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di Alex Schmalz – Genoa News Chronicle / Io reporter

Saranno ricordate come le Olimpiadi del 10 – 10 – 20. 10 medaglie d’oro, 10 d’argento, 20 di bronzo. 40 allori, mai così tanti. Per l’Italia Team, l’olimpiade di Tokio 2020, è stata la più prolifica di sempre. Più di Roma 1960, dove le medaglie conquistate furono 36 (13 ori, 10 argenti e 13 bronzi), ma meno, considerando i soli primi posti, di altre Olimpiadi a partire dalle 14 medaglie d’oro conquistate ai Giochi di Los Angeles del 1984 (segnate tuttavia dal forfait dei paesi del blocco sovietico). Un bilancio comunque perfetto, rotondo ed equilibrato: il trionfo delle decine e dei numeri pari nella prima Olimpiade dell’era moderna giocata – causa pandemia – in un anno dispari. 20 medaglie di bronzo (record assoluto) che compensano numericamente la somma degli altri due metalli più preziosi. La magia dei numeri e la rappresentazione dei valori disegnano un’Italia sportiva da podio in grado di battere il dio Crono e superare i limiti posti dagli avversari; un team che ha raccolto trionfi quasi ovunque, anche nelle discipline più nobili, in territori che sembravano proibiti. E’ la consacrazione di un movimento sportivo multietnico e integrato che va difeso, tutelato e protetto. Nell’olimpiade dell’era pandemica (vinta sul filo di lana dagli Usa sulla Cina) l’Italia è letteralmente esplosa nell’atletica, entusiasmando il mondo nella velocità e nella marcia, le due espressioni quasi estreme della locomozione umana, e volando nel salto in alto maschile. Ha confermato la sua forza negli sport di combattimento e sacrificio: pugilato, sollevamento pesi, arti marziali e lotta. Ha sofferto, vincendo meno, nella scherma. Ha raccolto affermazioni storiche nella ginnastica artistica e ritmica, nel ciclismo, nel tiro con l’arco. Ha pescato medaglie dall’elemento che sportivamente non tradisce quasi mai, l’acqua: nuoto, canottaggio, canoa e vela continuano rappresentare un bacino tradizionale di passioni e talenti. Ma lo sport non è solo vittoria. Dalle discipline di squadra sono arrivate le delusioni più cocenti. Le formazioni di pallavolo, basket, pallanuoto, beach volley hanno espresso un gioco di ottima levatura, ma discontinuo: trame luminose, sprazzi da fuoriclasse, ma troppi errori in fase di realizzazione, incertezze che all’Olimpiade si pagano.

10 MOMENTI AZZURRI DA RICORDARE

La pallavolista Paola Egonu tra i sei atleti che hanno sfilato con la bandiera olimpica nella cerimonia di apertura dei Giochi. Classe, bellezza, spirito olimpico.


MARCELLO

Tokio, 1 agosto 2021, una data memorabile: l’Italia conquista la vetta dell’atletica mondiale. Gianmarco Tamberi saltando 2,37 in una finale palpitante del salto in alto, vince l’oro a pari merito con il rivale-amico Mutaz Essa Barshim, atleta del Qatar e stella planetaria della disciplina. Per Gianmarco è la resurrezione dopo il terribile infortunio patito alla vigilia delle Olimpiadi di Rio 2016. Poco dopo Lamont Marcell Jacobs scrive il dopo-Mennea trionfando nei 100 metri, la gara regina delle Olimpiadi.



Sono i 20 minuti più esaltanti nella storia dello sport italiano!


STAFFETTA 4 X 100

La vittoria della 4×100 maschile. La staffetta italiana è una macchina perfetta in ogni passaggio. Lorenzo Patta, primo frazionista al debutto olimpico, sardo di 21 anni con un passato da calciatore, la sorgente della velocità, il motore; Lorenzo è semplicemente fenomenale nel disegnare la linea ideale in ottava corsia. Marcell Jacobs, fresco olimpionico dei 100 metri, nato in Texas e cresciuto sulle rive del Garda. E’ lui la sorpresa dei Giochi di Tokio, la freccia che ha percorso la sua frazione in 8 secondi e 92″. Fausto Desalu, terzo frazionista, origine nigeriana, quando c’è da correre col baricentro spostato a sinistra è tra i più forti curvisti al mondo. Filippo Tortu, il tuono (8 secondi e 84″ il tempo della sua ultima frazione). La sua prodigiosa rimonta sul velocista inglese ha ricordato quella di Mennea nella finale dei 200 metri alle Olimpiadi di Mosca del 1980.



