires aprì un’agenzia di viaggi che si specializzò nel far immigrare illegalmente nazisti in Argentina. A questi “gentiluomini” si affiancò una squadra speciale organizzata direttamente dal Presidente Peròn. Tra i personaggi di maggior spessore criminale ricordiamo Jacques de Mahieu, reduce della divisione Waffen-SS “Carlo Magno”. Negli anni Sessanta, mentre dirigeva una sezione del partito peronista a Buenos Aires, era ancora attivissimo nell’offrire aiuti ai nazisti. Tristemente famose le sue conferenze “gremite di fanatici che al solo udire la parola ebreo tuonavano inebriati Sapone!, Sapone!“. Concluse la sua vita da estremista di destra nel 1989 dopo essersi battuto a favore del candidato alle presidenziali Carlos Menem. Un altro elemento di spicco fu Jan Durcansky, (per gli amici Don Giovanni) responsabile, tra il novembre 1944 e l’inizio del 1945, dell’omicidio di massa, in Cecoslovacchia, di circa 1300 prigionieri di guerra in gran parte francesi e americani. In un caso 400 vittime vennero fatte inginocchiare, quindi furono trucidate e gettate in un forno di calcinazione; in altri due casi, 900 persone tra cui donne e bambini vennero sterminate a colpi di mitragliatrice e gettate in due trincee. Solo due anni dopo Durcansky venne cooptato, direttamente da Peròn, nell’Ufficio immigrazione argentino, dove provvide ad accelerare la concessione di domande di cittadinanza e permessi di sbarco ai fuggitivi nazisti. Nell’agosto del 1947 giunse in missione a Genova, sotto il falso nome di Giovanni Dubranka, per organizzare la più grande fuga di criminali hitleriani mai registrata negli annali del crimine.
IL CASO PRIEBKE
Nel 1948 Erich Priebke è un tedesco con le spalle al muro. I cacciatori di nazisti lo cercano. A Roma lo ricordano con orrore per quel suo inconfondibile ghigno demoniaco sfoderato durante la strage delle Fosse Ardeatine, a memoria d’uomo il più osceno eccidio di massa mai compiuto in una città italiana nel corso del Novecento: 335 civili prelevati e assassinati con modalità disumane. La cronaca dei fatti è tristemente nota. 23 marzo 1944: una compagnìa di soldati tedeschi del Tirolo, nel corso di un sopralluogo in Via Rasella a Roma, viene falcidiata da un attentato dinamitardo organizzato da una formazione di 12 gappisti partigiani. Il bilancio è pesante: 33 reclute altoatesine e 2 civili (tra cui un dodicenne) muoiono investiti dalle esplosioni di un ordigno artigianale e di quattro bombe a mano.
La reazione nazista è devastante. Appellandosi alla legittimità dell’atto di guerra e ad un arbitrario e controverso “diritto di rappresaglia” Hitler stabilisce che per ciascun soldato tedesco morto nell’attentato saranno trucidati dieci italiani. Nel volgere di poche ore gli uomini del tenente colonnello delle SS Herbert Kappler e del suo fidato capitano Erich Priebke radunano 335 italiani (5 in più per un sadico “errore di calcolo”), tra condannati a morte in attesa di esecuzione, carcerati in attesa di giudizio ed ebrei. Il 24 marzo le vittime designate vengono condotte alla periferia di Roma, all’ingresso di alcune cave chiamate Fosse Ardeatine. E’ una folla dolente che comprende partigiani, artigiani, camerieri, musicisti. Il più giovane ha 14 anni, il più anziano 75. A tutti vengono legate le mani dietro la schiena. Alle tre del pomeriggio lo sterminio ha inizio: a gruppi di cinque, i condannati spariscono all’interno della cava. Priebke è tra i boia in camicia bruna che ad ogni esecuzione cancella i nomi dall’elenco. Fino alla fine dei suoi giorni (morirà centenario nel 2013) ammetterà di aver sparato solo due volte. Lo scenario è infernale. Le Fosse Ardeatine, racconteranno i medici legali, sono una gigantesca rappresentazione dell’orrore. Gli stessi carnefici tedeschi, non riuscendo a tollerare la crescente pila di cadaveri, vengono rianimati fino a tarda sera con razioni ripetute di superalcolici. Le conseguenze sono raccapriccianti. Alcuni soldati del plotone di esecuzione, completamente ubriachi e sconvolti, sbagliano mira e non colpiscono gli organi vitali. Così, molte vittime vanno incontro ad una morte lenta e doppiamente atroce.
