PINO SCACCIA, L’ ULTIMO DIARIO

di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io, reporter

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Pino Scaccia (il vero nome era Giuseppe Scaccianoce) se n’è andato, dopo un’esistenza avventurosa e intensa, il 28 ottobre 2020 stroncato dalle complicazioni innescate dal Covid. Aveva 74 anni ed è stato una luce del giornalismo (non solo italiano).

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Corrispondente di guerra, testimone di rivoluzioni e catastrofi, cronista magistrale, inarrivabile narratore dei più importanti avvenimenti internazionali del nostro tempo, maestro di scrittura. Rendeva comprensibili questioni complesse. Lontano dai tecnicismi andava pulito all’essenza delle cose, mostrava la realtà (soprattutto dalla parte delle vittime), si calava dentro i fatti. Parlava alla ragione e al cuore con uno stile unico.

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IL REPORTER CHE HA ATTRAVERSATO LA STORIA

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E’ stato uno degli inviati di punta della Rai. I suoi reportage per il TG1 rimarranno memorabili: la Prima Guerra del Golfo, le disgregazioni di Unione Sovietica e Jugoslavia dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’impero comunista, il dopoguerra in Iraq dove fu l’ultimo compagno di viaggio del blogger Enzo Baldoni e dove lui stesso – alle porte di Baghdad – si salvò per miracolo da un agguato armato mentre viaggiava con la sua troupe a bordo di un’auto bersagliata da un diluvio di proiettili.

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Scaccia è stato anche il primo reporter occidentale ad entrare nell’area contaminata di Černobyl’, dopo il disastro nucleare del 1986, per documentare le vite dei sopravvissuti. Ha scoperto per primo i resti di Che Guevara in Bolivia e ha mostrato le immagini, fino a quel momento segrete, dell’Area 51, la base aerea sperimentale nel deserto del Nevada dove si sarebbero verificati episodi di contattismo tra militari USA e Ufo. E ancora: sotto le bombe ha seguito l’offensiva armata in Libia contro Gheddafi.



In Italia ha realizzato inchieste esclusive sull’Anonima sequestri e sul banditismo sardo (sue le interviste più rivelatrici a Gratzianeddu Mesina), ha raccontato le stagioni di mafia (nella foto sotto è con Giovanni Falcone) e terrorismo e si è soffermato più volte sul potere dirompente del narcotraffico. Si è occupato a lungo della vicenda di Ylenia Carrisi – la figlia di Albano e Romina Power – scomparsa nel 1994 a New Orleans: ha indagato sul caso raccogliendo le voci di testimoni scomodi come quella di un ex pilota dell’aeronautica che si dichiarò sicuro di aver visto la ragazza all’interno di Villa Carrisi a Cellino San Marco in un periodo successivo alla notizia della sparizione. Albano, senza mai concedergli un’intervista, accusò Pino Scaccia di sciacallaggio.

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Pino Scaccia è stato testimone di terremoti e disastri naturali tra i quali l’apocalittico tsunami del 2004 in Thailandia che sprigionò un’energia un milione e mezzo di volte superiore alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Agli albori della carriera si è anche occupato di spettacolo e sport (tra i suoi amori calcistici l’Ascoli di Costantino Rozzi). Per me è sempre stato un esempio davvero speciale di giornalismo (assieme a Lucia Goracci, un’altra fuoriclasse). Dal fronte dei conflitti non indugiava sulle complicate questioni di geopolitica militare, ma si addentrava con passione nell’odissea dei popoli schiacciati dalla guerra.

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Raccontava le storie di donne, uomini e bambini prigionieri delle bombe. Orrori che non si è limitato ad osservare dall’esterno, da situazioni protette e confortevoli, ma stando in mezzo ai protagonisti di quelle drammatiche vicende, vivendo con loro, con i soldati di opposte fazioni e con i profughi; o con gli sfollati se documentava i terremoti.



“Per diventare un bravo giornalista il dieci per cento è tecnica, che si impara; un altro dieci per cento è talento, che è naturale; il resto, l’ottanta per cento, è fatica”

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Se non diremo cose che a qualcuno spiaceranno, non diremo mai la verità


L’INCONTRO AL G8 DI GENOVA

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Ho avuto il privilegio e la fortuna di incontrare Pino Scaccia (per pochi minuti) al G8 di Genova del 2001, poco prima che scoppiasse l’inferno. Era insieme a Giulietto Chiesa (un altro “grande”). Scambiammo qualche parere sull’imponente spiegamento di forze dell’ordine che aveva trasformato la città in una zona di guerra. Dalla nascita della Repubblica – constatavamo – un’esibizione così muscolare dello Stato non si era mai vista. Ero molto preoccupato. A Genova si avvertiva, palpabile, l’imminenza di un’esplosione di violenza. Improvvisamente, seguendo il filo di una battuta, Scaccia staccò la spina da quel contesto di tensione crescente e cambiò argomento. Con il suo accattivante accento romano, mi interrogò sugli ingredienti del Pesto la cui ricetta è sempre al centro di eterne diatribe. Compresi subito che quella curiosa e sorprendente deviazione gastronomica non era espressione di spocchiosa sufficienza, ma un diversivo per esorcizzare la paura, un segno di classe ed esperienza, il sintomo della sua forza tranquilla. Un grande giornalista mantiene il distacco e la calma nelle situazioni oggettivamente difficili, non cede alla frenesia e all’ansia, osserva ed interpreta la realtà circostante senza farsi travolgere dagli eventi. Quel giornalista di razza era di fronte a me e, inconsapevolmente, mi aveva appena regalato una preziosa lezione sulla gestione del pericolo.

LA TORRE DI BABELE

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Gli anni della pensione. Pino Scaccia, dal buen retiro di Ostia, non ha rinunciato alla passione per la scrittura (15 libri in carriera) e al demone delle sigarette (vizio e condanna). Disponibile e gentile, malgrado il dolore privato per la perdita dell’amatissima moglie Rosaria, ha partecipato ad eventi culturali, premi, presentazioni di libri, ospitate televisive, lezioni di giornalismo ai più giovani e conferenze. Un’attività febbrile e nessun viale del tramonto. Rarissime, invece, le apparizioni in Rai (la sua casa) che, colpevolmente, si è privata di una sorgente di conoscenze. Lui stesso, dopo 32 anni di intensa carriera da inviato di punta del TG1, aveva scritto (ormai in pensione da due anni) una riflessione amara e preziosa:

Un mio vecchio direttore diceva che per costruire un inviato come me, scusate l’autoriferimento, ci vogliono vent’anni. Non è questione di bravura, ma di esperienza. Certi ruoli, insomma, non si improvvisano: sono frutto di un lavoro lungo e duro. Certo, per un Direttore Generale appena approdato da ben altri lidi, è facile parlare di rinnovamento: è anche giusto, ma il passato non si cancella. Se esiste un archivio ricco e imbattibile lo si deve al frutto di decenni di impegno. Per uno aziendalmente imberbe è anche comodo pensare all’anno zero, ma è un errore clamoroso. Non vorrei citare per l’ennesima volta Carmelo Bene ma “noi siamo quello che siamo stati”. Ho sempre tifato, e tifo, per i giovani e mi auguro che prendano il nostro posto, ma il solco di memoria rimane.

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Quando sono arrivato al Tg1 ho sempre guardato a chi c’era prima di me con grande rispetto: nel momento in cui ho avuto il privilegio di stare sugli eventi non potevo dimenticare che Frajese era quello di via Fani o Vespa quello della stazione di Bologna. Potevo anche diventare più bravo, ma non avrei mai potuto parlare di Moro o della strage meglio di loro. Perchè loro c’erano. Quando poi sono andato in Bolivia a cercare i resti del “Che” mi sono precipitato da Franco Catucci che era lì quando è stato ucciso, sarei stato un imbecille a non chiedergli consigli. Per farla breve, è un delitto spezzare il filo che unisce vecchie e nuove generazioni, ci vuole sapienza e coraggio per non buttare all’aria un patrimonio. Del resto i giornali lo fanno. Non hanno mai liquidato i grandi, le firme se non quando hanno lasciato questa terra perchè la conoscenza è buona finchè il cervello funziona, è anzi quella che fa la differenza in questo mare di informazione ormai tutta appiattita. Poi capita che un fresco direttore chieda in giro: ma dov’è un vero cronista? E si senta rispondere: sono finiti. Ecco cosa significa essere “smagnetizzato”. E’ un fatto naturale, legato all’età, ma proprio per questo non piacevole.

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Pino – che aveva intuito da almeno vent’anni le potenzialità della rete – ha dedicato tempo e cura al suo amato  blog “La Torre di Babele”  – miniera di riflessioni private e memorie di una vita da reporter – che suggerisco di visitare. Da osservatore ha rivolto, fino all’ultimo, lo sguardo sul Covid, il nemico invisibile. Lo temeva più delle bombe che tante volte aveva visto esplodere, e aveva ragione. Di seguito ecco le sue ultime, profonde riflessioni sul virus. Frammenti dell’ultimo diario di un grande inviato di guerra.

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Mi riviene in mente adesso, dopo tanti anni, la frase (quasi un testamento) che mi regalò Oriana Fallaci appena uscita dall’inferno del Kuwait alla vigilia del mio ingresso, debutto della mia vita fantastica ma pericolosa: “Non avrei mai pensato di avere paura di una nuvola nera”. In mezzo ai pozzi di petrolio che bruciavano ci rimasi due mesi. E poi tre volte a Chernobyl, l’amianto della Jugoslavia, i fumi dei rifiuti tossici in Turchia, le bombe nucleari nel Nevada, l’epidemia in Iran o per i cadaveri dello tsunami, e non ricordo più le altre volte che ho sfidato un nemico invisibile. Eppure non avrei mai pensato di avere paura di un virus, traditore e bastardo. Infido, maledetto.

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Sulla didattica a distanza

Ci siamo. Approfitto da tempo dei nuovi strumenti perchè non rifiuto il progresso ma conservo l’anima. Rifuggo da relatori che arrivano con migliaia di slides, impersonali, che non guardano in faccia il pubblico ma preferisco convegnisti che puntano sull’empatia e offrono un interessante eloquio. Il problema non è di essere capaci o incapaci, ma quale strada percorrere. Basti pensare che questa ridicola “didattica a distanza” è l’unica possibile in tempo di emergenza ma non può e non deve essere il futuro. E’ assolutamente falso che abbiamo professori impreparati, quando sono gli studenti per primi a rifiutare una scuola così. Non sono pronti tecnologicamente, a prescindere dalle leggende, e amano lo studio tradizionale. Perchè una scuola così è un po’ all’americana e può produrre solo nuovi cittadini-robot che non conoscono nè storia nè geografia e magari scoprono che nel mondo esiste Roma, mi è successo con i marines a Baghdad, perchè…. “oh, the Gladiator!” insomma solo perchè hanno visto il film.

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Ricordo che a Islamabad, un rampante collega che pensava di stare oltre, leggeva lo “stand up” al tablet. Il suo operatore si girò verso di me che stavo seduto su un gradino scrivendo sul mio piccolo Moleskine, ed esclamò: “oh, finalmente un giornalista!” Infatti amo, delle foto che mi hanno scattato in situazioni operative, quelle che mi sorprendono con un taccuino in mano. Come Montanelli. Ho un’età in cui qualcuno vorrebbe spedirci al macero, nel mio lavoro ho attraversato tutto, dalla pellicola all’elettronica al digitale, ho cominciato a scrivere con la penna d’oca e ora uso il computer. Ma sfido chiunque a pensare di essere più avanti di me. Carmelo Bene diceva: “Noi siamo quelli che siamo stati”. Guai a prendersi gioco del passato. Io voglio professori come quelli che ho amato. Educatori, non robot. Faccio tutto online, ma ricordiamoci di McLuhan, padre del villaggio globale, che già negli anni ’60 ammoniva dal rischio di “affittare il cervello”. Restiamo umani.



di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io, reporter

G8 2001, LA PRIMA CRONACA DA PIAZZA ALIMONDA

di Fabio TiraboschiGenoa News Chronicle / Io, reporter

Genova, 20 luglio 2001. La città è zona di guerra. Carlo Giuliani è stato appena ucciso in Piazza Alimonda. Le sue generalità non sono state ancora diffuse.

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Il giornalista Fabio Tiraboschi e il videoreporter Giuseppe Damonte, dal cuore degli scontri, documentano la  battaglia, raccolgono voci, intervistano testimoni oculari e ricostruiscono la dinamica dei fatti. Mentre in quei minuti circolano versioni ancora contradditorie sull’accaduto, questa è la prima cronaca, in presa diretta e a caldo, con la notizia di “un colpo d’arma da fuoco sparato ad altezza d’uomo“. Il servizio, trasmesso il 20 luglio 2001 dall’emittente Telegenova Eurotelevision’ (oggi non più attiva), è stato recuperato, dopo 14 anni, da un archivio dimenticato.



di Fabio TiraboschiGenoa News Chronicle / Io, reporter

CONTENUTI SPECIALI

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Dreamers, il podcast genovese e indipendente sui fatti di Genova del 2001. Il racconto audio si articola in dieci puntate, in uscita ogni due settimane, sempre di domenica, su tutte le piattaforme gratuite di podcasting. Gli autori sono quattro ragazzi e ragazze che vivono a Genova e che, all’epoca dei fatti, erano troppo giovani per partecipare. Nonostante ciò, quello che è successo a Genova ha profondamente segnato le loro scelte e le loro vite future. Per questo, a vent’anni di distanza, hanno deciso di raccontare quel periodo, con un obiettivo: rivolgersi ai giovani, affinché la memoria non vada persa e soprattutto, si possa vivere l’emozione di credere concretamente che “un altro mondo è possibile” anche oggi.

L’EROINA DI STATO E LA GENERAZIONE PERDUTA

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di Fabio Tiraboschi & Nilde CollemaggioGenoa News Chronicle / Io, reporter

“ERO”, COSI’ TUTTO EBBE INIZIO

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Il brano che segue è tratto da: SOLO E’ IL CORAGGIO, GIOVANNI FALCONE IL ROMANZO – di Roberto Saviano (Bompiani 2022)

In Italia nel 1970 c’erano duecento tossicodipendenti. Duecento…La chiamano roba. Come l’ultima delle fesserie. Nasce dalla terra come i pomodori, le patate, i cavoli, la lattuga. E come i papaveri. E’ proprio lì che riposa, nei papaveri, nascosta dentro i loro bulbi. Alla fine di ogni aprile, milioni di contadini, milioni, in diversi angoli del mondo, Afghanistan, Kazakistan, Iran, Pakistan, India, Thailandia, Laos, Myanmar, sfilano nei campi coltivati a papavero officinale armati di piccoli coltelli con cui incidono la capsula della pianta non ancora matura. Dall’incisione praticata sul bulbo filtra un liquido denso e biancastro che una volta lasciato essiccare e fermentare con un fungo, l’Aspergillus niger, diventa oppio.

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E’ un rituale che si ripete dalla notte dei tempi. Pensate che alcune capsule di papavero sono state ritrovate nelle palafitte dell’uomo di Cro-Magnon che ha popolato la terra circa trentamila anni fa. I Sumeri ne tramandarono l’uso ai Caldei e agli Assiro-Babilonesi, loro lo introdussero in Egitto. Ma già Erasistrato, fondatore con Erofilo della scuola medica di Alessandria d’Egitto, nel terzo secolo a.C. metteva in guardia i suoi allievi e i colleghi medici dall’uso frequente del papavero da oppio come rimedio al dolore. L’oppio ha sedotto anche i più grandi, che gli hanno dedicato poesie, racconti, canzoni. Paracelso, a cui viene talvolta attribuita l’invenzione del laudano, una tintura d’oppio, ne morì intossicato. Dall’oppio si ricava la morfina e da questa, attraverso un processo che richiede attrezzature sofisticate, l’eroina. Quando ci si rese conto che la dipendenza da eroina era molto più rapida e subdola rispetto a quella da morfina e da oppio, perchè ne bastavano quantità molto inferiori, ormai l’uso della roba era diventato un’emergenza sanitaria. Il mondo era pieno di donne e uomini con le pupille ridotte a uno spillo e le braccia come una gruviera che si trascinavano per le città in cerca della roba. Queste persone, arrivate a un certo punto, restano svuotate di tutto, tranne che del bisogno di lei. Non hanno più interessi, tranne che per lei. Spesso non hanno più neanche un amore, perchè l’eroina, potremmo dire, è molto…monogamica. La si può fumare o iniettare. Cambia qualcosa, ma solo all’inizio. Chi di noi non vorrebbe scordarsi del dolore? Stando ai rapporti del Federal bureau of narcotics, il boss mafioso Lucky Luciano (foto sotto), dopo la seconda guerra mondiale, si incontrò a Palermo con i mafiosi della famiglia Gambino.