FEDE

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Le lacrime di Federica Pellegrini, la Divina, giunta alla sua ultima Olimpiade dopo una carriera strepitosa. Tre stagioni della vita (infanzia, adolescenza e giovinezza) donate al nuoto. Consacrazione di una leggenda entrata nella Hall of Fame, nel Pantheon degli atleti italiani più grandi di sempre. Araba Fenice tra gli Immortali.


RISCATTI

Le medaglie del Sud, le medaglie del riscatto. Le medaglie pugliesi, sarde, molisane, siciliane. Nel segno di Pietro Mennea…perchè vincere è soffrire. Le medaglie, tutte le medaglie, frutto dell’integrazione. Le medaglie vinte per l’Italia dagli atleti di origine africana o americana, comunque extra-europea.


VANESSA FERRARI

L’esercizio nella finale del corpo libero di Vanessa Ferrari. Un capolavoro d’argento. Mai una donna italiana era salita sul podio olimpico in una gara individuale di ginnastica artistica. Mai nessuna l’aveva meritato come Vanessa Ferrari, che a 30 anni e 265 giorni surclassa le atlete più giovani (Simone Biles compresa). Solo l’ungherese Agnes Keleti, da poco centenaria, aveva vinto oltre l’età di Vanessa. Un esercizio magistrale, sintesi di grazia, forza e bellezza, un’esecuzione migliore rispetto anche alla medaglia d’oro, l’americana Jade Carey – di dieci anni più giovane – la quale però ha annullato il gap che la divideva da Vanessa con un coefficiente superiore, in pratica con una diagonale in più.

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Per Vanessa Ferrari, campionessa di resilienza, l’ammirazione e la stima di Nadia Comaneci la più grande ginnasta di ogni tempo: “Vanessa è testarda e battagliera come me, una vera lottatrice. La sua medaglia è meritatissima, soprattutto se si considera tutto quello che ha passato e che ha 30 anni”.


LUMINOSA

Il record italiano dei 100 metri ostacoli (12’75”) centrato da Luminosa Bogliolo, stella delle Fiamme Oro di Alassio. Luminosa ha avuto una buona reazione allo start ed è riuscita a trovare il giusto ritmo e la meccanica ideale per superare con scioltezza gli ostacoli e allo stesso tempo ad esprimere tutta la sua potenza. Il risultato finale, nonostante l’eliminazione, non può che renderla felice. Alle Olimpiadi anche un record nazionale è una vittoria per crescere ancora.


ALL’ULTIMO RESPIRO

Lo stupore, l’incredulità e la gioia di Federica Cesarini e Valentina Rodini dopo la conquista della medaglia d’oro nel doppio Pesi Leggeri al termine di una finale emozionante. Una vittoria maturata per soli 14 centesimi sulla Francia e 49 sull’Olanda, sorpassate dalle azzurre con l’ultimo colpo di remi. 


FARFALLE

Il bronzo nella ritmica conquistato da Martina Centofanti, Agnese Duranti, Alessia Maurelli, Daniela Mogurean, Martina Santandrea, ribattezzate le farfalle azzurre. Tra le espressioni più alte della grazia e della bellezza femminile. Un esempio di maestria, collaborazione, dinamica e sincronismo. Pura poesia, il massimo della libertà nel massimo della regola.

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L’URLO DELLA TIGRE

Viviana Bottaro, genovese, 33 anni, campionessa del karate, ha colto l’unica occasione per vincere una medaglia olimpica (il bronzo) in Giappone, la culla della disciplina. Il suo Kiai, l’urlo che accompagna la fase topica del kata (la forma del combattimento) è da brividi. Massima espressione di energia vitale.