Torniamo al 1948. Per il crimine abbietto delle Fosse Ardeatine, perpetrato quattro anni prima, Herbert Kappler viene condannato all’ergastolo da un tribunale di Roma. La pressione popolare per catturare anche il suo braccio destro Priebke è forte e sacrosanta. Se la maggioranza chiede giustizia, alcuni gruppi di ex partigiani di orientamento comunista, ancora ben armati, cercano la vendetta. E Priebke, ovviamente, lo sa. Su di lui, peraltro, si addensano altre ombre: molti testimoni lo avevano descritto tra gli ufficiali più avidi nel compimento delle seguenti “operazioni”: il rastrellamento di oltre 2mila ebrei romani spediti ad Auschwitz e condannati allo sterminio, l’estorsione di 50 chili di oro alla comunità ebraica, il saccheggio della Banca d’Italia durante l’occupazione nazista della capitale e gli interrogatori a base di torture (come sarà sentenziato il 22 luglio 1997 dal tribunale militare di Roma); tra i suoi strumenti prediletti il pugno di ferro e le scosse elettriche da applicare ai genitali dei prigionieri (lo stesso sistema utilizzato dai gauchos argentini nei mattatoi e che, nella versione della picana, sarà utilizzato come strumento di tortura dai regimi sudamericani negli anni Settanta e Ottanta. L’ennesimo, tangibile segno della continuità tra nazismo e dittature militari).
Criminale di guerra, ma non solo. Priebke aveva dato prova di abilità diplomatica tessendo proficue relazioni segrete tra il comando di occupazione nazista e il Vaticano. Contatti utilissimi che adesso, nel 1948, lo salveranno. Sotto lo pseudonimo di Otto Pape, Priebke si imbarca a Genova assieme alla moglie e ai figli, sul piroscafo San Giorgio, con un biglietto di terza classe. Sbarcato a Buenos Aires lavora come lavapiatti e cameriere. Nel 1954 si trasferisce a Bariloche, la “piccola Svizzera” in salsa argentina, così simile a una località dell’amato e lontano Tirolo. A Bariloche Priebke si sente a casa. Incontra e frequenta i “fratelli” camerati che qui hanno trovato rifugio a decine. “Don Erico” (così viene chiamato in Argentina) è un cittadino modello, una figura rispettata, direttore dell’Associazione culturale tedesco-argentina e della sua scuola tedesca che vanta più di mille studenti, alcuni dei quali ebrei. Il boia delle Fosse Ardeatine è anche un commerciante apprezzato. Il suo negozio di gastronomia “Vienna” è il più rinomato della città per il taglio e la bontà delle sue carni. Tutto cambia nel 1994. “Primetime”, seguitissimo programma giornalistico della testata americana ABC, lo scova grazie ad una “soffiata” del Centro Simon Wiesenthal, il centro di documentazione ebraica sull’Olocausto intitolato al celebre cacciatore di nazisti. Il famoso giornalista d’assalto Samuel Donaldson si mette alle calcagna di Priebke, lo segue lungo le strade di Bariloche, lo chiama con il suo vero nome…Mister Priebke! Nasce così la clamorosa intervista che svela al mondo il nascondiglio dell’ex capitano delle SS che fece tremare Roma. E’ la svolta di una seconda vita che sembrava ormai incardinata in una quotidianità senza sussulti.