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Luciano si procurava l’eroina dalle industrie farmaceutiche del Nord Italia, i Gambino la spedivano a New York grazie agli immigrati clandestini che s’imbarcavano con le loro valigie di cartone. Furono lungimiranti, Lucky Luciano e i Gambino. Non c’è che dire. Talento imprenditoriale. Se all’inizio l’eroina era diffusa principalmente nei ghetti neri e portoricani – un affare marginale, quindi, per le famiglie siciliane -, accadde però che dopo il 1956, quando gli USA introdussero pene molto più severe in materia di traffico di stupefacenti e i mercanti di morte americani appaltarono il lavoro sporco a chi se la sentiva di rischiare ancora di più, i siciliani cominciarono a girare con i portafogli pieni. Nel 1971 si è stimato che il 10-15 per cento di tutti i soldati statunitensi facesse uso di eroina. L’esercito di zombie che vagava per le strade americane colpì, finalmente l’opinione pubblica. Richard Nixon lanciò la sua famosa guerra contro la droga e la tratta Turchia-Marsiglia-NewYork – la cosiddetta French Connection – fu il bersaglio prescelto. La Turchia ricevette dagli USA aiuti finanziari per fermare le coltivazioni d’oppio, la rete dei trafficanti corsi, che garantiva loro coperture e mano libera in Francia, fu smantellata. I chimici finirono arrestati, o senza lavoro. Ma solo per un po’…

Anni ’70, esistenze bruciate nel folle e stregato ottovolante

C’era chi fuggiva su un’isola greca in cerca del libero amore, chi scendeva in piazza con la P38 alla cintura, chi si perdeva nel ‘buco’… Anni di chitarre e pistole, partecipazione politica ed emarginazione, sogni infranti e viaggi artificiali, assemblee e rassegne di cinema d’autore, comunicazione facile e sesso finalmente libero, stragi di stato e lotta armata, febbre del sabato sera e ragazzi dello zoo di Berlino, indiani metropolitani e sanbabilini, Fiorucci e Studio 54, Clarks e Camperos, monokini e censura.

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EROINA DI STATO, L’OPERAZIONE ‘BLUE MOON’

Così il sistema dominante, grazie all’introduzione massiccia dell’eroina, tenne a freno e disinnescò un immenso potenziale rivoluzionario…

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L’eroina venne lanciata sul mercato illegale della droga con una vera e propria operazione di marketing. Recenti inchieste giornalistiche, rese possibili grazie alla de-classificazione di alcuni documenti finora secretati, hanno alzato il velo sull’azione congiunta di trafficanti, governo italiano e servizi segreti americani. L’intento era quello di indebolire e ‘addormentare’ i movimenti antagonisti favorendo al loro interno il consumo di eroina.

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Tanti caddero inconsapevolmente nella trappola e la cosiddetta generazione impegnata fu, di fatto, condannata all’emarginazione e all’annientamento. L’operazione denominata ‘Blue Moon’ ebbe l’effetto di una lama affilata nella carne viva di migliaia di ragazzi. Una perdita irreparabile di sensibilità, intelligenze, bellezze e futuro.

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I movimenti giovanili più radicali (figli della contestazione esplosa nel ’68), ritenuti scomodi, sovversivi, potenzialmente rivoluzionari, culturalmente ribelli, e peraltro già inclini al consumo di droghe a scopo ricreativo (hashish e Lsd), rappresentavano una minaccia per gli ordini costituiti del ‘blocco’ occidentale.

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Occorreva sedarli e metterli in condizione di non nuocere. In che modo? Gettando un’esca assolutamente devastante: l’eroina, appunto.

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26.06.1976 | Milano, Parco Lambro – Re Nudo Pop Festival

Per imporla si tagliarono gli approvvigionamenti delle altre sostanze e si criminalizzò il consumo delle droghe leggere come la marijuana. La carenza programmata di morfina e anfetamine e la falsa notizia della marijuana pericolosa, costrinse i consumatori a virare verso l’eroina, sempre più abbondante e reperibile sulla piazza a prezzi decisamente calmierati. Nel giro di pochi mesi, attraverso una sistematica alterazione dell’offerta, la nuova droga conquistò il mercato imprigionando nella dipendenza un numero crescente di consumatori. A quel punto i narcotrafficanti cavalcarono l’onda della domanda crescente e il prezzo dell’eroina schizzò alle stelle. Il cerchio si era chiuso.

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Negli Anni ’70, in Italia, tutto era ammantato dalla politica. L’eroina era considerata di destra e nei quartieri popolari gli spacciatori venivano combattuti, attraverso attività di sorveglianza e ‘inchieste’, dai giovani proletari di sinistra, soprattutto militanti di Autonomia Operaia.

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Nell’estate del 1976, durante il Festival Pop Re Nudo – la Woodstock italiana espressione della contro-cultura e del “proletariato giovanile”, organizzata a Milano a Parco Lambro – gli spacciatori di eroina che si erano introdotti nella manifestazione, furono cacciati dopo un improvvisato e durissimo processo popolare; un linciaggio che colpì, soprattutto, i “pesci piccoli”, un manipolo di tossici diventati spacciatori per garantirsi la dose quotidiana. Il video che segue è un documento su quel periodo drammaticamente confuso segnato da stordimenti, disperazione, ideali estremi, passioni pazzesche e violenza.



Occhi e cervelli attenti che, tuttavia, furono costretti alla resa di fronte alla diffusione pilotata e dilagante del traffico.

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Interessante e istruttivo ripassare le cronache di ‘nera’ dei primi Anni ’70: gli arresti per droga riguardavano quasi sempre spacciatori o consumatori di narcotici diversi dall’eroina. Il giro di vite era connesso soprattutto alla morfina, alle anfetamine, all’hashish e alla cocaina. Ricordate la madre di tutte le retate nella quale caddero gli artisti Walter Chiari e Lelio Luttazzi (risultato poi completamente estraneo alla vicenda) finiti nel tritacarne di un’indagine su un giro di cocaina? Era il 1970.

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L’eroina no. Scorreva nella sostanziale impunità, tra complicità e silenzi. Le prime partite della sostanza vennero introdotte a Roma presumibilmente tra il 1973 e il 1974. La zona dello spaccio era Campo dei Fiori dove un manipolo di poveri diavoli (facilmente ricattabili) piazzarono, indisturbati, piccole dosi di ottima qualità. Fu il debutto in Italia dell’operazione ‘Blue Moon’.

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Uomini dei ‘Servizi’ e ‘infiltrati’ dell’Arma dei Carabinieri – la cui presenza a Campo dei Fiori è ampiamente documentata – vegliavano sui traffici. Il flusso di eroina non doveva incontrare ostacoli e c’è un episodio che lo dimostra:

A Roma, durante tutto il 1975, ci fu un solo sequestro di eroina, una partita di circa 2 chili. Il commissario che lo effettuò, Ennio Di Francesco, non solo non ricevette encomi, ma il giorno stesso venne incredibilmente allontanato dalla Squadra Mobile e trasferito ad altro incarico. Un’operazione antidroga, insomma, amputata sul nascere, senza conseguenze penali per i detentori di quella partita. Chi ordinò la rimozione del commissario Di Francesco? Chi diede l’altolà alla sua indagine? Gli interrogativi rimangono sospesi, ma il sospetto di un intervento delle alte sfere coinvolte nel programma di diffusione dell’eroina è più che lecito.

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Un altro episodio segnò quegli anni. A Milano, due militanti del Centro Sociale Leoncavallo, Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, nel corso di un’attività di controinformazione, scoprirono che il traffico di eroina nel quartiere Casoretto e nelle vicine zone di Lambrate e Città Studi, era gestito da una coalizione formata da pezzi importanti della malavita organizzata e dell’estrema destra milanese. I due ragazzi, registrando una serie di interviste tra i tossicodipendenti di Parco Lambro, raccolsero prove e indizi. Il dossier era scottante perché toccava nervi scoperti e ambienti feroci; alleanze criminali e affari sporchi; identità di burattinai e mercanti di morte.

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Il 18 marzo del 1978, mentre l’opinione pubblica era ancora sotto choc per il rapimento di Aldo Moro, avvenuto un paio di giorni prima, Fausto e Iaio caddero in strada, uccisi a colpi di pistola da un commando di sicari.

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L’agguato venne rivendicato a Roma dal gruppo neofascista dei NAR, brigata combattente Franco Anselmi, di cui faceva parte Massimo Carminati (foto sotto), componente della Banda della Magliana (sì proprio lui, lo stesso personaggio arrestato nel 2014 nell’ambito delle indagini sugli scandali di Roma Capitale).

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Cosa avevano scoperto i due attivisti del Leoncavallo? Non si saprà mai con esattezza. I nastri registrati e gli appunti della loro ricerca con le informazioni sui traffici di eroina, i nomi e i cognomi degli spacciatori attivi sulla piazza milanese e chissà cos’altro ancora, sono stati recuperati solo in parte. Un’inchiesta giornalistica, realizzata qualche anno fa nell’ambito del programma investigativo ‘Chi l’ha visto?’, ha gettato nuova luce sul caso, aprendo la riflessione su scenari spaventosi.



A riprova dell’esistenza dell’operazione ‘Blue Moon e delle manovre della CIA mirate alla diffusione di eroina tra i militanti della sinistra extraparlamentare europea ed italiana, vi sono le dichiarazioni, rese agli inquirenti, da Roberto Cavallaro, estremista di destra e personaggio-chiave della ‘strategia della provocazione’ (il disordine crea la necessità di riportare ordine; destabilizzare per instaurare un regime autoritario). Dopo aver vissuto l’esperienza del ’68 francese, Cavallaro, per un breve periodo, diventò sindacalista, prima nella Cisl e poi nella Cisnal. Nel 1972, dopo un breve idillio con il Movimento Sociale Italiano, abbracciò posizioni più oltranziste: assieme ad altri fascisti formò una squadra di picchiatori della “Milano bene”, il famigerato ‘Gruppo Alfa radicato soprattutto all’Università Cattolica dove si distinse per i pestaggi e le spedizioni punitive contro chiunque odorasse di sinistra.

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Sostenuto e protetto dal SID, Cavallaro scivolò rapidamente negli ambienti occulti popolati da estremisti di destra, militari nostalgici, bombaroli stragisti, piduisti provocatori e spie dei servizi deviati: la ‘zona plumbea’ dove si intrecciavano le trame della strategia della tensione orchestrate, in larga parte, da un Servizio super segreto denominato Il “noto servizio” o “Anello”. Si trattava  di una struttura occulta che ha avuto un ruolo decisivo nella storia della Repubblica. Compito principale: ostacolare le sinistre e condizionare il sistema politico con mezzi illegali, senza sovvertirlo. Questa sorta di Cia italiana non è stata una meteora: ha operato dal 1945 fino agli inizi degli anni Ottanta, alle “informali” dipendenze del capo del governo. Creato per volontà dell’ex capo dei servizi segreti fascisti, il generale Mario Roatta, già condannato per l’omicidio dei fratelli Rosselli, e poi gestito da Adalberto Titta, un ex repubblichino, l’Anello fu appoggiato dalla Cia e costituito da ex ufficiali badogliani, imprenditori, faccendieri, giornalisti. Tutto in collaborazione con la malavita e la mafia.
Tornando a Cavallaro il suo nome figura, non a caso, tra i partecipanti del tentato golpe ordito dalla ‘Rosa dei Venti’.  

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A Cavallaro si deve, comunque, il primo brandello di verità sull’introduzione ‘pilotata’ dell’eroina in Italia. Arrestato ed inquisito nell’ambito dell’indagine sul fallito colpo di stato della ‘Rosa dei Venti’, decise di collaborare. In particolare riferì ai magistrati che nel 1972, durante un addestramento in Francia, era stato informato su un’operazione segreta che la CIA stava per attuare nel nostro paese; un’operazione denominata ‘Blue Moon che si poneva un duplice obiettivo: la penetrazione dell’eroina negli ambienti sociali vicini all’area della contestazione studentesca per “fiaccarne le velleità rivoluzionarie”, e più in generale la diffusione del consumo di eroina tra i giovani delle principali città italiane per sviluppare disgregazione sociale.

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Ma chi tirò le fila dell’operazione ‘Blue Moon‘ in Italia? Chi era la figura cruciale del piano? I documenti de-secretati dalla Presidenza Clinton conducono a un nome: Khoury Ali alias Ronald Stark, l’Amerikano, enigmatico personaggio implicato nelle trame più bieche del terrorismo internazionale. La sua biografia è un distillato di storia del rock. Ronald Stark frequentò a lungo gli ambienti della cultura psichedelica californiana. Alcune fonti riferiscono anche di una sua amicizia con Jim Morrison, il frontman dei ‘Doors‘.

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Aspetto da hippy, orecchino, capelli lunghi e sguardo allucinato, Stark era un uomo ricchissimo e camaleontico (arrivò ad esibire venti identità diverse). Risultò titolare di due fattorie in California e di un oscuro laboratorio in Belgio dove si producevano milioni di pastiglie di Lsd smerciate in tutto il mondo. Nella prima metà degli anni 70, si trasferì in Italia ed entrò in contatto con il capo del Servizio Segreto Militare Vito Miceli e con Salvo Lima, andreottiano di ferro e uomo-cerniera tra mafia e politica. Nella sua vita avventurosa non mancarono gli inciampi creati ad arte. Stark venne arrestato a Bologna nel 1975 con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti, ma gli Stati Uniti, che formalmente lo ricercavano da anni, non richiesero la sua estradizione. Anzi, durante la sua prigionia Stark intrattenne rapporti continui ed amichevoli con il consolato Usa e funzionari della polizia italiana. In carcere conquistò anche la fiducia di esponenti delle Brigate Rosse (finì in cella con Renato Curcio) e di alcuni autonomi.

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Alberto Franceschini e Renato Curcio – Fondatori Brigate Rosse

Nella seduta del 26 gennaio 2017, Alberto Franceschini, tra i fondatori delle Brigate Rosse, rispondendo a una domanda posta nell’ambito della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, ha affermato di non aver mai avuto contatti diretti con Khoury Alicioè Ronald Stark – ma di aver saputo, comunque, che Curcio lo aveva incontrato in carcere.

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Nel 1978, addosso ad alcuni arrestati per fatti di terrorismo, vennero ritrovate le piantine di campi paramilitari ed arsenali situati in Libano, corredate di indirizzi a cui rivolgersi in caso di bisogno. Autore dei prontuari era proprio Stark che – primo cittadino americano – fu raggiunto da un ordine di cattura per banda armata. Scontati alcuni mesi di pena in carcere, e appreso il suo ruolo di agente della Cia, venne scarcerato frettolosamente dalle autorità italiane con uno stratagemma giuridico e condotto nella base americana di Camp Darby, nella Tenuta di Tombolo, tra Pisa e Livorno. Da lì scomparve nel nulla. Anche la sua presunta morte, nel 1985, è avvolta nel mistero: in alcuni rapporti dei servizi segreti si sostiene che la bara esibita al suo funerale, in realtà… fosse vuota.

La vicenda è stata rievocata in un documentario realizzato dalla Rai e dedicato all’operazione ‘Blue Moon’:



Ronald Stark, dunque, fu tra i principali referenti in Italia del piano ‘Blue Moon’, operazione già sperimentata con successo negli Usa. Non va dimenticato, infatti, che nelle metropoli americane si verificarono alcune condizioni che, con le dovute differenze, si sarebbero ripresentate qualche anno dopo in Italia. Ad esempio, quando la penetrazione di eroina nei ghetti incontrò l’opposizione delle ‘Pantere Nere‘, il governo degli Usa reagì con durezza, intensificando la repressione nei confronti del movimento di liberazione degli afroamericani.

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La stessa strategia sarà applicata in Italia attraverso la criminalizzazione del Movimento del ’77 e dei gruppi della sinistra extraparlamentare, vale a dire l’area più attiva nella lotta contro lo spaccio e il consumo di eroina. L’esperienza americana, insomma, fece scuola.

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I risultati della diffusione di eroina negli Stati Uniti furono impressionanti: nel 1973, l’anno della prima massiccia penetrazione, si contavano 626mila tossicomani, di cui circa 150mila nella sola New York. E la Polizia? Stava a guardare. Solo operazioni di facciata in un mare di corruzione. Emblematico, all’alba degli Anni ’70, il caso del detective italo-americano Frank Serpico le cui denunce svelarono un sistema organizzato di abusi, negligenze e coperture all’interno del Dipartimento di Polizia di New York.

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L’operazione ‘Blue Moon‘ nel nostro Paese “era condotta dai servizi statunitensi utilizzando uomini e strutture che facevano capo alle rappresentanze ufficiali degli Usa, in Italia”. Eroina introdotta deliberatamente per stroncare il dissenso: pura strategia della tensione in versione narcotica. La stampa di destra offrì un tenace supporto. Vere e proprie campagne mediatiche, orchestrate soprattutto dai giornali del gruppo di Attilio Monti, in particolare da Il Tempo’, alimentando il falso mito della “marijuana assassina”, contribuirono, come abbiamo visto, a indirizzare i consumatori verso le droghe pesanti.