MILENA BALDASSARRI

L’eleganza e la bellezza di Milena Baldassarri incanto della ginnastica ritmica azzurra. Non è arrivata a medaglia, ma è risorsa e promessa.

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di Alex Schmalz – Genoa News Chronicle / Io reporter

DOPING, IL LATO OSCURO DELLO SPORT

di Steve SermontiGenoa News Chronicle / Io, reporter

UN EX DOPATO RACCONTA

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Il doping l’ha conosciuto nel 2000, la sua ultima stagione tra i dilettanti del ciclismo. Oggi con lo sport ha chiuso; lavora nell’edilizia come carpentiere. Ha deciso di raccontare la sua storia nell’anonimato. Una storia simile a quella di tanti altri ex atleti.

Mi sono dopato solo per un anno. La cura l’ho fatta in inverno, per partire forte a inizio stagione. Prendevo ormoni della crescita, Epo e testosterone. Per le punture di Epo usavo una siringa da insulina riempita con una dose minima, da iniettare per via sottocutanea. Ne facevo una ogni tre giorni, per un mese. Ho assunto anche il Gh l’ormone della crescita, una volta ogni due giorni, per aumentare la massa muscolare. Umanamente è possibile pedalare per 70mila chilometri all’anno e finire le corse senza l’ausilio di sostanze vietate, ma non vincere. Nell’ambiente ho sentito parlare di tutto, dall’emoglobina sintetica ai ritrovati più strani. Parlare di doping nel ciclismo è come parlare della droga in strada. Sai che fa male, ma sei accecato. Qualcuno, tra i dilettanti, ne faceva uso anche prima delle gare, giocando sul fatto che a volte non si facevano i controlli. Così riuscivano a cavarsela”.

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Nessuno ti costringe. Sei consapevole di quello che fai. Chi si giustifica dicendo ‘non è colpa mia’, sta mentendo. Quando arrivi in una squadra, c’è qualcuno di dovere che ti prende da parte, a quattr’occhi, e ti spiega: ‘le cose stanno così, questa è la realtà, se vuoi andare avanti hai bisogno di aiuti’. Tocca a te, poi, decidere. Le vittorie ai miei occhi non valevano meno, perché sapevo che anche gli altri si dopavano, dal primo al decimo della classifica. E mi bastava essere al 90% per battere molti miei compagni che invece erano al 120%. Se tutti fossero puliti, gli ordini d’arrivo sarebbero gli stessi. E questo è il rammarico più grande”.

La testimonianza, è bene sottolinearlo, si riferisce ad un periodo compreso tra il 2000 e il 2005. Sono trascorsi dieci anni, eppure lo sporco affare del doping è una piaga sempre infiammata.

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Altri casi ben più eclatanti, affliggono, annichiliscono, amareggiano. Storie di doping assolutamente reali e ripetuti, ma anche casi di falsi doping creati ad arte per demolire campioni veri, salvaguardare vorticosi giri di scommesse o spianare la strada ad atleti di federazioni più potenti. Molte le vicende scandalosamente emblematiche: dal pentimento mediatico di Lance Armstrong, l’ex ciclista texano dominatore di sette Tour de France consecutivi (vittorie poi annullate), alle lacrime di Alex Schwazer, marciatore azzurro, campione olimpico a Pechino nel 2008, risultato positivo a un controllo anti-doping alla vigilia dei Giochi di Londra del 2012 (doping ammesso dallo stesso atleta), ma poi vittima – secondo il Tribunale di Bolzano – di una criminale congiura nel 2016 quando i suoi campioni di urina furono dolosamente alterati per inchiodarlo all’infamia ed escluderlo dalle Olimpiadi di Rio. E che dire di Marco Pantani estromesso dal Giro d’Italia del 1999, ormai vinto, a causa di un valore di ematocrito assai dubbio? Una squalifica, quella del Pirata, voluta (e si sospetta indotta) dalla lobby mafiosa delle scommesse. Una squalifica che certamente accelerò la morte violenta, e ancora misteriosa, del campione.