Le reazioni allo scoop della ABC sono enormi. Lo scandalo dei nazisti liberi e protetti ha una risonanza internazionale. I milioni di morti, le vittime della barbarie nazista, vengono uccisi una seconda volta. In Italia le vecchie ferite riprendono a sanguinare. Il 10 maggio 1994, Emanuela Audisio, giornalista de “la Repubblica” firma la prima, vera intervista ad Erich Priebke. E’ una conversazione lunga e ragionata, densa di particolari e rivelazioni sconcertanti che apriranno la strada alle grandi inchieste giudiziarie e giornalistiche sulla “ratline“, la grande fuga dei seguaci di Hitler. Per Priebke, diventato improvvisamente scomodo anche per l’Argentina, si apriranno le porte per l’estradizione in Italia. Di seguito i passaggi cruciali dell’intervista:
Priebke, lei vive in Argentina. Chi l’ha aiutata a fuggire?
“L’aiuto venne da un padre francescano, no, non ricordo il nome. Ci disse: per la Germania non posso fare niente, ma se vi accontentate dell’Argentina posso aiutarvi. Dissi di sì. Anche perché era nel ’48 ed erano due anni che sotto mentite spoglie lavoravo in campagna, un lavoro molto duro. Inoltre non potevo più contare sulla mia bella casa che era stata requisita a mia moglie dai carabinieri”.
E andò a Genova
“Sì. Ma non è vero che il Vaticano dava soldi per la fuga. Per comprare i biglietti della nave, era un cargo italiano, vendemmo tutta la nostra roba. Solo che non potevo partire con il mio passaporto e chiesi aiuto al Vaticano, che tramite il vescovo Alois Hudal si disse pronto ad aiutarmi. Mi diede anche una mano padre Pfeiffer, ora morto, che spesso quando ero a Roma mi aveva chiesto clemenza per i prigionieri. Partii con un passaporto bianco con le insegne della Croce Rossa, idem mia moglie e i ragazzi. In seguito ho sentito dire molte cose, della facilità con cui a quei tempi il Vaticano procurava non solo nuove identità, ma anche soldi. A me il denaro non l’hanno dato, e nemmeno a quelli con cui ho parlato in seguito. Ho sentito parlare di un codice Odessa, di una catena di aiuti a ex nazisti, ma di questa ratline non so niente. E’ probabile che il Vaticano avesse una sua rete di conventi e monasteri dove nascondere gente, ma bisogna anche dire che il Vaticano aiutava tutti, anche gli ebrei, non solo noi tedeschi”.
Lei si definirebbe un assassino?
“Sì, uno alle Fosse Ardeatine l’ho ammazzato. Era l’ordine. Ma quello che voglio dire è che a noi ufficiali dei morti in via Rasella non importava niente. Non erano nostri ragazzi, erano del Tirolo, più italiani che tedeschi. I poliziotti italiani ci portarono cinque persone in più. C’era stato un errore. Non so come sia potuto accadere. Nessuno di noi pensava o voleva vendicarsi, l’ordine arrivò molto dall’alto. Eravamo schifati, non riuscivamo a capire come un tedesco potesse fare questo, ma Kappler fu inflessibile, costrinse a sparare anche il cuciniere”.
E’ preoccupato della richiesta di estradizione e del mandato di arresto appena firmato?
“Sì, sono molto preoccupato e angosciato. Non mi va di lasciare sola mia moglie. Roma è una bella città, l’ho amata molto, ma tornarci alla mia età e da prigioniero proprio non mi va giù. Anche perché in Argentina non è più come una volta, l’estradizione viene concessa spesso. Avessi saputo che capitava tutto questo non avrei mai detto quelle cose alla tv americana. Sono stato uno stupido. Qualche amico mi ha consigliato di andare in Germania, dove non sarei mai estradato, ma per adesso non voglio”.
Se verrà estradato farà i nomi di altri suoi colleghi nella sua stessa posizione?
“Credo di sì. Alcuni di loro vivono o hanno vissuto alla fine della guerra per molto tempo nei dintorni di Roma, in Italia insomma. Ce n’era uno che è rimasto perché era fidanzato con una ragazza ed è stato addirittura scelto come comparsa in un film che hanno girato sulle Fosse Ardeatine. Lo hanno preso e messo in divisa perché dicevano che sembrava un perfetto tedesco. Lo stesso Harster, che era il mio capo e che contava molto più di me, veniva ogni anno a vedere gli spettacoli all’Arena di Verona. Senza mai essere fermato. E’ morto due anni fa, ogni tanto ci sentivamo, ci scambiavamo gli auguri a fine anno. Peccato, perché poteva essere un buon testimone”.