EROINA, LE DIMENSIONI DELLA MATTANZA

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Eroina anni ’80 – A Milano un morto al giorno. Una strage silenziosa

Dal ’75 agli anni Ottanta, il fenomeno in Italia diventa endemico. L’eroina insidia silenziosamente una generazione che non sa nulla dei reali effetti letali della sostanza. Nessuno ne parla in modo chiaro. Nessun giornale, nessuna tv, e tantomeno, le istituzioni. Il Servizio Sanitario intensifica i proclami contro la marijuana, ma nessuna informazione è diffusa capillarmente contro gli effetti dell’eroina.

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I giovani, allarmati dalle campagne di stampa contro le droghe leggere, si avvicinano senza troppe remore al buco in vena. A Roma nel ’70 non c’è nemmeno un tossicodipendente da eroina. Nel ’74, a Udine, muore il primo ragazzo; alla fine dell’anno, nel nostro Paese, saranno 8. Il bollettino è un crescendo di lutti. Nel ’75 le vittime sono 26. 31 nel 1976. 34 nel 1977 con 14 morti solo in Lombardia ed Emilia Romagna ed oltre 20mila consumatori abituali in tutto il Paese.

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I genitori assistono sgomenti al lento spegnersi dei figli. Non sanno che fare, le comunità di recupero sono pochissime. E’ un’escalation continua: 60 morti nel 1978; 126 nel 1979; 206 nel 1980. Da Bolzano a Palermo il Paese è invaso, la ‘roba’ è ovunque. Una bustina costa 20mila lire e tocca le 250mila lire al grammo. Un eroinomane fagocita enormi somme di denaro: in media dai 7 ai 10 milioni di lire al mese per soddisfare il consumo che l’assuefazione impone.

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A metà degli anni ’80, i tossicodipendenti in Italia sono 300mila, con un giro d’affari annuo di 3mila miliardi di lire. Una piaga che lascia sulla strada centinaia di cadaveri, famiglie distrutte e decine di migliaia di disagiati. E’ una strage, una catastrofe dalla quale non si torna indietro. Il risultato è un esercito di zombie indifferenti a tutto, ma con un solo pensiero nel cervello: procurarsi le dosi quotidiane.



Dal 1980 al 1993 muoiono ufficialmente in Italia a causa di intossicazione da eroina 8875 persone. Il picco si registra nel 1991 con 1383 morti. 5216 vittime di età compresa tra i 26 e i 40 anni (l’89% maschi). La Lombardia è stata la regione più colpita con una media annua di 163 morti. La meno colpita nel periodo è stata la regione Molise.

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L’enorme liquidità ottenuta con la raffinazione e la vendita dell’eroina permise a diversi gruppi criminali di investire in società sane, nel mercato azionario, nella proprietà immobiliare del Nord Italia, riducendo di molto lo spazio di manovra del capitalismo sano del Nord che era stato invece protagonista dello sviluppo degli anni cinquanta e sessanta.

Anni ’80 – Il “raffinatore” della Mafia

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Francesco Marino Mannoia, autodidatta palermitano, (“un quinto elementare”), soprannominato “mozzarella”, ha un contratto a vita con Cosa Nostra. Dall’età di 25 anni, soldato della famiglia di Stefano Bontate, lavora nella raffinazione dell’eroina; ha gestito quattro grandi laboratori in Sicilia e poi ha inventato i laboratori “volanti”. Per la sua professionalità è un punto di riferimento commerciale di tutte le famiglie che si sono inserite nel mercato degli stupefacenti: Calò, Mafara, Grado, Bontate, Inzerillo, Vernengo, Spatola, Greco, Alberti, Savoca, Galatolo, Madonia. Questi gli consegnano la morfina base e lui la raffina: in dieci anni ne ha trattato qualcosa come dieci tonnellate. Con un segreto industriale. Come tutte le sostanze, l’eroina ha il suo punto di fusione, ovvero la temperatura raggiunta la quale da solida diventa liquida: 273 gradi centigradi. Il cliente che compra può facilmente controllare se la sostanza è tagliata (in genere con il talco), perchè in questo caso, il punto di fusione si abbassa di molto. Marino Mannoia, però, ha fatto i suoi esperimenti personali. Ha scoperto che c’è una sostanza, la benzoiltropeina, che mischiata con l’eroina produce strani effetti. Non diminuisce quasi la temperatura di fusione perchè le molecole delle due sostanze non interagiscono; e potenzia l’effetto dell’oppiaceo. In buona sostanza questo mix raggiunge gli standard richiesti e il consumatore è contento. Con un altro vantaggio: la benzoiltropeina, praticamente, non costa niente, si compra in farmacia. Anche solo immettendo un 10% di benzoiltropeina nell’eroina che Cosa Nostra vende agli americani, Marino Mannoia fa guadagnare alle famiglie siciliane centinaia di milioni di dollari in più.

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Mannoia collaborerà con Giovanni Falcone e diventerà un super-pentito. E’ lui che ha visto personalmente Giulio Andreotti incontrarsi con il boss Bontate; che sa dei nascondigli di Sindona; delle banche in cui vengono messi i soldi; delle famiglie americane. La mafia, per punirlo, gli ucciderà il fratello, la sorella, la compagna, la figlia, la madre e la zia.

(fonte: “Patria 1978 – 2010” di Enrico Deaglio)

Giancarlo SIANI, un cronista in prima linea

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Giancarlo Siani viene ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985. La sua colpa? Aver documentato con rigore giornalistico gli intrecci tra malaffare e politica e l’esplosione del narcotraffico e del consumo di eroina nelle località della fascia vesuviana. Di seguito la situazione di Torre Annunziata, uno scenario di paura, degrado e disperazione comune a moltissime città italiane dei primi anni Ottanta.

Da “Il Mattino” del 28 maggio 1983

TORRE ANNUNZIATA, DANNI E MINACCE PER UNA SIRINGA

Violenze, minacce, vetrine andate in frantumi, medicine rubate. Ogni farmacia nei turni pomeridiani e serali resta in balia dei tossicodipendenti che chiedono siringhe a perdere e acqua distillata per “bucarsi”. E’ diventato un vero e proprio incubo per le circa 15 farmacie della città. Quando si avvicina l’orario di apertura per il turno del pomeriggio dalle 14 alle 16 e delle ore notturne (dopo le 20), iniziano il panico e il terrore. E’ l’orario in cui migliaia di giovani tossicodipendenti si recano a comprare l’occorrente per iniettarsi l’eroina. Sabato e domenica le tre farmacie aperte in media distribuiscono ognuna circa duemila siringhe. In totale seimila persone che si rivolgono alle farmacie per bucarsi. Una cifra enorme che dà il termometro della situazione. Nella maggior parte dei casi quando tutto va bene il tossicodipendente strappa di mano siringa e acqua distillata senza pagare. Gli episodi di violenza e di minacce che subiscono i farmacisti e gli impiegati sono all’ordine del giorno e i titolari delle farmacie hanno deciso di porre fine a questo clima di terrore. Lettere di proteste, richieste di aiuto alle forze dell’ordine inviate a tutte le autorità competenti sono però sempre rimaste senza risposta. Già nel 1979 dopo un ulteriore episodio di teppismo i titolari delle farmacie di Torre Annunziata inviarono una lettera al Prefetto e al Questore di Napoli, al Pretore e al Sindaco di Torre Annunziata chiedendo maggiore protezione e minacciando di sospendere il servizio notturno e pomeridiano. Da allora altre lettere sono state inviate ma mai nessuna ha avuto l’interessamento di qualche autorità. Una siringa a perdere per l’insulina ed una bottiglietta di acqua distillata costano ognuna trecento lire e per questi pochi soldi il personale delle farmacie è costretto a vivere nell’incubo.

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Quando entrano dieci, venti di loro e dietro al bancone della farmacia c’è un solo medico – racconta un farmacista – non puoi sapere che reazione avranno. Minacciano, sono prepotenti; ti strappano la siringa di mano e scappano via. In questo clima di paura non possiamo continuare a lavorare, quando entra un tossicodipendente è tanta la paura che c’è il rischio anche di sbagliare ricetta per altri clienti.

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Eppure porre fine a questo stato di cose non è difficile. Gli stessi titolari di farmacie insieme alle lettere di protesta hanno anche avanzato una serie di proposte. Prima di tutto chiedono che la distribuzione di siringhe e acqua distillata sia resa gratuita e sia fatta negli appositi centri per tossicodipendenti, dove già viene distribuito il metadone. Ma anche senza rivolgersi ai presidi almeno che nelle farmacie sia gratuita la distribuzione e che lo Stato si faccia carico di questa spesa. Ogni farmacista è disposto anche a trasferirsi al centro ospedaliero nelle giornate di turno per soddisfare le richieste dei tossicodipendenti purchè finisca questo stato di paura.

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“Durante il turno pomeridiano e notturno – sostiene un altro farmacista che preferisce restare anonimo per evitare eventuali rappresaglie – non vendiamo altro. Specialmente il sabato e la domenica sono rarissimi i casi di persone che vogliono bombole di ossigeno o altri medicinali d’urgenza. Siamo aperti esclusivamente per loro, per i tossicodipendenti e quando entrano fanno paura”. Oltre la paura per violenze fisiche o per danni, per alcuni farmacisti c’è anche un problema di ordine morale.

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Mi sento anch’io un responsabile dell’aumento e della diffusione della droga – sostiene un titolare di farmacia – vendo il supporto necessario a chi si buca. Ma se lo Stato distribuisce metadone e non si attrezza ad arginare il fenomeno perchè non fornisce anche gli attrezzi per chi vuole usare la droga?.

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La situazione ha raggiunto un livello insostenibile. In farmacia nessuno è più disposto a continuare a vivere in questo stato di terrore. Tra i titolari di farmacia della città c’è anche l’ipotesi di intraprendere iniziative di protesta più eclatanti per avere finalmente l’attenzione dovuta ad un problema che non è solo di ordine pubblico, ma anche sociale.

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Annientati gli interessi per la politica e per lo studio; sedate le spinte critiche, stroncate le velleità sovversive. L’operazione segreta ‘Blue Moon‘ aveva raggiunto i suoi obiettivi. Da quel momento una o più generazioni saranno totalmente tagliate fuori dal dibattito, dal confronto e dallo scontro politico in atto nel Paese; in parte verranno emarginate per sempre, perderanno visibilità, diventeranno appunto “invisibili”.

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All’inizio degli anni ’90 il consumo di eroina ha già valicato il suo apice. Nella cerchia di ogni italiano c’è qualcuno segnato dal problema: figli propri o figli di amici, conoscenti, quel vicino di casa sempre più pallido, il parente quasi irriconoscibile, il compagno di scuola sempre assente, l’amico, la fidanzata, il collega di lavoro. La società italiana tradisce il suo affanno: da una parte migliaia di ragazzi folli e schiavi, famiglie irrimediabilmente distrutte. Dall’altra comunità di recupero cresciute come funghi, ognuna con i suoi metodi, tutte con il loro carico di dolore e speranze. In mezzo la politica volutamente e maledettamente lenta rispetto alle dimensioni dell’emergenza.

Da PATRIA 1978 – 2010 di Enrico Deaglio (il Saggiatore)

1984 | In Italia si calcola che, ogni tanto o molto spesso, mezzo milione di persone, quasi tutte giovani, si iniettino eroina nelle vene. Mille, più o meno, muoiono ogni anno per overdose. Le città sono popolate di zombi alla ricerca di una dose, le farmacie non hanno siringhe a sufficienza, per cui una siringa viene usata, da diverse persone, innumerevoli volte. Non c’è famiglia, non c’è gruppo di amici che non abbia una storia da raccontare. La sanità pubblica risponde con i Sert, centri che offrono sostegno psicologico e metadone, un succedaneo dell’eroina che, assunto in dosi scalari, porta lentamente alla dissuefazione. Le leggi sono di fatto imbelli. Una minoranza ragionevole e libertaria osserva che se la droga fosse legale, svanirebbe la sua convenienza per le mafie che la producono e la vendono. Decine di preti fondano “comunità terapeutiche”, sostanzialmente cascine di campagna riadattate in cui i ragazzi tossicodipendenti vengono tenuti fuori dalle tentazioni della città. Il governo prende a finanziarle. E’ in questo panorama che emerge Vincenzo Muccioli.

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Un omone, senza particolare cultura, ex albergatore di Rimini che possiede quindici ettari di terreno su una collina, San Patrignano… La sua terapia non ha nulla di scientifico, ma è brutale: detenzione per i ragazzi, sottomissione ai suoi voleri di capo. Per salvarli dal bisogno di eroina, li incatena, li rinchiude in canili e porcilaie, li picchia, lancia anatemi, li fa lavorare nei campi gratis.



I giornalisti più coraggiosi si interessano al fenomeno. Celebre, in quegli anni, un servizio della Rai firmato da Joe Marrazzo, un documento sconvolgente nel quale i volti e i dialoghi dei giovani, che gravitavano su Verona per bucarsi dietro piazza Erbe, al pozzo di vicolo Mazzanti, erano parte della storia quotidiana della città. Si trattò, probabilmente, del primo ‘buco’ in diretta, un salto al 1980 quando Verona venne ribattezzata la “Bangkok” italiana.

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Nella trappola dell’eroina cadono alcuni dei talenti più sensibili di quel tempo. Andrea Pazienza, disegnatore geniale, una vita di meraviglie e di eccessi, matita magica dell’illustrazione, provocatore fantasioso, la voglia di vivere stroncata da un’overdose a 28 anni, quando è già un mito.

Mario Schifano, artista tra i più stimati, cade nella dipendenza dall’eroina e per un breve periodo viene rinchiuso in un manicomio.

Lilli Carati, icona del genere sexy e protagonista di commedie di successo e film di qualità. Ma oltre al cinema, gli anni 70′ e ’80 rappresentano per l’attrice la caduta nell’abisso, il periodo in cui comincia a drogarsi in modo compulsivo:

Le mie vicende sono il risultato degli anni ’70, di certi ambienti”, aveva spiegato in un’intervista. “La droga leggera era considerata un modo di essere. E io ero debole. Passare all’eroina è stato facile. Complice soprattutto un viaggio di Natale in Thailandia: lì ti riempivano di roba”. E ancora a ‘Vanity Fair’: “Giravo i porno per avere i soldi e comprarmi la droga. Mi facevo di eroina, cocaina, tutto”.

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Lilli Carati ha lasciato questa terra il 20 ottobre 2014 dopo una vita estrema e dolorosa segnata da recuperi e cadute, tentativi di suicidio e malattia.



Finisce nel gorgo della droga pesante anche Carlo Rivolta, giornalista tra i più puri e promettenti della sua generazione. Professionista nel 1971, a soli 22 anni, Rivolta colleziona collaborazioni con ‘Epoca, ‘Paese Sera (con Sandro Curzi vicedirettore), ‘il Manifesto, ‘Radio Città Futura, ‘la Repubblica‘, ‘Lotta Continua‘.



Dal libro Ali di Piombodi Concetto Vecchio (Edizioni Bur 2007)

“Un giorno, maggio del 1981, di ritorno da uno dei suoi trip, Carlo Rivolta racconterà a Enrico Deaglio, suo direttore a ‘Lotta Continua‘, di Fasano, nelle Puglie, dove, partendo dalla Calabria con la sua ragazza, ha scoperto un mercato di spaccio a cielo aperto. Propone un pezzo in terza persona, in realtà l’esperienza descritta è capitata proprio a lui. E’ un reportage che vale la pena di riproporre per intero. E’ una lezione di giornalismo.

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Una pagina di cronaca palpitante, coraggiosa e cruda. Carlo Rivolta intuisce il disegno, all’epoca ancora occulto, che regolava il traffico di eroina.”

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Una gita a Fasano, così come me l’ha raccontata un ragazzo romano in villeggiatura nel Sud

Eravamo in due, io e la mia ragazza, e in quel fottuto paesino calabrese non riuscivamo a venire a capo della situazione. La roba, in un paesino piccolo che vive di vino e gazzosa, non sanno manco cos’è. Era il secondo giorno di rota (crisi di astinenza ndr), e mentre la ragazza che era con me reggeva, stringendo i denti, spingendosi sempre più vicina al caminetto nella speranza di sconfiggere i brividi, invincibili, che vengono da dentro, io ero arrivato proprio allo stremo. Mi sembrava assurdo che avendo i soldi, avendo un’automobile, fosse impossibile riuscire a trovare l’ero. Mi sono ricordato di aver letto su un giornale che nelle Puglie c’era un paesino, Fasano appunto, che è una sorta di regno di Bengodi per chi si fa.

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E’ stato così che ho letteralmente trascinato fuori di casa la mia ragazza, L’ho spinta a saltare in macchina. Lei protestava, che tanto quella voce che avevo raccolto poteva essere tranquillamente una fantasia. La strada è stata lunghissima, 150 chilometri che sembrava non dovessero finire mai, e con l’idea che magari era tutta una ‘sola’ e arrivato lì avrei trovato un bel niente, oppure m’avrebbero fregato, dandomi polvere di muro anziché roba.