DOPING, LO SPORCO AFFARE

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Il blog di Cycling. Pro.it esaminando i curriculum delle massime autorità antidoping del Coni, giunge ad una conclusione molto severa:

«In Italia – dalla parte del doping – ci sono interessi enormi, ‘scienziati’ specializzati, avvocati e consulenti agguerriti e strapagati. Dalla parte dell’antidoping, invece, ci sono sempre più ‘dopolavoristi’. Ma mentre prima questi dopolavoristi erano almeno liberi da impegni (in quanto pensionati) e con professionalità strettamente attinenti a quello che dovevano fare in ambito sportivo, ora si tratta di gente già super impegnata e che con l’attività inquirente e giudicante c’entra purtroppo poco o nulla. Nessuno capisce che, o si tira fuori qualche soldo e si formano e reclutano professionalità specifiche, o l’antidoping italiano scivolerà sempre più verso il terzo o il quarto mondo: basta confrontare il nostro sistema con gli altri europei per rendersene conto con vergogna».

STEFANO MEI, IL TALENTO DEL CAMPIONE PULITO

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Mentre in passato il vertice dello sport nazionale collaborava scopertamente con soggetti non solo chiacchierati, ma dichiarati da Tribunali della Repubblica fautori del doping – penso, ad esempio, al ‘processo Conconi’ – oggi credo che la situazione sia più fluida, anche se paradossalmente più pericolosa”.

L’analisi è di Stefano Mei, tra i migliori specialisti europei del mezzofondo, oro nei 10mila e argento nei 5mila metri ai Campionati Europei di Stoccarda del 1986, bronzo ai Campionati Europei di Spalato del 1990 ancora sulla distanza dei 10mila metri. Palmares di alto profilo e brillante carriera da dirigente sportivo e commentatore.

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I medici che propinano certe ‘cure’ sono aumentati a dismisura e per taluni il dopaggio di atleti è diventato un vero e proprio lavoro. Lavoro ben remunerato, tra l’altro. Sono dell’avviso che i passi in avanti fatti negli ultimi anni, da soli, non bastino. Auspico per lo sport e per la sua integrità che venga dato seguito ai dettami della Legge 376 del 2000, laddove viene chiaramente disciplinato che il controllo antidoping venga affidato al Ministero della Sanità. Credo converrebbe anche al Coni”.

IL REBUS DEI CONTROLLI

Alessandro Donati è il massimo esperto di lotta al doping, ex dirigente Coni, ex allenatore e oggi consulente della Wada, l’agenzia mondiale antidoping, nonché collaboratore dell’associazione ‘Libera’ di Don Ciotti. Senza la sua voce la trattazione del tema risulterebbe incompleta. La vita di Donati è la storia di un impegno: quasi 40 anni di battaglie, denunce coraggiose, testimonianze competenti, saggi e ricerche contro la grande piaga.

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Il ritardo delle strategie antidoping rispetto all’evoluzione del doping – ha spiegato più volte Donati – ha permesso per anni di utilizzare sostanze proibite, aprendo la strada ai preparatori e ai medici più spregiudicati che hanno epurato gli altri provocando effetti che dureranno ancora a lungo. Le federazioni, se si controllano da sole, non possono avere credibilità. Anche in Italia, dove siamo più avanti che in altri paesi perché abbiamo una legge penale in materia, di fatto, i controlli antidoping li fa ancora il Coni.

Doping, Alex Schwazer in conferenza stampa a Bolzano

A pagare sono solo gli atleti, come da ultimo Alex Schwazer, ma non si indaga mai su cosa c’è dietro. Questo perché in Italia non si è riusciti a spezzare la contraddizione tra controllori e controllati, e sono pressoché assenti i controlli a sorpresa: la Wada dovrebbe diventare pubblica e indipendente come tutte le altre agenzie antidoping, compresa quella italiana che invece è di casa al Coni.