Il 21 novembre del 1995 Priebke, finalmente estradato, arriva in Italia, dove viene recluso nel carcere militare di Forte Boccea, a Roma, e interrogato dal procuratore militare Antonino Intelisano. Il lungo iter processuale e giudiziario si conclude il 16 novembre 1998, quando la Corte di Cassazione si pronuncia per la conferma definitiva della condanna all’ergastolo. Pochi mesi dopo, anche a causa della sua età avanzata, a Priebke vengono concessi gli arresti domiciliari in un appartamento di 100 metri quadrati a Roma, di proprietà dell’avvocato Paolo Giachini, che lo assisterà personalmente negli ultimi anni (foto sotto).
Sulle sponde del Lago Maggiore, a Varese e nei dintorni di Salò (sede di quella tetra Repubblica che rappresentò l’ultimo atto della vicenda”mussoliniana”, il colpo di coda decadente e violento del nazifascismo) trovarono protezione ed accoglienza molti ex gerarchi delle SS, tra cui lo stesso Priebke. Ancora oggi in quei territori lombardi, avamposti dell’Internazionale Nera, si danno appuntamento nostalgici in camicia nera, cultori del nazismo, seguaci dell’estrema destra. Qui, ogni 20 aprile, nel giorno del compleanno di Hitler, si organizzano festosi raduni, si promuovono iniziative culturali e convegni per fare proseliti tra le nuove generazioni; si diffondono concetti folli e dannati, come la superiorità della pura razza bianca o si affermano posizioni tra loro vigliaccamente contrapposte come la negazione dell’Olocausto o la rivendicazione dello stesso “per sterminare gli ebrei padroni della finanza mondiale e origine di tutti i Mali del mondo…”
Aspetti indagati nel corso di una sconvolgente inchiesta giornalistica intitolata il LAGO NERO, trasmessa da La7 il 22 aprile 2024
Priebke muore all’età di 100 anni l’11 ottobre 2013. Viene trovato privo di vita, all’ora di pranzo, sul divano della sua abitazione di via Cardinal Sanfelice a Roma. In un video, registrato qualche giorno prima, rivendica con orgoglio il suo passato, nega l’evidenza dell’Olocausto e ribadisce le sue linee di difesa abituali: aver ucciso personalmente “solo” due ostaggi in ossequio alle leggi di rappresaglia e per obbedienza militare agli ordini del Führer. Quella delle Fosse Ardeatine, conclude, “é stata una tragedia che mi ha ossessionato a vita“.
BOHNE, LO STERMINATORE DEI DISABILI
Tra gli altri salvataggi eccellenti spicca quello di Gerhard Bohne, l’ufficiale delle SS che ebbe un ruolo di punta nel programma di eutanasia di Hitler, il tristemente noto Aktion T4 il piano di sterminio dei disabili. Nel suo saggio, il giornalista Uki Goni scrive: “Circa due milioni di persone risultano essere state sterilizzate durante il Terzo Reich dietro ordine di Hitler. La stampa nazista aveva lanciato una grande campagna propagandistica in cui mostrava quanto costasse allo Stato mantenere le persone mentalmente e fisicamente handicappate e tentava di indurre la popolazione a credere che le risorse statali potessero essere meglio impiegate altrove. La soluzione più rapida ed economica? Lo sterminio. Nell’agosto 1941, quando Aktion T4 fu cancellato, un totale di 62.237 tedeschi con malattie incurabili, malati mentali e altre persone handicappate erano finiti nelle camere a gas, una prova di collaudo per i campi di sterminio di massa delle SS, il cui personale era spesso composto da veterani del T4″.
Dunque, anche Bohne, il raffinato stratega di questo piano abominevole, venne protetto, assistito e salvato. Per sua stessa ammissione, ricevette denaro e documenti dagli agenti salvanazisti del Presidente argentino Peròn. Personaggio-chiave, anche in questo caso, Krunoslav Draganovic, il prete ungherese specializzato nell’accoglienza dei fuggiaschi arrivati a Genova. Il 7 gennaio 1949 Bohne e sua sorella Gisele furono ricevuti dal consolato argentino del capoluogo ligure. Espletate le formalità si imbarcarono sul transatlantico Ana C. con un biglietto di prima classe, giungendo a Buenos Aires il 29 gennaio 1949.