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A Fasano ci siamo arrivati verso le sette di sera, il sole era appena tramontato. Lungo la strada avevamo preso su due autostoppisti, facce anonime, capelli lunghi, potevano saperne qualcosa, darci una dritta. L’unica cosa che abbiamo ottenuto è stata l’indicazione di un bar (si chiamava, forse ‘Aquila’). Io già mi sentivo meglio solo all’idea che si potesse finalmente trovare un po’ di ero. Arrivati davanti al bar, ho inchiodato i freni e io e la mia compagna di avventure – sventure, che aveva diviso con me tante situazioni drammatiche, per nulla intimidita dall’essere l’unica donna in un bar di soli uomini, siamo entrati nel locale. Tanto per essere sicuro, punto subito su quelli che il mio naso mi faceva fiutare come tossicomani. C’è un talento speciale che fa sì che ognuno riconosca l’altro. Dopo due tentativi andati a vuoto, mi hanno presentato un ragazzino che lavorava per un pusher, ed era un tipo preciso. Ma non si fidava troppo. Come sempre chi comanda è chi c’ha l’ero. E quello continuava ad esitare e a non muoversi mai, non si voleva decidere. E’ stato a questo punto che ho scoperto il braccio e gli ho fatto vedere le vene segnate, che non c’era più spazio neanche per un’altra pera soltanto.

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Quel gesto, quella manica tirata su, ci hanno fatto rischiare di brutto. Dopo neanche tre minuti è piombata in piazza la ‘madama’. Siamo scappati, noi in macchina, lui in motorino. L’ho incontrato più tardi. Aveva portato qualche busta. Eroina di primissima qualità. La strada del ritorno è stata leggera e aerea. Sembrava finalmente di aver preso pace. E invece, come sempre, ci ha tradito l’ingordigia: il giorno dopo eravamo di nuovo a Fasano. Altre volte ancora, ho passato la giornata tra il paese e la grande selva, rifugio preferito di tutti quelli della zona che si fanno. Così ho cominciato a capire come stavano le cose. Il traffico è gestito dalla malavita, che usa dei piccoli corrieri per piazzare l’eroina al dettaglio. Questi pesci piccoli sono perennemente in giro per il paese, in macchina, sulle moto. Così non fai più di tre passi che incontri uno che vende l’eroina e, senza possibilità di dubbio, si tratta di eroina migliore di quella che vendono a Roma. Così il paese si divide tra quelli che vivono, crescono e prosperano intorno a questo traffico, e quelli che tengono la bocca cucita, perché hanno paura, per se stessi e per le loro famiglie.

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Fasano è un paesino piccolo, tutto bianco, un paese tipico della zona compresa fra Brindisi e Taranto. Sotto al paese, ai piedi del colle, il mare che si anima e si popola di turisti solo in estate. Per il resto dell’anno il grande gioco della città sono i traffici illegali. L’eroina per esempio è così pura perché arriva al largo di Brindisi, dove la raccolgono le motovedette dei contrabbandieri. E’ il secondo scalo: quello che il mercato palermitano non è riuscito ad assorbire arriva tutto qui, con le navi. Dietro c’è il solito giro di miliardi. Poi ci sono i rapinatori, la prostituzione e così via. Tutto è guardato con indifferenza da polizia, carabinieri e finanza. Un’incursione ogni tanto come mi ha raccontato il ragazzetto che aveva trovato la roba per noi. Una decina di persone spariscono per un po’ di tempo: in galera. Li rimettono fuori quasi subito, perché sono gente come me. Gente che si arrangia per trovare le ventimila per una busta , e che, per ‘mantenersi’ ha bisogno di vendere a loro volta. Ai capi, ai pesci grossi, a quelli che hanno fatto del paese il deposito permanente dell’eroina destinata alle Puglie, alla Basilicata e un po’ alla Calabria (laggiù c’è Crotone, altro porto d’attracco della roba), nessuno ha mai pensato.

La scena aperta della droga a Platzspitz, fotografia del 1990

“Non gli importa nulla di chi tira le fila del traffico? Non sono al corrente della vastità di questo traffico? Non sanno che a fare da ‘cavalli’ sono solo ragazzini di 18 anni o poco più? Non hanno mai pensato che un’eroina così pura, da restarci secchi per overdose senza troppe difficoltà, può addirittura essere raffinata nella zona? Persino un miserabile drogato come me fiuta del marcio in questa tranquilla malavita”. “Adesso – conclude il mio informatore – tutti staranno buoni e zitti per un po’. Poi a Fasano tutto ritornerà come prima, nella sua splendida e miserabile illegalità”.    

Carlo Rivolta muore a Roma, dopo una lunga agonia, nella notte tra il 16 e il 17 febbraio 1982. Sei giorni prima, durante una violenta crisi d’astinenza, aveva rotto la finestra di casa, in Via dei Prestinari, ed era volato in strada. Aveva 32 anni.

LE CURVE AVVELENATE

Brano liberamente tratto da: “I RIBELLI DEGLI STADIdi Pierluigi Spagnolo – Ed. Odoya 2017

CALCIO: ROMA-LAZIO; ALTRI DUE ACCOLTELLATI, NON SONO GRAVI

Nelle curve degli stadi, tra gli ultras del calcio, circola anche tanta droga, di tutti i tipi. Sugli spalti si verifica quello che avviene nelle piazze, nelle università, ai concerti e nei luoghi di aggregazione di un’intera generazione. Tra il 1974 e il 1975 l’eroina comincia a comparire sul mercato illegale italiano in grande quantità. Anche la cocaina, la marijuana e l’hashish iniziano a diventare molto diffuse tra i giovani. Le siringhe usate dai tossici si ritrovano ogni mattina in giardinetti, portoni, sottopassaggi delle stazioni. Sui sedili malconci dei treni locali, sulle spiagge. Le “spade” vengono abbandonate ovunque, creando allarme sociale. Negli anni Ottanta le morti per overdose si moltiplicano, diventano un pegno quotidiano da pagare alla diffusione dell’eroina. Le strade si riempiono di “zombie” in cerca di spiccioli per bucarsi. Nel cuore degli anni Ottanta, le piazze e i giardinetti delle grandi città, da Milano a Bari, da Torino a Roma, da Bologna a Palermo, diventano dei mercati a cielo aperto. L’eroina diventa una piaga sociale, che si diffonde anche tra i ragazzi delle curve. Molti ne pagheranno le conseguenze nel corso degli anni.

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Le droghe, dalle canne fricchettone degli anni Settanta, alle droghe sintetiche degli ultimi tempi: sono tutte passate dalle curve” spiegherà il giornalista Roberto Stracca sulle pagine del Corriere della Sera.

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Suicida con la droga. Dopo l’hashish e gli allucinogeni, oggi gli spacciatori smerciano la terribile cosa bianca” titola il quotidiano La Stampa il 4 aprile 1974, in una delle prime inchieste sul fenomeno.

“Sino al 1972 il problema della droga, in Italia, si basava prevalentemente su prodotti a base di anfetamina. Nei paesi scandinavi e in quelli anglosassoni, ma soprattutto negli Stati Uniti, le tossicomanie hanno raggiunto proporzioni paurose”

si legge nell’articolo del quotidiano torinese. Lo spaccio e il consumo di droga in Italia subiscono un cambiamento epocale proprio a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. In quel periodo il consumo di eroina si concentrava soprattutto tra gruppi di giovani che erano espressione di una cultura antagonista. Con l’ingresso negli anni Ottanta, l’uso di questa sostanza coinvolse anche altri gruppi di estrazione sociale diversa, per lo più appartenenti alle classi più disagiate della società, compresi, tra gli altri, adolescenti, studenti, operai, impiegati, professionisti.

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La droga, come detto, invade la società italiana e si diffonde anche nelle affollatissime curve degli anni Ottanta. Non potrebbe essere diversamente, se si torna al concetto degli stadi come specchio della società che c’è fuori dai cancelli.

L’eroina semina morte e violenza. Un episodio emblematico sconvolge Genova. La data è il 3 aprile 1982. Il campanile della chiesa d’Albaro, il quartiere più altolocato e chic della città, annuncia le tre, quando risuonano quattro spari. In via all’Opera Pia, un vialetto stretto da eleganti edifici, muore Roberto Rossano, 22 anni, soprannominato Cipolla, tossicodipendente, piccolo spacciatore con precedenti per scippi, tra i capi più temuti della mitica Fossa dei Grifoni, il gruppo (all’epoca) più oltranzista del tifo genoano. A sparare è Dino Calza, 17 anni, fragile rampollo di una dinastia di imprenditori della nautica, risucchiato nel vortice dell’eroina. “Ho ucciso Cipolla – confesserà ai Carabinieri – perchè continuava a ricattarmi per un debito di droga”. Condannato a 10 anni e mezzo, scarcerato dopo meno di 4 anni, Dino Calza si è ucciso l’8 aprile 2004, malgrado una fugace e illusoria rinascita con una moglie e una figlia adorata. Aveva 39 anni e quel passato di eroina e violenza, alla fine, lo ha sconfitto. Storie e controstorie come questa si sono replicate decine di volte, in diverse città e in ambienti simili. Le cronache di quegli anni ne sono piene. 

Eroina, cocaina e “sballi” vari entrano persino nei testi delle canzoni che gli ultras cantano allo stadio, tra amara realtà e semplice desiderio di apparire ancora più trasgressivi.

Cominciamo il lunedì, con l’Lsd. Prendiamo anfetamine fino al mercoledì. Rompiamo e ci sballiamo e a noi piace così, ma ci sconvolge più la Lazio in Serie B. Anche il Papa fumerà, se il Commando conoscerà, e sconvolto si farà, eroina con gli ultrà. Oppio, marocco e droga a volontà, e droga a volontà nella curva degli ultrà

cantano quelli del Commando Ultrà Curva Sud della Roma, sulle note di Yellow Submarine dei Beatles, non senza una buona dose (è proprio il caso di dirlo) di goliardia e gusto di provocare. “Nè gnugna (l’eroina, in dialetto) nè bagna (la cocaina), Marulla la canna” scrivono invece gli ultras cosentini, quasi giocando con il nome del bomber Luigi Marulla, l’idolo dei rossoblù negli anni Ottanta, scomparso a luglio del 2015. Nelle curve di quegli anni compaiono striscioni di gruppi che già nella terminologia fanno riferimento alla dipendenza dagli stupefacenti oppure alla passione per gli alcolici.

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Ecco i Nuclei Sconvolti a Cosenza, i Freak Brothers a Terni, la Brianza Alcolica dell’Inter, gli Alcool a Bari, il Gruppo Brasato del Milan, gli Smoked Heads a Campobasso, le Menti Perse del Vicenza. Su molte bandiere sventola il simbolo della marijuana, tanti anche i riferimenti alla Giamaica e alla Colombia.


FACES OF DRUG, VOLTI TOSSICI


Disfacimento fisico, ma non solo. Nei paesi occidentali (il blocco sovietico-comunista è immune dalla piaga) migliaia di tossicomani assistono impotenti alla cremazione morale della loro essenza. Nulla è più importante della dose quotidiana. Per l’eroina venderebbero madri, sorelle, amici, figli. Per il buco vendono se stessi. Negli anni ’80 schiere disperate di ragazzi e ragazze ingrossano la manovalanza del crimine e della prostituzione.

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Rubano nelle loro case, svuotano i patrimoni di famiglia, vendono oro e gioielli, televisori e vestiti. Vendono i loro corpi. Diventano scippatori, truffatori e bugiardi cronici. Gli eroinomani mentono sempre: “mi faccio l’ultimo buco, domani smetto” o “posso smettere quando voglio” sono le frasi più abusate che propinano ogni giorno ad educatori e genitori affranti. Recuperano brandelli di umanità solo quando sono “fatti”. Con l’eroina in corpo tornano affettuosi, illudono, si pentono. Promettono, ma non manterranno. E’ il crollo di una generazione.

EROINA, IL ‘ TOXIC PARK ‘ DI ZURIGO

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Tra gli Anni ’80 e ’90, per circa un decennio, la ricca e tranquilla Svizzera scoprì, al suo interno, l’orrore delle cosiddette ‘scene aperte’, aree pubbliche popolate da migliaia di morti viventi accomunati da un solo famelico demone: il buco di eroina. A pochi metri dalle banche e dalle vetrine scintillanti della Bahnhofstrasse di Zurigo, la droga scorreva a fiumi. Platzspitz, Needlepark (il parco delle siringhe), Letten, il ponte del Kornhaus, erano i gironi infernali frequentati dai tossicomani di mezza Europa.

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Zurigo, fu per alcuni anni, soprattutto tra l’89 e il ’95, il lugubre palcoscenico della dannazione. Una ribalta animata da 4mila drogati con la manica del giubbotto arrotolata sulle braccia viola piagate dalle continue iniezioni. Di fronte agli uffici dei banchieri e dei brokers, un’umanità dolente in coda, a qualsiasi ora del giorno, impegnata nel febbrile rituale del buco: sulle fiamme delle candele incollate su cassette di frutta rovesciate, oscillavano migliaia di cucchiaini anneriti e tremolanti con le dosi da sciogliere per l’imminente puntura. Sequenze di uno scempio descritte, in quegli anni, dai rari cronisti che si addentrarono nella bolgia. I passaggi delle siringhe, il buco, la breve tregua e la ricerca spasmodica della razione successiva. Qualcuno barcollava sfatto e seminudo, con l’ultima siringa conficcata nell’avambraccio.

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Centinaia di siringhe, lacci e fogli di stagnola, fradici di sangue, abbandonati sui marciapiedi. Istantanee di morte nel cuore di Zurigo, la capitale della finanza. Al Platzspitz, ribattezzato ‘il ghetto‘, i tossicomani ricevevano gratuitamente siringhe, ed assistenza in caso di overdose. Il buco non era legale, ma era comunque tollerato per cercare di superare l’emergenza Aids ed affrontare il problema droga in un modo diverso da quello repressivo.

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I risultati furono, sotto il profilo sanitario, incoraggianti: il contagio da Aids scese del 20 per cento, i morti a meno di 40 all’anno. Tuttavia la “liberalizzazione assistita” ebbe anche un effetto negativo: le siringhe distribuite ogni giorno, da 2mila, arrivarono ad essere 12mila, mentre i frequentatori divennero, all’85 per cento, extracittadini. Così Platzspitz degenerò rapidamente in un cancro d’importazione, infestato da microcriminalità e violenza tra bande. Una fabbrica di perdizione.

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La Svizzera, adottando – primo paese al mondo – un programma di somministrazione controllata dell’eroina, riuscì comunque a cancellare la vergogna: il provvedimento fondamentale per spianare il cammino alla nuova politica fu la chiusura, il 14 febbraio del 1995, del “supermercato internazionale della droga” del Letten, che segnò la fine dei grandi ammassi all’aperto di tossicomani e spacciatori.

La polizia al Letten nel 1994, (Fonte Keystone)

A Berna, Basilea, e più tardi nella stessa Zurigo, vennero allestiti i primi «Fixerräume» (locali di iniezione) dove i tossicomani potevano iniettarsi le dosi in condizioni igieniche accettabili.

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Oggi – a decenni di distanza dalla stagione degli sgomberi e delle chiusure – Platzspitz è un tranquillo parco, un’oasi di verde nel cuore della città, frequentato soprattutto da famiglie con bambini piccoli. Anche il Letten – sulle rive della Limmat – ritrovo abituale per gli appassionati dello skateboard, riscopre d’estate la sua vocazione balneare.

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I luoghi della perdizione e dell’abbruttimento, sono diventati, per una sorta di trapasso rovesciato, gli angoli dello sport e del benessere. Dove ieri si trascinavano ragazzi dai lineamenti stravolti, oggi si ostentano fisici palestrati e si sfoggia eleganza.

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CHRISTIANE F.

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NOI, I RAGAZZI DELLO ZOO DI BERLINO

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Berlino, anni ’70. Nel quartiere dormitorio di Gropiusstadt i ragazzi imparano solo a rompere e a distruggere quello che c’è, quasi a richiamare l’attenzione su quello che manca. Christiane Vera Felscherinow ha 12 anni, un padre violento e una madre spesso fuori casa. Inizia a fumare hashish e a prendere Lsd, efedrina e mandrax. A 14 anni per la prima volta si buca di eroina e comincia a prostituirsi. E’ l’inizio di una discesa nel gorgo della droga da cui risalirà faticosamente dopo due anni, per poi ricadere altre volte ancora. La sua storia, raccontata ai due giornalisti del settimanale ‘Stern‘, Kai Hermann e Horst Rieck, diventa un caso dirompente.