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Ora chi è più avanti di tutti in questo ambito è la Federazione ciclistica internazionale, perché messa in difficoltà dagli scandali che si sono succeduti negli ultimi tempi, ha deciso di dare un giro di vite al fenomeno con misure radicali ed efficaci. E’ la federazione che meglio di altre affronta il monitoraggio degli atleti attraverso il sangue per quello che viene chiamato ‘passaporto biologico’. Nelle altre federazioni è una procedura che viene usata col contagocce oppure per niente”.

Adesso, finalmente, questa enorme contraddizione potrebbe, quanto prima, essere superata. Il Presidente del Coni Giovanni Malagò ha annunciato, infatti, che i controlli a sorpresa verranno affidati ai Nas dei Carabinieri, creando così il presupposto per la creazione di un’authority indipendente e ‘super partes’ che si occupi senza ingerenze dei test sugli atleti tesserati. Si tratterebbe di una svolta epocale che se attuata (manca ancora l’annuncio ufficiale) porterebbe alla tanto attesa separazione tra controllati e controllori.

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La Procura di Bolzano, nell’ambito del caso Schwarzer, ha già evidenziato come il criterio della reperibilità applicato agli atleti di spicco delle varie squadre nazionali sia stato, fino ad oggi, ampiamente disatteso. Tradotto: in Italia i controlli a sorpresa sono praticamente inesistenti. Si è scoperto che la maggior parte degli atleti italiani, anche di primo livello, si rendevano irreperibili ai controlli a sorpresa (gli unici davvero efficaci nella lotta alle sostanze proibite), non comunicando la propria posizione o addirittura venendo avvisati prima su quando sarebbero stati effettuati. Dalle 550 pagine dell’inchiesta di Bolzano è emerso addirittura che alcuni dipendenti del Coni (due medici e una segretaria sono sotto inchiesta) si sarebbero attivati per neutralizzare questi controlli. Ora, ricevute le carte da Bolzano, anche la Procura Antidoping del Coni si è trovata costretta ad avviare la sua indagine interna: di questi giorni le audizioni dei primi 65 atleti.

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Da almeno 15 anni, come previsto dalla legge 376 del 2000 evocata puntualmente da Stefano Mei, si sarebbe dovuta istituire una commissione totalmente indipendente per togliere la gestione dell’antidoping italiano alla giurisdizione del Coni, al fine di evitare che il controllore fosse il miglior alleato dei controllati. Adesso, dopo l’annuncio clamoroso del Presidente Malagò, bisognerà capire se l’autonomia dei Nas, rispetto al Coni, potrà essere davvero garantita. Qualche dubbio rimane. Il pool dei Carabinieri, infatti, opererà negli stessi uffici dell’Agenzia Antidoping del Coni (Coni-Nado) e utilizzerà anche buona parte dello stesso personale, quello che in buona sostanza avvisava gli atleti dei controlli o chiudeva un occhio se questi si rendevano irreperibili. Il problema, insomma, (mentre scriviamo) è aperto.

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Peraltro, l’assoluta necessità di creare un’authority antidoping veramente indipendente dal Coni, al di là della partnership con i Nas, è stata ribadita in un’interpellanza firmata dall’onorevole del Pd Paolo Cova. Il testo del documento è molto chiaro:

“La presenza dell’Agenzia Coni-Nado in seno al Coni, disattende quanto previsto dalla legge 376/2000 che evidenzia con assoluta chiarezza la necessità di un organo terzo rispetto al Coni. L’attuale presenza dell’Agenzia presso il Coni si configura come una forma di sistema ‘controllore-controllato’ che non garantisce l’indipendenza dei controlli e accertamenti sugli atleti, in particolare quelli di vertice e inseriti nelle competizioni olimpiche e mondiali e inoltre non ottempera alle indicazioni dell’Agenzia Mondiale Antidoping (Wada) che raccomanda la costituzione di Agenzie nazionali indipendenti rispetto al sistema sportivo”.

ANTIDOPING, QUALI STRATEGIE?