Quando nel 1955 il Presidente Peròn venne spodestato, molti nazisti fecero ritorno in Germania per paura di restare senza protezione. Tra questi Bohne che tuttavia al suo rientro fu processato per il genocidio legato al programma T4. Rilasciato su cauzione, fuggì nuovamente in Argentina nel 1963. A Buenos Aires condivise un piccolo appartamento con la sorella che nel frattempo era diventata infermiera nell’ospedale tedesco della città. Arrestato nel 1964 fu rispedito in Germania dove però venne dichiarato incapace di affrontare un processo per motivi di salute.
UNA STORIA A PARTE: JOSEF MENGELE
Con il nome di copertura di Helmut Gregor la Croce Rossa fu costretta ad ammettere che aveva rilasciato un passaporto a Josef Mengele (foto sotto), l’angelo della morte, il medico aguzzino di Auschwitz, la personalità luciferina che ha incarnato tutte le peculiarità del maligno insite nel nazismo. Pura crudeltà criminale. Le sue tetre sperimentazioni su gemelli, zoppi e nani compiute nel campo di sterminio sono la prova tangibile dell’esistenza di Satana.
da “Operazione Odessa” di Uki Goni
A differenza di altri medici delle SS che per svolgere il loro compito disumano dovevano ubriacarsi, Mengele era sempre sobrio, freddo e cinico, sempre impeccabile nella sua uniforme di SS. Spesso fischiettava arie liriche mentre divideva la fila di vittime indicando col suo bastone da passeggio: a destra, a sinistra, la morte o l’inferno in terra. A volte correva su e giù lungo le file di detenuti urlando: “Gemelli! Gemelli! Gemelli!”, selezionando cavie umane per i suoi efferati esperimenti pseudoscientifici.
Mengele tentò di ottenere un aumento manipolato del numero di parti gemellari per raddoppiare il tasso di nascite di bambini ariani per Hitler. «Ogni madre ariana, con un parto gemellare, potrà fornire un individuo in più alla razza la cui vocazione è quella di dominare le altre» era solito ripetere. Un altro dei suoi esperimenti consistette nell’iniettare dei coloranti negli occhi di bambini per vedere se poteva trasformarli in colore blu ariano. Dopo i test i bambini venivano inviati alle camere a gas. Mengele teneva appesi al muro campioni di occhi, dal giallo pallido al blu vivace. “Erano attaccati con degli spilli, come farfalle” disse un sopravvissuto di Auschwitz. “Pensai che fossi morto e che mi trovavo già all’inferno”.
Qualcuno da quell’inferno è uscito vivo. I membri della famiglia di artisti Ovitz, conosciuti come i sette nani di Auschwitz, originari di un piccolo paesino della Transilvania, Rozavlea, hanno potuto raccontare la loro allucinante esperienza. Deportati nel campo di concentramento la sera del 19 maggio 1944, furono accolti da un eccitatissimo dottor Mengele. Appena li vide esclamò: “Ho lavoro per i prossimi vent’anni!”. Diventarono cavie umane, sopportando esperimenti bizzarri e crudeli. Furono fatti sfilare nudi per gli ufficiali e un film fu inviato a Hitler per il suo divertimento. Fu proprio questa loro caratteristica fisica a metterli in salvo. Prima dello scoppio della guerra, gli Ovitz girarono l’Europa esibendosi come “Lilliput” nei più grandi teatri. Nel 1937, quando Disney fece uscire il film “Biancaneve e i sette nani”, la popolarità delle persone di bassissima statura raggiunse l’apice: nel 1939, circa 1.500 nani lavoravano nel mondo dello spettacolo. Alla fine della guerra, sopravvissuti ad Auschwitz, i sette fratelli emigrarono in Israele, dove ripresero ad esibirsi. Ma, come racconta Perla, il trucco di scena riusciva a fare apparire il volto sorridente, ma il cuore dei sette fratelli ha continuato a sanguinare. “Siamo saliti su un treno con 40 carri bestiame, ognuno con 80 persone. Le finestre erano sbarrate, non capivamo dove stavamo andando. Ci portammo dietro gli attrezzi del mestiere… Eravamo confusi, e quando chiedemmo a un soldato dove ci portavano ci disse: “Non importa, nessuno fa ritorno…” Eravamo arrivati ad Auschwitz”. Scesi dal treno, uno dei fratelli iniziò a distribuire biglietti da visita. “Non venimmo disinfettati, Mengele collezionava tipi di persone con deformità, teste a punta e altro… Prelevava sangue, estraeva denti, strappava ciglia e capelli. Ci versarono acqua fredda nelle orecchie, poi subito bollente. Credevamo di impazzire. Mia sorella grande chiese per quanto sarebbe durato, e le venne detto che fino a quando eravamo di qui non saremmo finiti di là. Insomma, non ci uccidevano”. Erano ebrei, ma guadagnarono tempo per il loro aspetto. “Non dovrei dirlo – confessa – ma non odio Mengele. Ci ha lasciato vivere”.