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Agli articoli seguono un libro e, nel 1980, un film diventato immediatamente un classico del dolore e dell’orrore. Christiane F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlinodiretto da Uli Edel, ha l’effetto di un terremoto. Spettatori sotto choc. Malori nelle sale. Rigurgiti di insostenibile disagio di fronte alla narrazione della discesa agli inferi di una tossicomane – bambina.

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Il primo buco dopo un concerto di David Bowie (il cui cameo, assieme alla colonna sonora, sono elementi determinanti per il successo planetario del film), le crisi di astinenza, il tunnel della prostituzione, la disfatta di una generazione: quella nata nei primi anni ’60.



L’opinione pubblica e la società del benessere, che per un decennio avevano trattato il problema eroina alla stregua di un reato, sono costrette ad aprire gli occhi. Pugni dentro la coscienza di ciascuno. L’equazione drogato = delinquente inizia a sfaldarsi.

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Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino’, è un film iper-realista che ebbe la forza di scuotere alle fondamenta l’indifferenza. Molte delle comparse erano dei veri tossicodipendenti berlinesi. Gli altri interpreti furono selezionati nelle scuole o ingaggiati nelle strade. Per la loro minore età e per il fatto di essere coinvolti in scene crude e notturne, ebbero bisogno del consenso dei genitori. Solo l’esordiente Natja Brunckhorst, interprete ispirata della vera Christiane, intraprese, in seguito, la carriera di attrice.


Nella foto sotto a sinistra Natja Brunckhorst in una scena del film; nella foto a destra attrice adulta e affermata
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Definita ‘il più grande spot a favore del consumo di eroina’ l’opera di Uli Edel fu bersagliata da critiche feroci e condanne senza appello. Secondo i critici, ‘Christiane F.’ glorificò l’estetica dell’eroinomane, un’accusa che come vedremo, ricadrà, anni dopo, sul mondo del fashion.

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Ricordo ancora le proiezioni dell’epoca. Un altro mondo, un’altra Italia. Il pienone di ragazzi e ragazze nelle sale. Molti di loro erano eroinomani. Altri, tanti altri, lo sarebbero diventati dopo la visione del film.

Lo psichiatra Vittorino Andreoli, in un saggio del 2004, pubblicato nelle riedizioni BUR del libro, scrive:

Christiane F. è un documento storico, una fotografia realistica di un teatro di vita che dominava gli anni dal ’75 al ’79 non solo a Berlino, ma in tutta l’Europa ricca. L’Europa dell’eroina e dunque della droga che porta alla tossicodipendenza e alla crisi di astinenza che spinge a continuare in una meccanica diabolica che sa di fine. Christiane comperava ogni mattina la ‘Bild Zeitung’. Per vedere i morti di droga e a poco a poco ritrova tutti gli amici e pensa a quando anche lei occuperà due righe. 

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Il volto della vera Christiane F. – Christiane Felscherinow

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La vera Christiane con David Bowie

Giunge fino al ‘buco ultimo’, sola, in un cesso vicino allo zoo di Berlino (Bahnhof Zoo), e si spara una dose mortale. Sopravvive, e per questa fatalità (la sopravvivenza) racconta la sua storia, forse per parlare anche di quella di chi è morto e di cui non rimane traccia…Vengono in mente l’Inferno di Dante, le storie narrate da Pasolini in Ragazzi di vita”.

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Il libro svela le ingannevoli sirene che animano e minacciano l’adolescenza: la discoteca, le nuove compagnie, i vizi comuni, le esperienze ‘forti’. Le parole e i pensieri della ragazzina tedesca rappresentano il corredo psicologico comune a milioni di tredicenni che si affacciano alla vita. Un patrimonio emotivo in cui coesistono grande forza e pericolosa debolezza; incoscienza e stupore: una tempesta di pulsioni che condiziona gesti e rapporti. ‘Christiane F.’, insomma, è un documento che serve alla memoria e aiuta a comprendere le storie analoghe di oggi.

Così, Christiane racconta il suo primo impatto col ‘Sound’, il luogo mitico dello sballo, “la musica da orgasmo, i tizi un sacco stupendi”:

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Andammo al Sound. Quando fui dentro mi prese quasi un colpo. Non aveva niente a che fare con quello che mi ero immaginata. La “Discoteca più moderna d’Europa” era una cantina con un soffitto bassissimo. Era rumorosa e sporca. Sulla pista da ballo ognuno per sé andava al tempo di musica. Non c’era assolutamente nessun contatto tra le persone. C’era un tanfo tremendo. Ogni tanto un ventilatore rimescolava l’aria viziata“.

Ma per Christiane, quel luogo, all’apparenza sgradevole, rappresenta l’iniziazione

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A poco a poco mi abituai al Sound. Dovevo andarci da sola. Il venerdì pomeriggio andai in farmacia e mi comprai un pacco di efedrina per 2 marchi e 95. Si poteva comprare senza ricetta. Adesso non prendevo più solo due efedrine, ma quattro o cinque. Quel giorno scroccai un chilom. Andai alla stazione della metropolitana e stavo proprio sballata bene. Stavo sospesa semplicemente in questo bellissimo mondo d’estasi. Nella metropolitana trovai eccitante che ad ogni fermata salisse gente che si vedeva benissimo che andava al Sound. Perfetti come si presentavano: capelli lunghi e stivaletti con le suole alte dieci centimetri. Le mie star, le star del Sound. Non avevo più strizza ad andare da sola al Sound. Ero proprio sballata bene”.

Il giro del Sound e l’eroina

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“L’eroina entrò come una bomba. Anche nel nostro gruppo si parlava ora continuamente di eroina. In fondo erano tutti contrari. Avevamo abbastanza esempi di gente fatta a pezzi dall’ero. Ma poi uno dopo l’altro provavano il primo buco e i più ci rimanevano incastrati. L’eroina distrusse il gruppo. Quelli che già ci avevano provato entravano subito a far parte di tutt’altro giro. Avevo un orrore tremendo dell’ero. Quando si trattava di ero mi tornava improvvisamente in mente che avevo solo tredici anni. D’altra parte sentivo di nuovo ammirazione per i gruppi dove ci si bucava.

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Per me questi gruppi erano gruppi che stavano più avanti, i bucomani ci guardavano, noi fumati e impasticcati, con un disprezzo incredibile. L’hashish loro lo chiamavano la droga dei bambini. Mi deprimeva pensare che nel gruppo dei bucomani, nel giro vero, non sarei mai entrata, cioè che per me non c’era più modo di andare avanti, perché avevo un vero orrore di quella droga, che portava alla fine”.

Christiane e l’eroina. La prima sniffata

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“Il concerto di David Bowie, nella mia immaginazione di allora, rappresentava uno degli avvenimenti più importanti della mia vita. Il giorno del concerto mi incontrai con Pollo nella Hermannplatz. Lui era lungo lungo e magro magro. Che era così non me ne ero mai accorta. Glielo dissi. Mi disse che pesava solo 63 chili. Si era pesato da poco all’emoteca. Pollo si guadagnava una parte dei soldi che gli servivano per la roba facendo il donatore di sangue.

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Malgrado avesse l’aspetto di un cadavere e le sue braccia fossero crivellate dai buchi, e malgrado i bucomani abbiano assai spesso l’epatite, per le donazioni di sangue lo accettavano sempre…Quindi come un lampo mi venne un pensiero: adesso che hai rimediato i soldi per la roba, per lo meno ti va di provarne un po’. Vedere se questa roba è davvero così buona, come sembra a guardare i bucomani che dopo una pera hanno un’aria così felice. Mi ero preparata sistematicamente ad essere matura per l’ero…Io non sarò mai così dipendente. Mi so controllare benissimo. La provo una volta e poi chiudo”.

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“Tirai immediatamente la polvere su per il naso. Tutto quello che sentii fu un gusto amaro, pungente. Dovetti reprimere un conato di vomito e poi risputai fuori una parte della roba. Ma poi l’effetto arrivò rapidissimo. Le membra mi si fecero pazzescamente pesanti, ma nello stesso tempo erano anche leggerissime. Ero terribilmente stanca e questa era una sensazione terribilmente eccitante. Tutta la merda era di colpo sparita. Mi sentivo bene come non mai. Era il 18 aprile 1976, un mese prima del mio quattordicesimo compleanno. Questa data non la dimenticherò mai”.

Christiane e l’eroina. Il primo buco

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“Lo volevo a tutti i costi. C’era un altro bucomane nella toilette che si era appena fatto una pera. Un tizio completamente distrutto, del tutto a pezzi. Gli chiesi se poteva prestarmi i suoi attrezzi. Lo fece. Ma a quel punto avevo un orrore folle di infilzarmi l’ago nella vena sull’avambraccio. Ci provavo, ma non ci riuscivo affatto, benché avessi visto farlo spesso agli altri…Dovetti chiedere aiuto a quel tizio rovinato. Lui capì subito che lo facevo per la prima volta. Disse che lo trovava una merda, ma poi prese la siringa. Siccome le mie vene non si vedono ebbe delle difficoltà a centrarne una.

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Dovette infilzare l’ago tre volte prima di aspirarne un po’ di sangue e sapere così che era in vena. Continuava a borbottare che lo trovava una merda e mi sparò dentro tutto il quartino. L’effetto arrivò davvero come una martellata. Ma un vero orgasmo me lo ero immaginato diversamente. Subito dopo ero completamente abbruttita. Non percepivo quasi più nulla e non pensavo a niente”.

L’ULTIMA CHRISTIANE



HEROIN CHIC, IL MITO DI GIA CARANGI

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La relazione pericolosa tra il mondo del fashion e la droga esplode all’inizio degli anni ’80, quando la modella americana Terry Broome, alterata dalla cocaina, uccide nella ‘Milano da bere‘ il playboy Francesco D’Alessio. Una vicenda dalle tinte forti che suona come una conferma. Tutti sanno da tempo che ero e coca scorrono nei backstage delle sfilate, ma nessuno nell’ambiente prende davvero le distanze. Agenzie, stilisti e uffici stampa non fanno nulla per allontanare i sospetti.

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La trasgressione e il culto dell’eccesso sono fattori di formidabile attrazione, cliché sinistramente glamour, appena scalfiti dai cori di condanna. Sulle passerelle domina lo stile heroin chic, lo stile da ‘eroinomane chic‘, imposto dai creativi ed esaltato da indossatrici-fenicottero, sempre più magre ed emaciate, diafane e tormentate.

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E’ terribilmente grottesco, ma anche l’eroina vanta una sua estetica. Le confidenze sul ‘vizio’ si moltiplicano e finiscono per rafforzare l’immagine di un mondo scintillante e maledetto. Modelle schiave dell’eroina, fotografi morti di overdose, spacciatori fidati che si muovono tra le quinte, come fossero parrucchieri o truccatori. Polvere di stelle.

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Nel maggio del ’94 Andie Mac Dowell, ex modella e oggi diva di Hollywood, ammette di aver fatto abbondante uso di cocaina quando sfilava.

La usavo per non ingrassare e restare sempre bella. Ecco perché soffro a vedere quelle ragazzine emaciate sulle riviste e in passerella. Altro che dieta: si fanno di eroina“.

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Nel ’96 Zoe Fleischauer, modella appena ventenne, racconta al prestigioso ‘Newsweek i tre anni da incubo passati a iniettarsi eroina a Milano, Parigi e New York:

Lavorare come modella è il nulla. Forse la droga colmava questo vuoto. Quando mi bucavo lo facevo sui piedi, per non rovinarmi le braccia. Nel nostro mondo circola molta droga“.

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Siamo tutte drogate” confessa in quegli anni Kirsy Hegel, ragazza copertina newyorchese. “E’ una cosa che viene fatta alla luce del sole. Le indossatrici siedono al tavolo del trucco, dietro le quinte di una sfilata, e sniffano sino a saziarsi.

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A quasi tutte le maggiori sfilate girano spacciatori per soddisfare le nostre richieste“, racconta Kirsy. Ma è l’eroina, la droga che va per la maggiore: “Alcune di noi la prendono per raggiungere quell’aspetto emaciato e di magra sofferenza che tanto attira. La maggior parte sniffa, ma ci sono modelle che non hanno alcuna remora nel bucarsi”.

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Il modello di riferimento per le più giovani è Gia Carangi, l’indossatrice italo-americana uccisa dall’Aids nel 1986 dopo anni di eroina. “Guardiamo Gia e pensiamo: era favolosa. E’ duro ammetterlo, ma anche la sua autodistruzione era sexy“.

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Tra il 1977  e il 1986, lo ‘Studio 54‘ è la mecca dello star system. Mark Fleischman, co-gestore della discoteca più famosa del mondo, ha raccontato il dietro le quinte del locale nel libro di memorie The Studio 54 Effect. Un viaggio tra sesso, droga ed eccessi. Fleischman rilevò il club nel 1981 perpetuando l’idea dei fondatori, gli imprenditori newyorkesi Steve Rubell e Ian Schrager, di intrattenere le più grandi star, da John Belushi a Andy Warhol, da Liza Minnelli a Bianca Jagger, con feste fantasmagorichea base di champagne, quaalude, orge e cocaina”.

Dal mio punto di vista, lo Studio 54 fu l’epicentro della cultura della droga a New York“.

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La cocaina destinata ai vip era così tanta che Fleischman aveva dovuto assumere un’assistente incaricata esclusivamente di tagliare la polvere bianca in strisce perfettamente uguali, in modo da non scontentare nessuno.

C’erano così tante persone davanti la lunga scrivania, che dovevamo allineare fino a 40 botte di coca. Richiedeva molto tempo perché non potevamo fare dosi impari“.

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E’ in questo ambiente che gravita Gia Carangi, musa di grandi fotografi come Richard Avedon e Francesco Scavullo. Origini italiane, modella tra le più richieste degli anni ’80, bruna e magnetica, orgogliosamente lesbica. In Gia convivono i tratti che connotano molti ventenni di quel tempo.

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Anime fragili, che dopo aver assorbito le scorie del decennio precedente (lo sballo, le collezioni disordinate di esperienze, le inclinazioni ribelli, la cupa violenza) vengono inghiottite dalle luci accecanti dell’edonismo sfrenato, ‘religione’ imperante dei nuovi anni.

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I ragazzi dell’epoca sono costretti a vivere due passaggi: l’uscita, sempre critica, dall’adolescenza e l’ingresso in un decennio votato al culto dell’estetica, al primato dell’apparire sull’essere, dell’artificioso sul complesso. Gli orpelli ideologici entrano in crisi. Un intero sistema di valori e convinzioni viene ribaltato. Effetti di una rivoluzione profonda che in molti ventenni genera disadattamento e disagio. L’eroina, intanto, è sempre lì…pronta ad accogliere e a distruggere.

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Osannata dalle più importanti riviste, da Vogue a Cosmopolitan, ricercata da tutti i più grandi fotografi, Gia Carangi cresce ad ogni flash e con lei anche la sua dipendenza dall’eroina, una prigione che non la lascerà mai libera. Il mondo era il suo palcoscenico e la sua vita un grande ottovolante: feste, droga e sesso. Amava le donne e senza pudore le corteggiava.

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Fan di David Bowie (ancora lui), viveva senza regole rompendo gli schemi e distinguendosi. Il suo modo di posare era un mix travolgente di naturalezza e istinto, che conquistò i guru dell’immagine e del marketing.

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Con Gia nasce e si afferma l’heroin chic, lo stile incarnato e sublimato, anni dopo, da Kate Moss. L’accostamento al vizio non danneggia; anzi, come insegna la vicenda della stessa Kate (immortalata nel 2005 mentre sniffa cocaina), moltiplica gli introiti.

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Ma Gia Carangi, la splendida Gia, va oltre, si abbandona all’eroina. Provata dagli abusi e dagli eccessi, non riesce più a lavorare, si addormenta davanti agli obiettivi, ha continui scatti di rabbia, mentre le sue braccia e il suo volto mostrano i primi segni della dannazione.

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Le attenzioni si affievoliscono, l’ambiente la isola. Una nuova generazione di ragazze è già pronta sul trampolino di lancio. Si chiamano Claudia Schiffer, Cindy Crawford, Naomi Campbell, Kate Moss, Linda Evangelista. Saranno le prime ‘top model’, le regine delle sfilate, le star più pagate di sempre.

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Gia Carangi, intanto, precipita sempre di più nell’abisso. Minata dall’Aids verrà trasferita in ospedale, seguita dalla madre che la proteggerà da tutto e da tutti preservando il suo ricordo. Gia Carangi, la tormentata mannequin che ha spalancato le porte a tutte coloro che sono venute dopo, morirà a soli 26 anni, il 18 novembre del 1986.



ANNI ’70, L’ AFFRESCO

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Un mirabile scritto di Alessandro Schwed (tratto da ‘IL SECOLO XIX’ del 6 marzo 2007) restituisce atmosfere, linguaggi, simboli e scenari di quegli anni inquieti:

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“A me il ’77 cominciò nel ’76. A luglio mi trovavo all’isola di Mykonos – barcuzza di roccia sull’Egeo, con sopra una ciurma di mercanti del Peloponneso col Rolex finto; poi giocatori di scacchi; omosessuali di tutto il mondo, e hippies in arrivo dall’India che  prendevano il respiro prima di tornare a casa, ognuno a fare il bagno e mangiare pesce fritto con un bicchiere di Renzina, un mondo marinaro a poche dracme.

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Io ero arrivato con un mio amico, un ex cultore di Gramsci  sulla via di Kerouac, lui aveva proseguito per la Turchia. Gli dissi: “Dove vai?” Mi rispose: “Adesso vedo“. Io dovevo essere ospite di una ‘pasionaria’ italiana che diceva di amarmi, ma le era passata e stetti dall’altra parte dell’isola, sulla riva dei pescatori, col sacco a pelo sotto a un albero.

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Questa Qui era una specie di ex attrice, protagonista della cultura liberata, l’avevo conosciuta a Firenze tra le elezioni di giugno e la scomparsa subitanea della sinistra extraparlamentare. In quei giorni giravo contento sulla moto senza preoccuparmi della deriva sociale annunciata dal ‘Manifesto‘. Perciò ero fermo davanti alla Facoltà di Lettere e mi pavoneggiavo sul mio Aermacchi 350 rosso, quando passa Questa Qui, con uno di Architettura. Questa Qui aveva i capelli corti, camicia e pantaloni verdi come un ‘barbudo‘ cubano. Mi sorrise chiudendo gli occhi. Non so se dissi qualcosa, in ogni caso lei salì in sella, e mi strinse. Era pacata come un assolo di batteria. Misi in moto.

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Dopo poco, l’oca guerrigliera parte per le Cicladi e mi arriva un telegramma che la devo raggiungere, c’è una luna enorme, stop, bacissimi. Sarebbe bastato bacissimi per diffidare. Quando dopo tre giorni arrivo a Mykonos, lei sta con un chitarrista da tre giorni. La trovo all’ora di cena davanti a casa, sotto un colonnato dorico come si vedono nel Mediterraneo.  

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Lei su un divano di paglia, in piedi un ragazzo zigano, bello, che suona la chitarra acustica come un lampo con le dita. Questa Qui fa: “Ti presento…”, lui nel frattempo suonava come se la chitarra avesse i brividi. Poi, senza una parola, andarono via a piedi nudi per campi e pietre. Si tenevano per mano.

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Decisi di andarmene all’alba…Ci fu un’altra ragazza, così come dopo le tre del pomeriggio vengono le quattro. La chiamarono a Roma per un lavoro: andai via anch’io senza pensare alla tesi in musicologia…pensavo alla solita libertà… A marzo, un giorno, facevo un giro col mio cane giallo, Vaniglia. L’aria era cupa. A Largo Argentina, in mezzo alla folla sui marciapiedi passavano persone con la pistola infilata nei pantaloni e la maglietta a righe come per un molto segreto riconoscimento. Ci fu qualcosa, non ricordo, un’esplosione, o spari, e grida. La gente scappava.

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Presi il cucciolo giallo in braccio, mi pare che mi venisse da piangere. La gente continuava a scappare. Fui al Ponte Garibaldi, si vedeva la sinagoga; sotto c’era un’isola bellissima a forma di nave, e si sentiva sparare. Sul ponte dei ragazzi facevano una barricata. Altri stavano con le facce pallide e dicevano no, no. In terra c’era una ragazza. Era Giorgiana Masi. Morta”.

GIORGIANA MASI: 40 ANNI SENZA VERITÀ

Giorgiana Masi uccisa il 12 maggio 1977 anni durante una manifestazione del Partito Radicale a Roma

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The End

Nel video che segue alcune sequenze del film “LA LUNA“, diretto nel 1979 da Bernardo Bertolucci. Il grande regista affronta i temi della “mancanza” e del rapporto estremo ed incestuoso tra una madre e il figlio eroinomane.



di Fabio Tiraboschi & Nilde CollemaggioGenoa News Chronicle / Io, reporter

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QUEL GIORNO IN PIAZZA ALIMONDA

Piazza Alimonda

di Fabio TiraboschiGenoa News Chronicle / Io, reporter

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Genova, venerdì 20 luglio 2001

In Piazza Alimonda il ‘popolo di Seattle’ piange la sua prima vittima

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Primo pomeriggio. La tensione è alle stelle. Da cinque ore in diverse zone di Genova agiscono, indisturbati, i teppisti del famigerato “blocco nero” una definizione che accomuna realtà spesso assai distanti tra loro (dai gruppi dell’autonomia tedesca, agli esponenti italiani dell’area più estrema del tifo calcistico) e che solo in determinate occasioni uniscono le forze in maniera spontanea, senza alcun accordo organico.

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Con il volto coperto dal ‘mephisto‘ il passamontagna nero, almeno quattromila violenti trasformano la città in un campo di battaglia. Il piano di devastazione si compie rapidamente con gli assalti al carcere di Marassi e alla sede della Polizia Stradale, l’incendio di auto, la distruzione di vetrine, il saccheggio di negozi e supermercati, l’irruzione tra i manifestanti pacifici della ‘Rete Lilliput’.

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Eppure il 19 luglio due relazioni dei Servizi Segreti, trasmesse tempestivamente alla Digos di Genova, indicavano con precisione quale sarebbe stata la strategia del “blocco nero” nella giornata dell’assedio alla Zona Rossa. Il Sisde informava di due riunioni nel corso delle quali gruppi di ‘casseurs‘ avevano deciso di concentrarsi, intorno a mezzogiorno, in Piazza Paolo da Novi. Il giorno dopo l’informativa si rivela esatta; tuttavia le forze di Polizia ‘non riescono’ né a prevenire, né a limitare le azioni violente.

Da Micromega n°2 del 2003 “Portraits: il G8 di Genova” di Massimo Calandri e Pino Petruzzelli

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Salone dell’Ansaldo di Genova – venerdì, 13 luglio 2001, ore 16: E’ in corso la prima riunione operativa tra tutti i funzionari dell’ordine pubblico coinvolti nel vertice internazionale. Direttamente da Roma arrivano l’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola, il Capo della Polizia Gianni De Gennaro e i loro più stretti collaboratori. Ed è proprio in questa occasione che lo “staff dirigenziale romano” decide di relegare ad un ruolo di secondo piano i vertici genovesi delle forze dell’ordine. Questore compreso. “Da questo momento le decisioni le prendiamo noi. Noi e nessun altro”. Tra i presenti viene distribuita l’informativa numero 2143/R, stampata il giorno prima ed ufficialmente redatta dalla Questura di Genova: contiene dati, valutazioni, approfondimenti in materia di ordine e sicurezza pubblica. Tutti i potenziali pericoli in occasione del G8 e come evitarli, o quantomeno contenerli. 

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208 pagine che oggi pesano quintali, perché dentro c’è l’anticipazione di quello che accadrà da lì a poco. In quell’informativa c’è scritto come e quando entreranno in azione i black bloc, quanti sono, da dove vengono, addirittura con quali mezzi arriveranno a Genova, quali sono i loro obiettivi e le loro tecniche di guerriglia. Nei vari capitoli sono descritti anche i pericoli di una “contaminazione”, e cioè di un possibile coinvolgimento di altre frange di contestatori. Insomma, il “prossimamente” di un tragico film che verrà trasmesso neppure una settimana dopo.

In questo clima ha inizio la manifestazione autorizzata dei “Disobbedienti – Tute Bianche“. Migliaia di manifestanti marciano compatti verso la Zona Rossa. La testa del corteo è composta da un gruppo di contatto formato da avvocati, portavoce dei centri sociali e parlamentari pronti a dialogare con polizia e carabinieri. Improvvisamente, a mezzo chilometro di distanza dalle reti metalliche della blindatissima Zona Rossa, l’atteggiamento e la strategia delle forze dell’ordine cambiano.

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Vertice del G8

FOTO | 20/07/2001 – CC e Polizia caricano il corteo del Genoa Social Forum

In via Tolemaide, una strada ad imbuto, scatta la carica di un contingente di carabinieri. La testa e le immediate retrovie del corteo vengono investite da un fitto lancio di lacrimogeni. La dinamica dell’attacco, che purtroppo avrà conseguenze nefaste, viene filmata dalle telecamere dei network e da quelle digitali della rete Indymedia, il circuito del movimento no-global.

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Ma perché venne ordinata quella carica passata alla storia del G8 come una delle cause principali del disastro, l’azione sconsiderata tesa unicamente a cercare lo scontro? Alla domanda rispose Angelo Gaggiano, funzionario di polizia con alle spalle una trentennale esperienza maturata in centinaia di manifestazioni e incontri di calcio ad alto rischio. Quel giorno era il responsabile di zona dell’ordine pubblico, con 500 uomini della polizia e un plotone dei carabinieri. Fu lui – si disse – a ordinare l’attacco al corteo (inchieste successive conclusero, in realtà, che l’attacco a freddo fu deciso autonomamente dai Carabinieri, senza l’ordine della Questura, anomalia senza precedenti nelle procedure di ordine pubblico). Quattordici mesi dopo, in un’intervista pubblicata sul ‘Secolo XIX’ del 12 settembre 2002, ripercorse quei momenti. Di seguito la trascrizione del passaggio cruciale:

Quel giorno, in via Tolemaide – spiega Gaggiano – un gruppo di black bloc si staccò dal corteo e assaltò un distributore di benzina. Stavano cercando di strappare le pompe, scuotevano le colonnine. Era una situazione di rischio enorme: poteva divampare un incendio. Un’esplosione si sarebbe trasformata in un massacro. Per questo ho ordinato ai carabinieri di caricare. Non è vero che la manifestazione era pacifica. Dal corteo continuavano a staccarsi gruppetti: distruggevano tutto nelle strade laterali e poi rientravano nella massa, che non li ha mai respinti”.

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Documento | Carlo Giuliani, in canottiera, poco prima di essere ucciso

Alle cinque del pomeriggio il corteo è ancora bloccato e respinto lungo Corso Gastaldi. Il gruppo di contatto, ormai disperso, non riesce a parlare col dirigente di Polizia responsabile dei reparti dislocati in zona. La battaglia, ormai fuori controllo, cresce di intensità. Tra le fila delle ‘Tute Bianche’ si contano decine di feriti. Alcuni gruppi di dimostranti rispondono alle cariche ed erigono barricate; in via Caffa reagiscono con lanci di sassi.

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FOTO | Genova, venerdì 20 luglio 2001. Giornata delle piazze tematiche. Corteo della disobbedienza civile. Via Casaregis (traversa di via Tolemaide). I manifestanti cercano di utilizzare i cassonetti come barricate. Poco prima, una divisione di Carabinieri ha sfondato la testa del corteo all’incrocio tra via Tolemaide e corso Torino. Riusciti a sfondare le difese dei manifestanti, i Carabinieri rastrellano le strade circostanti, con l’ausilio di blindati lanciati ad alta velocità sui manifestanti. Gli attacchi si susseguiranno per almeno due ore e porteranno all’uccisione di Carlo Giuliani, manifestante 23enne, in piazza Alimonda. Le azioni di repressione da parte dei Carabinieri sono state in seguito definite illegali dai tribunali. I manifestanti arrestati per eventi legati ai fatti di via Tolemaide sono stati assolti in quanto esercitanti il diritto di legittima difesa.

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Due ‘Land Rover’ modello defender dei carabinieri, in ritirata, vengono inseguite fino a Piazza Alimonda. Qui le jeep si fermano, ma mentre una riparte e si allontana, l’altra finisce contro un contenitore dei rifiuti e si blocca; in pochi secondi viene colpita sul lato destro con una trave di legno e una fitta sassaiola.

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Carlo Giuliani, 23 anni, romano di nascita, figlio di un sindacalista della Cgil, si trova ad alcuni metri dal retro del defender. La fotografia più celebre scattata da Dylan Martinez (vedi seconda foto sotto), è perfetta da un punto di vista giornalistico, ma ha un difetto che purtroppo altera uno scorcio importante della realtà: schiaccia terribilmente la prospettiva della scena, sembra, cioè, cogliere il ragazzo a ridosso del mezzo, ma non è così. Carlo – assicuro i lettori – è molto più distante. Raccoglie da terra un estintore (che era stato portato sul posto dalla Polizia) e lo brandisce con istinto difensivo. Vede chiaramente una pistola puntata contro di lui. E’ una situazione di pericolo estremo. Il lunotto posteriore della jeep è stato sfondato dall’interno con una serie di calci sferrati dai carabinieri con la suola degli anfibi. Quella pistola spianata non ha più diaframmi, nè ostacoli materiali davanti a sè. Quella pistola con il colpo in canna sta per sparare!

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FOTO | Ecco il momento in cui Carlo Giuliani raccoglie l’estintore. Il Carabiniere punta l’arma. La tragedia è imminente

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Sono le 17,27 quando Carlo Giuliani viene raggiunto allo zigomo sinistro dal primo di due proiettili calibro 9 parabellum esplosi dall’interno del mezzo. A quel punto il fuoristrada ingrana la retromarcia, travolge per due volte il corpo del ragazzo e si mette in salvo.

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Quando la jeep lo investe, Carlo Giuliani è ancora vivo. Un primo frettoloso referto parlerà di “morte sopraggiunta nell’arco di alcuni minuti“.


RITRATTO DI CARLO GIULIANI

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Tratto da “Patria 1978-2010” di Enrico Deaglio e Andrea Gentile

2001 – Carlo, 23 anni, nato a Roma e residente a Genova, è figlio di Giuliano Giuliani, sindacalista e direttore di una cooperativa sociale, e di Adelaide Gaggio (conosciuta con il nomignolo di Heidi), di famiglia svizzera zwingliana, maestra in pensione. Carlo ha una sorella, Elena, dottoressa in Informatica. Carlo la pensava a sinistra. Adolescente, in una retata nei caruggi (i vicoli del centro storico di Genova) si era visto puntare addosso una pistola da un poliziotto. Al liceo scientifico aveva avuto un’importante storia d’amore con una ragazza che poi l’aveva lasciato. Aveva letto molti libri, sapeva giocare a scacchi. Scriveva bene. Per un periodo era stato anche iscritto a Rifondazione Comunista, ma in realtà non era tagliato per i partiti. Aveva fatto il servizio civile presso Amnesty International. Aveva adottato un bambino a distanza attraverso la comunità di Sant’Egidio. Aveva girato l’Europa in campeggio. Studiava Storia all’università, aveva provato diverse droghe, aveva partecipato a molti rave party, si era disintossicato al Sert, viveva con una ragazza, aveva molti amici. Avrebbe voluto, per il futuro, far parte di qualche organizzazione di volontari e fare qualcosa di utile in giro per il mondo.

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Giuliano e Heidi Giuliani – Genitori di Carlo

Venerdì 20 luglio Carlo Giuliani, come spesso succede, si sveglia tardi. Moltissime persone sanno che quella giornata sarà “mondiale”. Carlo Giuliani non ci pensa affatto. Si mette, come fa di solito, i pantaloni di una tuta e la giacca di un’altra. Scende dalle colline attraverso le scalette di via Bobbio, trova per terra un rotolo di scotch (a Genova non si butta via niente) e se lo infila al braccio. Passeggia con alcuni suoi amici, riceve una telefonata dal padre sul cellulare, vede (e probabilmente prende) botte in piazza Manin. Risale per via Assarotti (a quel punto il telefonino non funziona più: Elena prova a chiamare). Mangia un pezzo di farinata “Dal Genoano” in piazza Martinez. Arriva in via Tolemaide, nel pieno degli scontri. Aiuta a spostare una campana del riciclaggio per fare una specie di barricata. Si trova in via Caffa in mezzo ad altri ragazzi e a una camionetta incagliata. Solleva un estintore, un corpo gracile.

A questo punto è necessario aprire una parentesi sul G8 della stampa. Da ‘ il Manifesto’:

Nell’occasione del G8 alcuni hanno elogiato la copertura totale degli eventi realizzata dalla televisione privata genovese ‘Primocanale’, la quale, senza alcuna gara, aveva ricevuto dalla Struttura di Missione del G8 l’incarico retribuito per tale lavoro. Certo immagini ne sono state fornite molte, sia in diretta che in differita molto ravvicinata, non diversamente peraltro da quanto hanno fatto le altrettanto locali e più povere Telecittà e TeleGenova”.

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Il corpo di Carlo Giuliani morto in piazza Alimonda a Genova, circondato dagli agenti di polizia. Luca Zennaro

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Witness – Io, reporter. La virtù del dubbio

FOTO | Fabio Tiraboschi (Giornalista) e Giuseppe Damonte (Videoreporter)

Sembrava l’ennesimo scontro di un pomeriggio terribile. Da via Caffa, con il mio operatore Giuseppe Damonte, documento per ‘Telegenova Eurotelevision’ la fase più acuta della battaglia che sfocia nell’irreparabile.