Il dottor Mengele si occupava di tutto il ciclo dell’orrore: dalle selezioni dei nuovi arrivati al loro stato di salute, con la piena facoltà di decretarne la vita o la morte. Era soggetto a continui sbalzi di umore. Talvolta si sentiva particolarmente ben disposto verso gli altri e in quelle occasioni manifestava sentimenti umani. Lo testimonia un episodio avvenuto sulla rampa di selezione del campo di sterminio: accortosi di una giovane e bella ebrea che disperandosi voleva raggiungere il “gruppo di sinistra” dove c’era la madre, la rimproverò duramente e con un cenno le ordinò di spostarsi nel “gruppo di destra”. Poche ore dopo la ragazza capì che Mengele le aveva salvato la vita. Si tratta di un episodio raro. Solitamente il dottore non si lasciava impietosire. Block 14 del campo B. Lì si effettuavano tutti gli esami praticabili su una persona vivente. Analisi del sangue, punture lombari, trasfusioni e scambio totale di sangue tra gemelli. Un numero indeterminato di altri esami, tutti dolorosi ed estenuanti. Quelli che lui definiva studi ed esperimenti erano in realtà torture su migliaia di detenuti ebrei, zingari e persone affette da nanismo considerate subumane. Tremila bambini e adolescenti furono torturati sino alla morte. Mengele divenne così “il principale fornitore di materiale per le camere a gas e i forni“.
Nell’aprile del 1948 Mengele iniziò ad organizzare la propria fuga. I suoi crimini orrendi erano ormai di pubblico dominio grazie alle sconvolgenti testimonianze dei sopravvissuti e alle inchieste condotte nell’ambito del Processo di Norimberga. Si fece crescere i baffi e approdò in Italia cammuffato da altoatesino di lingua tedesca. Divenne così il Signor Helmut Gregor, uomo d’affari ed aspirante viaggiatore. Con questo pseudonimo Mengele ottenne un permesso di sbarco in Argentina rilasciato dall’ufficio della DIAE di Genova. Nella città medaglia d’oro della Resistenza, capitale dell’antifascismo, l’angelo della morte di Auschwitz trascorse diversi giorni in una casa privata al numero 3 di via Vincenzo Ricci, nel cuore di San Vincenzo quartiere nel pieno centro di Genova.
Sicuramente, il 16 maggio 1949, si recò negli uffici della Croce Rossa dove ottenne un passaporto valido. Nei giorni immediatamente successivi ritirò un visto d’ingresso presso il consolato argentino e si sottopose alle visite mediche obbligatorie nell’ambulatorio della DIAE in via Albaro 38, luogo di passaggio obbligato per tutti i nazisti in fuga. Più complicata si rivelò la pratica per il visto d’uscita dall’Italia. Mengele, accortosi che il funzionario corrotto di riferimento era in vacanza, cercò di “ungere” con 20.000 lire quello in servizio, che però lo fece immediatamente arrestare. Dopo qualche giorno passato al fresco, il Signor Helmut Gregor venne salvato dal funzionario al soldo dell’organizzazione Odessa tornato finalmente dalla vacanza. Mengele riuscì così ad imbarcarsi il 25 maggio 1949 sulla North King. Destinazione Buenos Aires.
In Argentina Mengele divenne uno degli animatori più vivaci della comunità nazista. Un punto di riferimento per i camerati di tutto il mondo. Dopo qualche anno si trasferì provvidenzialmente in Paraguay, prima di essere raggiunto da una richiesta di estradizione presentata dalla Germania. Non mostrò mai segni di rimorso. Rimase un fedelissimo profeta del Führer. Disse di non aver inventato lui Auschwitz…che esisteva già. Aggiunse che il suo lavoro era consistito semplicemente nel classificare gli abili al lavoro dai disabili e spiegò che i gemelli del campo di sterminio dovevano a lui la vita. Morì il 7 febbraio 1979 a Bertioga, in Brasile, colpito da un ictus mentre nuotava nelle acque dell’Oceano Atlantico, a pochi metri dalla riva. Aveva 67 anni. Le sue ossa sono a disposizione degli studenti di Medicina per i loro studi.
Alla figura di Mengele sono ispirati due film che anticiparono alcuni scenari poi confermati dalle ricerche sull’Operazione Odessa: “I ragazzi venuti dal Brasile” del 1978, girato da Franklin J. Schaffner e interpretato, tra gli altri, da Gregory Peck e Laurence Olivier. Racconta la storia di un gruppo di gerarchi nazisti rifugiati in Sudamerica che negli anni Settanta progettano un piano per rifondare il Reich cercando di far nascere un nuovo Hitler. Peck interpreta Josef Mengele, mentre Olivier l’ebreo Ezra Liebermann, un cacciatore di nazisti che scopre il piano.
L’altro film è “Il maratoneta” del 1976, diretto da John Schlesinger e interpretato da Dustin Hoffman, Marthe Keller e Laurence Olivier. Un giovane ebreo, studente universitario di Storia e aspirante maratoneta, s’imbatte in un criminale di guerra nazista che torna dall’Uruguay a New York per entrare in possesso di una partita di diamanti.
Questa è dunque la trama dell’Operazione Odessa, un piano che ha consentito a decine di criminali nazisti (ne abbiamo descritto i pensieri e le opere) di vivere da uomini liberi. Priebke per mezzo secolo, Mengele per 34 anni, Eichmann per 15. Aiuti che qualcuno, ancora oggi, si ostina a rappresentare come sublimi esempi di carità cristiana. Nulla di più lontano. Quelle coperture fornite dall’ortodossia cattolica furono un cinico atto politico in chiave anti-comunista. Si trattò di uno sfregio all’etica, un secondo oltraggio a milioni di vittime. Sicuramente, il capillare sistema di protezioni offerto dall’Operazione Odessa, inibendo la ricerca della verità e il compimento della giustizia terrena, ha contribuito a generare altre dittature e negazionismi.
CONSIDERAZIONI FINALI
E pensare che tutto ebbe origine da una folle ricostruzione della storia umana orientata dai Protocolli dei Savi di Sion, un clamoroso falso documentale che tuttavia ha rappresentato il testo base della Shoah, lo sterminio degli ebrei. Secondo questa teoria, rielaborata e rafforzata dal Führer (foto sotto), gli ebrei intendevano impadronirsi delle finanze mondiali e sottomettere le genti a una schiavitù ispirata dalla legge del loro Dio. Sull’intero popolo ebraico, inoltre, doveva ricadere la colpa perenne dell’uccisione di Gesù. In altri termini gli ebrei dovevano essere puniti e annientati in quanto mandanti della condanna a morte del Cristo. Tale aberrante congettura trovava una sponda nelle teorie della razza e del superuomo, nell’esoterismo e nel culto della personalità, pietre angolari del nazismo che conferivano ai tedeschi/ariani, popolo dominante e predestinato, la sacra missione di elevare l’umanità.