IL DOCUMENTO


Carlo Giuliani è a terra, il volto coperto di sangue. Alcuni graduati della polizia sostengono che il ragazzo è morto dopo essere stato colpito alla testa da una pietra, o da un estintore, scagliati da un altro manifestante. Un poliziotto, ripreso in un noto filmato, urla a un dimostrante:

Bastardo, lo hai ucciso tu! Bastardo! Tu lo hai ucciso, col tuo sasso, pezzo di merda!“.

Sono momenti di fortissima tensione e angoscia. Sono testimone di un fatto che, ancora oggi, è una ferita aperta.

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Mentre il corpo senza vita del ragazzo è circondato da un reparto di poliziotti in assetto antisommossa, incontro il fotografo della ‘Reuters’ Dylan Martinez, colui che da pochi metri ha documentato la tragedia scattando le istantanee diventate famose in tutto il mondo. Mi racconta ciò che da Via Caffa avevo intuito, ma non ero riuscito a vedere: un carabiniere, a bordo del fuoristrada, ha sparato dopo aver tenuto sotto tiro gli assalitori per circa un minuto. La versione del ‘sasso amico’ accreditata dalle forze dell’ordine resisterà poco meno di mezzora.

La perizia: il proiettile deviato

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Le sequenze di un filmato prodotto e realizzato da ‘Luna Rossa cinematografica’, analizzate fotogramma per fotogramma, e le tracce di un frammento metallico rinvenuto sul passamontagna indossato da Carlo Giuliani sono gli elementi che imprimono una svolta all’inchiesta. I consulenti del Pm Silvio Franz, nella loro relazione finale, sostengono che Carlo Giuliani è morto per un tragico rimpallo. Il proiettile esploso dal carabiniere di leva Mario Placanica – spiegano i periti – è stato deviato da un calcinaccio di circa due chili scagliato contro la jeep. L’impatto con la pallottola è avvenuto  a 1,90 mt. di altezza da terra. Nella collisione il proiettile si è ‘scamiciato’, ha subìto una deviazione verso il basso colpendo al volto Carlo Giuliani. I risultati della ricostruzione sembrano coincidere con la traiettoria indicata dai medici legali, secondo i quali la pallottola era entrata da davanti a dietro, da destra verso sinistra e dall’alto verso il basso”.

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Esperti di armi hanno evidenziato, inoltre, l’anomalia del piccolo foro sul volto del giovane provocato dal proiettile; di norma un colpo di una ‘calibro 9’ sparato a distanza ravvicinata produce sulla vittima effetti devastanti. Dalle conclusioni depositate dai periti si evince, dunque, che il carabiniere Mario Placanica sparò verso l’alto. La ricostruzione formulata dagli esperti nominati dal pm, tuttavia, non ha mai convinto. I documenti video-fotografici e le testimonianze raccontano un’altra verità. Evidenziamo, tra i tanti, due dettagli: in tutte le fotografie (vedi sotto) il carabiniere punta la pistola ad altezza d’uomo.

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LA FOTO DIVENTATA ICONA | by DYLAN MARTINEZ – REUTERS

E ancora: se la pallottola deviata dal calcinaccio ha provocato sul volto del ragazzo solo un piccolo foro, come si spiega il bagno di sangue e la devastazione del suo cranio? E’ stato ampiamente accertato che un tutore dell’ordine, mai identificato, esercitò sul cadavere del ragazzo un brutale accanimento.

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Perché Carlo Giuliani venne lapidato da morto? Per accreditare, forse, la storiella del ‘sasso assassino’ scagliato da un altro dimostrante? Certamente in Piazza Alimonda andò in scena una vigliacca e truculenta anteprima (il tentativo di costruire prove false era parte del modus operandi) di quanto sarebbe accaduto poche ore dopo nella scuola Diaz, trasformata in una ‘macelleria messicana’, e nella prigione – lager di Bolzaneto dove, lontano dai media, si consumarono in totale libertà torture fisiche e psicologiche.

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Gonfia di incredulità e amarezza la frase pronunciata in quei giorni da Giuliano Giuliani, il padre di Carlo: “la verità che verrà fuori sarà quella che mio figlio si è suicidato e che quel giorno in Piazza Alimonda c’era un’esercitazione di tiro al piattello”.

In quanti sul Defender ?

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Sui fatti di Piazza Alimonda aleggia da sempre il mistero di un quarto uomo che avrebbe potuto trovarsi nella jeep da cui partirono i due colpi di pistola. La sua presenza a bordo del defender potrebbe essere stata coperta per non svelarne l’identità, essendo magari quella di un ufficiale. Di quattro carabinieri a bordo hanno parlato, a più riprese, alcuni testimoni oculari.

L’intervista

Il 31 agosto 2002 concordo un incontro con Massimiliano Monai, 30 anni, il dimostrante che in Piazza Alimonda, immortalato in numerose fotografie, colpisce con un’asse di legno la camionetta dei carabinieri ferendo uno dei militari a bordo.

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Nel corso della lunga intervista da me realizzata per l’emittente genovese Telecittà emergono particolari che alimentano dubbi. Monai non esclude che a bordo del fuoristrada ci fossero quattro militari e aggiunge che a sparare potrebbe non essere stato Placanica. Racconta di aver introdotto all’interno del defender la trave di legno e di aver colpito un carabiniere che con il corpo stava proteggendo un collega, mentre negli stessi concitati istanti un terzo carabiniere puntava la pistola contro i dimostranti. Dunque, includendo l’autista, i militari a bordo sarebbero stati quattro.

La foto che segue ritrae l’interno del fuoristrada. Al volante c’è il carabiniere Filippo Cavataio. E’ lui che prima di Piazza Alimonda prende a bordo due colleghi intossicati dai lacrimogeni: Dario Raffone e Mario Placanica.

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Dietro all’autista si nota un carabiniere che con la mano sinistra si tampona una guancia. Nei verbali, Placanica (che risulta l’unico dell’equipaggio ferito al volto) dichiara di essersi gettato sul corpo di Raffone per proteggerlo. La circostanza dei due carabinieri sdraiati sul pianale durante l’assedio, coinciderebbe dunque con quanto riferito da Massimiliano Monai. Ma osserviamo la foto: Sicuramente, tra i carabinieri dell’equipaggio, Placanica è quello più in difficoltà E’ ferito e si porta una mano al volto. La sua sagoma è la più visibile. E’ stato davvero lui ad impugnare la pistola, a tenere sotto tiro i dimostranti e a far fuoco? Avanzare qualche perplessità è oggettivamente lecito. Se poi si considerano le mezze verità e le versioni confuse e contradditorie da lui stesso rese in questi anni, i dubbi si rafforzano e diventano macigni. Placanica, non è un mistero, è stato scaricato dall’Arma, ha subìto minacce e ha patito tormenti. Bollato a più riprese come pazzo e instabile, è stato condannato al silenzio. Un’esistenza rovinata quella dell’ex carabiniere, sicuramente non serena. Segnata da due spari e da una vita spezzata. Un demone che morde l’anima.


LA VERITA’ DEL CARABINIERE PLACANICA: “NON HO SPARATO A CARLO GIULIANI”

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Chi eravate sul Defender? Eravate in tre, o in quattro come sostengono alcuni testimoni?

“Eravamo in tre. C’eravamo io, Cavataio, carabiniere in ferma biennale, e Raffone un ausiliario seduto dietro insieme a me”.

Dalle immagini si vede partire la carica dei manifestanti. Tu cosa hai visto?

“Il plotone di Carabinieri che faceva da scudo al Defender si è sfaldato, sono scappati. Noi abbiamo fatto retromarcia e siamo rimasti incastrati contro un cassonetto della spazzatura”.

Cosa ti ricordi di quei momenti?

“Solo un rumore infernale”.

Quando vi siete incagliati cosa hai pensato?

“Ci hanno lasciato soli, ci hanno abbandonato. Potevano intervenire perchè c’erano i carabinieri e anche gli agenti della polizia. Potevano fare una carica per disperdere i manifestanti e invece non hanno fatto niente. Quel momento è durato una vita”.

Quando hai estratto la pistola?

“Quando mi sono visto il sangue sulle mani. Ho tolto la pistola e ho caricato”.

Cosa vedevi davanti a te?

“Non vedevo praticamente nulla, ero quasi steso, solo Raffone era un po’ più alzato. Mi è arrivato l’estintore sullo stinco. Scalciando con i piedi l’ho ributtato giù. Loro continuavano con questo lancio di oggetti. Io ho gridato che avrei sparato. Poi ho sparato in aria.

Sei convinto di aver sparato in aria?

“Sono convinto di aver sparato in aria. Non ho preso la mira, é la verità”.

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Quanti colpi hai sparato?

“Due colpi, tutti e due in aria”.

Eri seduto?

Ero steso, con il braccio alzato verso l’alto, all’interno del Defender. La mano era sopra la ruota di scorta del Defender.

Hai sentito solo i tuoi due colpi?

“Sì. Dopo i due spari sul Defender è salito un altro carabiniere che si chiama Rando di Messina e ha messo lo scudo sul vetro che avevano rotto. Davanti è salito un maresciallo dei Tuscania di cui non ricordo il nome, e siamo partiti. Eravamo diretti all’ospedale, ma abbiamo dovuto allungare il percorso pechè sulla strada c’erano i manifestanti, quelli di Agnoletto, che non volevano farci passare”.

Non vi siete accorti di quello che era successo a Piazza Alimonda?

“No. Ho saputo della morte di Carlo Giuliani alle 23 quando sono venuti in ospedale i Carabinieri con un maggiore. Però non mi hanno comunicato la notizia in ospedale. Mi hanno fatto dimettere, mi hanno fatto firmare la cartella e mi hanno portato in caserma. Lì mi hanno detto che avevo ucciso un manifestante”.

Come ti sei sentito in quel momento?

“Mi è caduto il mondo addosso. Io sapevo di aver sparato, però ero convinto anche di aver sparato in aria. Mi hanno fatto l’interrogatorio, mi hanno messo sotto pressione e io ho risposto quello che potevo rispondere. Hanno cercato di farmi dire qualcosa in più, ma io l’ho detto che non avevo sparato direttamente”.

Quanto é durato l’interrogatorio?

“Un’ora circa, intorno a mezzanotte”.

E dopo cosa è successo?

“Mi hanno riportato alla Fiera di Genova dove era dislocato il nostro quartier generale. Mi hanno fatto dare sette giorni di prognosi”.

Che ambiente hai trovato?

“Mi chiamavano il killer. I colleghi hanno fatto festa, mi hanno regalato un basco del Battaglione Tuscania.”Benvenuto tra gli assassini!”, mi hanno detto”.

Tu stai dicendo che i colleghi erano contenti di quello che era capitato?

“Sì, erano contenti. Dicevano morte sua vita mia. Cantavano canzoni. Hanno fatto una canzone su Carlo Giuliani”.

Tu come ti sentivi?

“Io ero assente, non volevo stare con nessuno, mi sentivo troppo male”.


La verità sulle atrocità della Diaz e di Bolzaneto è stata stabilita. Su Piazza Alimonda no. Le ombre su quel maledetto pomeriggio di un giorno da cani non si sono ancora dissolte.

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pass G8di Fabio TiraboschiGenoa News Chronicle / Io, reporter


CONTENUTI SPECIALI

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Dreamers, il podcast genovese e indipendente sui fatti di Genova del 2001. Il racconto audio si articola in dieci puntate, in uscita ogni due settimane, sempre di domenica, su tutte le piattaforme gratuite di podcasting. Gli autori sono quattro ragazzi e ragazze che vivono a Genova e che, all’epoca dei fatti, erano troppo giovani per partecipare. Nonostante ciò, quello che è successo a Genova ha profondamente segnato le loro scelte e le loro vite future. Per questo, a vent’anni di distanza, hanno deciso di raccontare quel periodo, con un obiettivo: rivolgersi ai giovani, affinché la memoria non vada persa e soprattutto, si possa vivere l’emozione di credere concretamente che “un altro mondo è possibile” anche oggi.

  

IL CONTAINER E LA CRUNA DELL’ AGO

di Steve Sermonti – Genoa News Chronicle / Io, reporter

PIANETA CONTAINER

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Genova – Impediscono la visuale, occupano lo spazio. Impilati, uno sopra l’altro, sfidano le dimensioni di interi quartieri. A Genova e nelle città portuali di tutto il mondo sono parte del paesaggio. Segni particolari: ingombranti e colorati. Sono i container, lo strumento universale per il trasporto delle merci; l’invenzione planetaria più efficace e duttile nel campo della logistica e della distribuzione. La loro movimentazione si riflette sulle economie degli Stati, condiziona il sistema dei collegamenti, determina la necessità di uno sviluppo integrato e decreta il declino o il successo di uno scalo.

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Prendiamo il dato di Genova: il porto riesce ad intercettare un volume crescente di merci, che la città, tuttavia, non è in grado di governare. La causa storica di questa situazione disarmonica è il rapporto, tuttora irrisolto, tra Genova ed il suo entroterra montuoso, fattore geografico che, ben più del mare, frammenta e divide lo spazio. Nel dettaglio: a fine 2014, il porto di Genova conseguirà il suo primato storico, oltrepassando la soglia dei 2 milioni di teus (il teu è l’unità di misura pari a un container classico da venti piedi), grazie alle prestazioni del terminal Vte, di Prà -Voltri, che fa capo alla Port Authority di Singapore (che da solo movimenta più della metà del traffico totale dello scalo) e degli altri terminal del bacino di Sampierdarena, tra cui Calata Sanità, il vecchio molo, dove nei secoli scorsi, venivano sottoposte all’ isolamento forzato della quarantena le navi e le persone provenienti da terre lontane.



Un flusso crescente di merce, che tuttavia, si scontra con una rete infrastrutturale a bassissima capacità, drammaticamente inadeguata ad assorbire una tale espansione. L’immagine ricorrente, dunque, è quella di una città sovraccarica, strozzata dai contenitori, ingolfata dai tir, prigioniera del traffico e pressata dalla limitatezza del territorio: Genova porticina d’Europa affetta dalla sindrome della cruna dell’ago’, il penalizzante effetto strettoia che rallenta il flusso dei traffici in direzione nord. Una criticità, contro la quale, da almeno due decenni, urbanisti ed operatori portuali genovesi, puntano l’indice. A Genova, si sa, non scorre nulla: i fiumi bloccati dal cemento, i container frenati da un sistema di mobilità inchiodato agli anni ’70.

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Mentre la città continua a discutere e a dividersi su diversi ed opposti modelli di sviluppo, la comunità dello shipping reclama il rapido adeguamento di alcuni segmenti fondamentali: connessione e globalizzazione, competizione dei flussi e delle reti, alta velocità e realizzazione della cosiddetta regione-movimento, crocevia dei traffici mediterranei ed europei.

TERZO VALICO

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Il porto di Genova sta attraversando una fase positiva in termini di traffici”, conferma Enzo Redivo, esperto di shipping.I risultati più importanti riguardano il consolidamento nel settore delle crociere, grazie alle performance di Genova con Msc, e di Savona con Costa. Ormai su circa 21,3 milioni di croceristi nel mondo, circa il 7% appartiene al mercato dei porti liguri. Altro risultato assolutamente confortante è l’exploit di Genova nel comparto merci, con il traguardo, ormai certo, dei 2 milioni di teus sul 2014. Il problema serio riguarda, come noto, la cronica carenza di infrastrutture: il Terzo Valico dei Giovi, l’opera ferroviaria in grado di connettere il porto di Genova con la Pianura Padana e il nord Europa, è ancora in una fase preliminare, mentre il progetto di un retroporto tra Liguria e Piemonte con spazi adeguati, centro di smistamento e ‘banchine remote’ è sostanzialmente rimasto nel cassetto delle buone intenzioni”.

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I porti si sono moltiplicati negli anni senza comunque riuscire a rendere competitiva l’Italia: ancora oggi il trasporto delle merci, nella movimentazione interna, si svolge per l’87% su strada. Con il Terzo Valico, la cui fine lavori è stata fissata tra il 2017 e il 2018, il porto di Genova si doterà di una via di accesso privilegiata per il trasferimento delle merci verso l’area padana e il nord Italia, consentendo lo spostamento di una parte del traffico commerciale dalla gomma alla rotaia. Genova aumenterebbe, così, la capacità di smaltimento, via ferrovia, dei traffici portuali. Si tratta di una connessione diretta con il Corridoio 5, ribattezzata ‘ponte tra due mari’, poiché collegherà, di fatto, il capoluogo ligure e lo scalo olandese di Rotterdam. Non mancano, tuttavia, i problemi. L’opera, costa molto cara, 6 miliardi di euro. E’ stata suddivisa in 6 lotti costruttivi, di cui solo 2 interamente finanziati con 1,6 milioni di euro. Essendo una tratta nazionale non si prevedono contributi da altri paesi, né dall’Unione Europea.