Forse sarebbero bastati due minuti e una pacca sulla spalla di Hitler per disporne il ricovero coatto in un manicomio (oggi diremmo TSO, trattamento sanitario obbligatorio) e invece, sull’onda di quelle strampalate panzane, che ancora oggi vantano un numero preoccupante di seguaci, un movimento politico (il nazionalsocialismo) e uno Stato europeo (la civile Germania) toccarono l’abisso del disumano e le vette del sadismo. Ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio si sentiva spesso ripetere la frase: “Durch den Kamin”, da qui si esce solo attraverso il camino. Per molti anni gli scampati a quell’apoteosi dell’abominio non sono riusciti a testimoniare nel timore di non essere creduti o nell’impossibilità di descrivere il male assoluto. Resi muti dalla glaciazione del dolore. “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario” scriveva Primo Levi.
NON HO MAI PERDONATO, MA HO IMPARATO A NON ODIARE
Nell’inverno 1944 Liliana Segre aveva 13 anni e fu costretta a salire su un camion che attraversava Milano per raggiungere i sotterranei della Stazione Centrale e il binario 21, da dove partivano i treni per Auschwitz-Birkenau. Suo padre Alberto (foto sotto) era con lei, ma non lo vedrà più.
“Imparai in fretta che lager significava morte, fame, freddo, umiliazioni, torture, esperimenti. Partimmo in 605, tornammo in 22. Entrando ad Auschwitz pensai di essere impazzita. Forse, solo la visione dell’Inferno di Dante, che avrei letto qualche anno più tardi, poteva assomigliare a quel posto pensato ed organizzato a tavolino. Una distesa di baracche, la neve per terra, decine di donne rasate, scheletrite, vestite a righe, che scavavano buche, che portavano pietre sulle spalle con un’aria da dannate. Entrammo nella prima baracca con i nostri vestiti, e lì cominciammo a capire che dovevamo dimenticare il nostro nome. “Dimenticate il vostro nome, non interessa a nessuno. Da adesso in poi sarete un numero!”. Mi venne tatuato un numero sul braccio, così ben fatto che dopo tanti anni si legge ancora perfettamente: 75190. “E imparatelo subito quel numero, imparatelo in tedesco”. Perchè era questione di vita o di morte rispondere immediatamente al comando, perchè ci fu veramente chi morì nei primi giorni per essere stato sordo e muto alla lingua nazista e non seppe obbedire al richiamo del proprio numero. Fummo spogliate, rasate, rivestite con le divise a righe tirate su da un mucchio, zoccoli ai piedi, fazzoletto in testa, mentre passavano i soldati che sghignazzavano. Non ci lasciarono neppure un libro, un fazzoletto, una fotografia. Della nostra vita precedente non rimase nulla.
Ci guardavamo, eravamo un gruppo di trenta ragazze italiane. “Ma perchè ci capita questo? Ma dove siamo finite?”. In fondo al vialone centrale dell’enorme campo di Birkenau, capace di contenere 60mila donne di tutte le nazionalità…in fondo si vedeva un edificio con una ciminiera dalla quale usciva del fumo. Le prime prigioniere che incontrammo nella baracca erano ragazze francesi arrivate da qualche giorno. Ci dissero: “Vedete laggiù in fondo quel fumo che esce dalla ciminiera? Beh, quelli che hanno viaggiato con voi e che avete salutato pochi minuti fa, sono già passati per il camino”. “In che senso?” chiedemmo noi, ancora calde di quell’abbraccio. E loro: “Dovete sapere che quelli considerati non adatti al lavoro, vanno alla camera a gas e poi vengono bruciati nei forni!”. Noi guardavamo queste ragazze francesi e ci dicevamo: “Queste sono completamente pazze…ci hanno messo in un manicomio”. Per una mente normale non era credibile che esistesse un luogo simile. Eppure, da quel momento, cominciò la mia vita di prigioniera-schiava”.
Liliana Segre (foto sopra) ha anche descritto più volte la cosiddetta “marcia della morte”, durante la quale i prigionieri furono costretti a seguire i nazisti in fuga, fino a quando questi ultimi si tolsero la divisa per nascondersi tra la popolazione civile. Una SS gettò a terra la sua pistola. Liliana pensò: “Prendo l’arma e la uccido”. Poi si bloccò. “No, non la prendo”. E in quel momento, dice la Segre, “ha vinto la vita. Non ho mai perdonato, ma ho imparato a non odiare”.
di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io, reporter