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Contro l’opera, un vasto fronte critico, che annovera tra le sue fila persino l’ex amministratore delle Ferrovie Mauro Moretti. Secondo alcune analisi, infatti, il  terzo valico, da solo, non riuscirebbe a risolvere definitivamente il problema delle merci. Genova, per passare dai 2 milioni agli oltre 10 milioni di teus dei porti nord-europei, avrebbe bisogno di una capacità di smistamento ben maggiore rispetto a quella garantita dall’infrastruttura. Ma ormai non è più possibile tornare indietro.

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Genova dovrebbe impostare la propria crescita essenzialmente sulla rotaia potenziando il traffico merci ferroviario verso il nord”, puntualizza Redivo. “Anche perché la Svizzera ha chiuso il suo territorio al passaggio dei tir. Una decisione, quella elvetica, che preclude il trasporto su gomma anche verso la Germania e la Francia. Il nostro paese dunque non ha scelta. Per non cadere nell’isolamento deve investire non solo sulla rotaia, ma anche sul radicale rinnovamento del suo parco treni”.

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Perché?

“Perché rispetto agli altri paesi la nostra dotazione è composta da  trenini imbarazzanti. Porto un esempio: da Rotterdam e Anversa partono ogni giorno verso Milano, 20 treni lunghi 1 chilometro in grado di trasportare quasi 100 container. I nostri convogli misurano al massimo 500 metri con un carico medio di 35 contenitori. Si tratta di un servizio antidiluviano che soccombe rispetto alle reti computerizzate che si snodano dai grandi porti del nord Europa. Eppure a Genova, sotto altri aspetti, non mancano le punte di efficienza”.

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Ci spieghi

“Al terminal di Prà – Voltri, grazie anche ai notevoli investimenti tecnologici e di riorganizzazione dei varchi portati a termine dal Vte nel 2014, le attese per l’autotrasporto sono minime. Oltre 2mila camion al giorno con tempistiche record di gate in (ingresso) e gate out (uscita) di soli 30 minuti. Si tratta di un primato europeo. Si pensi che in alcuni porti, le attese raggiungono le 4 ore, mentre nell’efficientissima Rotterdam, i tempi sono di 1 ora”.

LE DOGANE DEL FUTURO

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E’ stata dunque avviata, la sburocratizzazione del Porto di Genova, operazione che si gioca su tre versanti principali: sportello unico doganale, sistema telematico e sdoganamento in mare. Tre processi per un duplice obiettivo: certezza e miglioramento dei tempi di uscita delle merci dal porto, abbattimento dei costi a carico di enti pubblici e imprese.

Oggi per effettuare un’operazione di import/export gli operatori devono presentare, oltre alla dichiarazione doganale, fino a 68 istanze ad altre 18 amministrazioni, trasmettendo ad ognuna, informazioni e dati spesso identici, al fine di ottenere le autorizzazioni, i permessi, le licenze e i nulla osta necessari. Con lo sportello unico doganale la gestione si semplifica notevolmente, poiché tutti i documenti vengono inviati ad un unico indirizzo telematico dopo essere stati eventualmente scannerizzati. Altro strumento il ‘pre-clearing’, lo sdogananento in mare. Attiva dal febbraio del 2014, sia a Genova che a La Spezia, questa procedura consente agli operatori di trasmettere le dichiarazioni di importazione, mentre le merci sono ancora in viaggio sulle navi, consentendo alla dogana e alle altre amministrazioni coinvolte di anticipare l’effettuazione dell’analisi dei rischi, e svincolare, prima dell’arrivo, le merci per le quali non si ritiene necessario effettuare un controllo fisico. A Genova molti contenitori di materiali, destinati alla costruzione degli stand espositivi di Expò 2015, vengono dichiarati applicando proprio questa procedura.

Abbiamo dimostrato che quella di candidare Genova a porto dell’Expo 2015 è stata un’intuizione felice, che oggi si sta concretizzando” spiega il Presidente dell’Autorità Portuale Luigi Merlo. “Grazie al nuovo sistema di sdoganamento in mare diamo ai Paesi interessati un segnale di efficienza importante, segnale che potrà consolidare, finita l’esposizione, anche i traffici futuri”.

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Terzo tassello la riorganizzazione telematica del Porto, attraverso il sistema di proprietà pubblica E-port, per la cui gestione si sono candidati spedizionieri ed agenti marittimi. La telematizzazione del porto di Genova, secondo alcuni studi, potrebbe ridurre del 75% i tempi di uscita delle merci dallo scalo.

Giampaolo Botta da quattro anni è il Direttore Generale di Spediporto, l’Associazione Spedizionieri Corrieri e Trasportatori di Genova che con 586 aziende, 12.500 dipendenti e circa 3 miliardi di euro di fatturato annuo costituisce la più importante realtà associativa territoriale nel settore dell’import e dell’export delle merci, rappresentando più del 90% delle case di spedizioni marittime, terrestri ed aeree della Liguria, e più del 20% delle imprese del settore su scala nazionale.

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“Expò 2015 è un vero e proprio banco di prova per Genova” – anticipa Botta.Il nostro porto, per alcuni mesi, diverrà una delle principali porte di ingresso delle merci destinate alle sedi espositive. Noi operatori privati auspichiamo di essere adeguatamente coinvolti nella fase di attuazione delle possibili novità procedurali e di sistema. Simili progetti, infatti, funzionano solo se tutti i soggetti, nessuno escluso, sono chiamati a partecipare. D’altronde, stiamo parlando di strategie che potrebbero ridisegnare i futuri bacini di utenza e migliorare i servizi che il porto fornisce al settore delle merci”.

RIFORMARE I PORTI

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Riforma dei porti. Quali sono le urgenze?

“Il problema è che in Italia non esiste una politica portuale. I mali sono evidenti: 25 Autorità Portuali, peraltro in competizione, sono un’esagerazione. Lo scenario è quello di una battaglia tra campanili tipicamente italiana: tante piccole infrastrutture scollegate tra loro, doppioni inutili, mancanza di regia e di coordinamento, e un sistema integrato mai pervenuto. Ogni Autorità Portuale, tranne qualche rara eccezione, guarda al suo orticello per difendere benefici da sottobosco politico (a Genova e in Liguria la riserva di caccia è targata Pd), privilegi, cariche, nomenclature e proliferazione di poltrone” (dalle relazioni della Corte dei Conti si scopre che solo per i Presidenti dei porti vengono spesi ogni anno 6milioni di euro in soldi pubblici ndr).

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“Si tratta di un atteggiamento protezionistico e consociativo che alimenta la dispersione di risorse; una situazione dove le spinte particolari prevalgono sull’interesse generale. Faccio un esempio: a Vado Ligure, ad appena 40 chilometri dal mega terminal di Voltri, che peraltro avrebbe bisogno di investimenti infrastrutturali assolutamente urgenti, sapete cosa accade? Dal 2017 sarà operativa la piattaforma Maersk, approdo superfluo, esteso su 21 ettari di superficie, in grado di ricevere, anch’esso, grandi navi da 13-14mila teus. Si tratta evidentemente di una replica assurda del vicino terminal di Voltri. Una struttura-bis il cui interesse pubblico è tutto da dimostrare. Di certo è un monumento allo spreco che costerà alla comunità 500milioni di euro. Quella della piattaforma Maersk è una vicenda paradigmatica che svela alla perfezione la mancanza di lungimiranza, coordinamento e programmazione che avvelena e sfascia la portualità italiana. Il Paese, al contrario, avrebbe bisogno di pochi grandi hub, efficienti snodi internazionali in grado di intercettare rilevanti quote di traffico”.

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Porto di Shanghai – Cina

Di fatto, in un quadro di graduale spostamento degli equilibri economici mondiali, sempre più sbilanciati a favore dell’Estremo Oriente e della Cina, e dove i tre maggiori porti europei movimentano complessivamente meno container rispetto a quanto faccia, da solo, lo scalo di Shanghai, il sistema portuale italiano non è riuscito ad approfittare del vantaggio derivante dalla propria posizione geografica, che ne dovrebbe fare l’approdo europeo naturale per le merci provenienti e destinate al Far East.

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L’impressionante veduta del Porto di Shanghai

Maurizio Lupi, Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha presentato nei mesi scorsi quelle che dovrebbero essere le tappe della riforma: riduzione delle Autorità portuali, da 25 a 15, più forti e dotate di una maggiore autonomia finanziaria; possibili accorpamenti, per superare la frammentazione attuale, attraverso la costituzione di un unico sistema logistico che faccia perno sulla collaborazione, o ancora meglio sulla fusione dei porti principali. Cambiamenti, che nelle intenzioni, potrebbero stimolare l’elaborazione di un piano nazionale della logistica, settore strategico, che finora, è stato colpevolmente ignorato dai governi. L’idea di fondo sarebbe quella di sviluppare un sistema nazionale realmente competitivo, ricalcato sul modello in vigore nel nord Europa, che possa intercettare anche la merce che non sbarca oggi sulle coste italiane. I porti più avveduti, che sapranno incrementare i traffici incamerando più risorse, potranno investire di più ed attrarre investimenti privati. Chi, invece, utilizzerà le banchine come rendita di posizione sarà escluso dal mercato.

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Buona parte del futuro della portualità, secondo la visione pressoché unanime degli osservatori, passa dall’esito di questa riforma. Una riforma, è bene sottolinearlo, solo annunciata, che già si scontra con il “partito” dei piccoli porti – che temono come la peste ridimensionamenti o annessioni – e che, guarda caso, risulta già depotenziata nello ‘Sblocca Italia’. La notte, insomma, è ancora lunga, ma qualcuno cerca di dare la scossa:

”I tempi di decisione e di scelta ai quali eravamo abituati non sono più compatibili con le rapidissime trasformazioni in atto nel mercato globale”, avverte Pasqualino Monti, Presidente di Assoporti, l’associazione che rappresenta i principali porti italiani. “I porti che operano sulla linea del fronte dell’interscambio mondiale sono quindi chiamati a decisioni, sino a ieri impensabili per un paese come il nostro abituato a mediare anche il suo destino. Decisioni che richiedono immaginazione, innovazione, progettualità, capacità di imporre il cambiamento e rispetto alle quali non esiste alternativa, se non quella di una progressiva emarginazione e un declino, con conseguenze devastanti per tutta l’economia italiana. Assoporti ha molto chiari gli obiettivi, i tempi e gli strumenti che sono indispensabili oggi, e non domani o dopodomani, per ridare competitività ai porti italiani. Il primo obiettivo è quello di rispondere subito alle domande di efficienza, rapidità e semplicità che il mercato pone come una vera e propria emergenza. Bisogna poi compiere scelte coraggiose, inclusa quella dell’autonomia finanziaria che consenta ai porti di investire in nuove infrastrutture, dove sono necessarie e dove il mercato lo richiede”.

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Preoccupazioni diffuse che alla fine investono il tema delicatissimo dell’occupazione. Genova è il primo porto italiano in termini di movimentazione complessiva, pari a circa 55 milioni di tonnellate, che equivale ad una media, nell’anno, di circa 1,7 tonnellate di merce sbarcate o imbarcate ogni secondo. I traffici, nei 29 terminal specializzati dello scalo, aumentano sensibilmente, eppure, a questo incremento, non corrisponde una crescita dei posti di lavoro. Da anni il porto di Genova è fermo a 11mila addetti, che salgono a 71mila se si considera anche l’indotto. Cifre importanti, ma tendenti al ribasso.

CAMALLI

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Un problema rilevante, eppure trascurato, che si riflette anche sul destino della Compagnìa Unica Lavoratori Merci Varie (Culmv) la più antica società di servizi attiva nel porto di Genova, lo scrigno della cultura portuale genovese, la casa dei “camalli”, gli scaricatori delle navi, quasi un’incarnazione della città, l’espressione della forza e dell’orgoglio operaio. Sul lavoro, prima dell’aggressione tecnologica, bisognava lasciarli stare; una professionalità riconosciuta in tutto il mondo, un equilibrio fisico e psichico, che sulle passerelle, con un quintale sulle spalle, li faceva diventare dei danzatori.

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Nonostante l’evoluzione del Porto, dei mezzi operativi e delle modalità di imbarco e sbarco merci, la Compagnia Unica è attiva sullo scalo genovese e al Voltri Terminal Europa, con un organico di 1000 soci e un fatturato annuo di circa 40 milioni di euro, ma con perdite in bilancio di 4 milioni all’anno. Ripensare al ruolo delle Compagnìe Portuali, senza sacrificarle o smarrirne i valori, è un’altra sfida cruciale. Perché la figura emblematica del portuale rappresenta, comunque, il futuro della memoria.

Una vecchia inchiesta, condotta nel 1964, metteva già in luce storture, privilegi e contraddizioni del lavoro portuale:



“In porto fai le stesse cose di sempre, stai con gli amici, con la gente che comunque avresti frequentato, non devi lasciare fuori le tue idee, la tua autonomia, la tua libertà. Pur nel rispetto di una gerarchia operativa non diventi mai come “Fracchia”, parli il tuo dialetto, ti porti dietro il tuo quartiere, discuti di ciò che avviene. Quando esci, il tuo lavoro esce con te, viene nella tua vita, nella tua casa e ripeti il percorso inverso. Ti accorgi ben presto che non è l’individuo che trasforma l’ambiente, è l’ambiente del porto che trasforma le persone, le plasma, dà loro un’identità collettiva, che esse difenderanno comunque, contro ogni ostacolo. È come una batteria, che si alimenta alimentando. Questo processo io non so come avvenga, so che si fa da solo, come il pane in casa, ed è la Compagnìa il lievito di questo pane, la scuola di tutti, che insegna a lavorare, ma ti dice anche per chi e per cosa lavori, e che trasforma il singolo lavoratore in un uomo diverso, che risponde all’insieme oltre che a se stesso”.

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In questo passaggio, tratto dal libro ‘L’Occasionale, autobiografia di Paride Batini, leggendario condottiero dei ‘camalli’ genovesi, scomparso nel 2009, l’ appassionata rappresentazione politica della vita portuale, la chiave preziosa per comprendere valori, caratteri e sentimenti, che da secoli, regolano il rapporto simbiotico tra uomini e lavoro in banchina. La prova di quanto la parola, possa ancora arrivare dritta al cuore delle cose, senza retorica, narrando con precisione quel che resta di vivo e autentico, nonostante l’avanzata implacabile della telematica, del gigantismo navale, delle privatizzazioni e degli automatismi senz’anima.

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Genova, pur tra mille catene, corporativismi e resistenze, guarda avanti. In gioco diversi modelli di sviluppo: preservare le identità locali, senza sacrificarle sull’altare della velocità e della connessione. Oppure puntare tutto sulla globalizzazione spinta, a discapito della sicurezza sul lavoro e di una crescita equilibrata e sostenibile.

WATERFRONT

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Nel frattempo si può già ripartire dalla ‘visione’ di città che oggi disegna l’architetto e senatore a vita Renzo Piano, e che ieri tracciavano i banchieri della Genova del Cinquecento. Nasce, così, il nuovo ‘waterfront, il fronte del porto di Genova. Renzo Piano lo ha ripensato tracciando il Blueprint, una linea ideale che unisce il levante e il ponente della città, con l’idea – guida di riconsegnare il mare a Genova, e allo stesso tempo, far crescere il porto con più spazi per l’area delle riparazioni navali e la nautica da diporto, perché Genova non è una città di mare balneare, è una città di mare che lavora, una città portuale. Verranno demoliti 48 mila metri quadrati di costruzioni e manufatti, per restituire spazio all’acqua e realizzare un canale che in certi punti raggiungerà la larghezza di 40 metri e in altri di 60. Così, alcune aree industriali del porto diventeranno delle isole, raggiungibili attraverso ponti che le metteranno in collegamento con la passeggiata panoramica tra il Porto Antico e la Fiera del Mare.

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I tempi per la realizzazione del Blueprint oscillano tra i 10 e i 15 anni. Ma già tra 4 o 5 anni si potrebbe iniziare a vedere qualcosa di significativo. I finanziamenti saranno pubblici e privati: i primi saranno a carico dell’Autorità portuale e sono stimati in 120-140 milioni di euro. Una volta realizzato il terzo valico ferroviario, questa diventerà la porzione di città più ambita del Nord Italia, spiega il presidente dell’Autorità Portuale Merlo. E’ un progetto per il Paese, il più grande progetto di città nautica in Europa. E forse Genova, a quel punto, avrà ridotto il divario nei confronti dei ‘competitors’ europei.

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Da chi devian passà’, da qui bisogna obbligatoriamente passare. Era il monito che i “camalli” rivolgevano alla merce e a chi si occupava di traffici marittimi. Smarrite quelle antiche certezze, il porto, nell’era della globalizzazione, è la somma delle identità che la città ha cambiato nelle diverse epoche. Genova, che per secoli ha costruito la sua fortuna sul mare, oggi deve cambiare prospettiva, guardare a nord ed aprirsi con intelligenza al suo entroterra. Per uscire dall’isolamento. Per vincere la sindrome della cruna dell’ago. E ripartire.


Per L’INDRO – Pubblicato il 4 novembre 2014 – Copyright