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Ma su quali meccanismi si regge la macchina dei test antidoping? Attualmente i controlli possono contare su un alleato in più: si chiama Adams ed è il sistema informatico online ideato e sviluppato dall’Agenzia Mondiale Antidoping (Wada), che consente l’utilizzo di un archivio unitario, a livello nazionale e internazionale, di gestione delle informazioni sulla reperibilità degli atleti, così come l’organizzazione di controlli mirati. Parte del lavoro è rivolto all’individuazione delle nuove sostanze: oggi sono oltre 400, erano 250 nel Duemila, da 10 a 20 negli anni ’60.

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Ovviamente i controlli funzionano se realmente si pretende dagli atleti di comunicare la loro reperibilità e rintracciabilità. A quel punto si analizza la loro partecipazione alle gare, il loro rendimento, oppure si interviene per appurare cosa nasconde un’interruzione dalle gare per qualche settimana. Troppo spesso, però, come abbiamo già sottolineato, tale sistema si è inceppato, alimentando i sospetti di manovre occulte delle federazioni internazionali, più interessate a proteggere il loro patrimonio di atleti che incentivare i controlli e correre il rischio di squalifiche.

SPORT, L’ERA DEL COMA ETICO

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Ma quali sono le discipline sportive più inquinate dal doping? Risponde ancora Stefano Mei.

Ovviamente quelli dove forza e resistenza hanno un ruolo primario: atletica, ciclismo, nuoto, sollevamento pesi. La risposta è data dalla ‘semplicità’ relativa dello svolgimento di queste discipline. Al contrario gli sport più impermeabili alle condotte illecite sono le specialità più tecniche, proprio perché l’abilità tecnica è un dato assai poco ‘controllabile’. Ad esempio, nel calcio, forza e resistenza sono due componenti essenziali, ma non così tanto come la tecnica individuale. Il rischio è di avere giocatori che perdono le loro capacità tecniche per farli diventare più potenti, con la conseguenza di imbastardire e snaturare le loro unicità. Questo non significa che in alcuni sport tecnici il doping non sia utilizzato

In alcune discipline gli atleti vengono trasformati in robot, riempiti di medicinali, nella certezza, speranza o indifferenza che qualcosa di grave non accada mai. Gli sportivi spesso sono incoscienti dei rischi che corrono, ma talvolta sono anche consenzienti, perché un buon ingaggio o un ricco premio per una vittoria sono, per taluni, più importanti della salute (per esempio nel ciclismo). E’ lo specchio di un ‘coma etico’ e di deriva della società in cui domina la cultura della prestazione e della supremazia.

“Credo si tratti dello specchio dei tempi”, spiega Stefano Mei. “Il successo ad ogni costo, la prospettiva di ‘facili’ guadagni. In fondo, il tifoso ama quello che i media gli danno da amare. Che un campione sia dopato o no cambia poco. Tranne, magari, quando poi il ‘dio’ cade nella polvere e tutti si affrettano a scaricarlo. E’ successo nell’atletica con Ben Johnson e succede oggi nel ciclismo con Lance Armstrong, come se nessuno degli addetti ai lavori avesse capito o sapesse la verità”.

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La ‘malapianta’ cresce più rapidamente dell’antidoto e colonizza nuove frontiere e quote di mercato. Ad esempio l’universo dei dilettanti, fondato sulla retorica dei buoni sentimenti, della partecipazione e del benessere, svela, da almeno 15 anni, il suo volto peggiore: una bolgia popolata da allenatori isterici e genitori ultrà, che infettati da una corrosiva aggressività, reclamano dai figli prestazioni al top, ovvero la strada più facile per esporsi a brucianti fallimenti e pessime abitudini («devo vincere, non vinco e allora cerco una scorciatoia»).

“Non vorrei sembrare pessimista”, rilancia Stefano Mei, “ma credo che si sia un po’ perso il significato di ‘allenatore’. Credo che questa figura debba essere in primis un educatore. Ovvio, poi, che deve saper far rendere i suoi atleti nella maniera migliore, ma principalmente, a mio avviso, deve rappresentare un esempio e indicare al suo atleta quello che è sano e quello che sano non è. Se sviluppi certi valori puoi resistere alle sirene, sopportare le facili lusinghe e le soluzioni facili; possono prospettarti qualsiasi traguardo, ma se un atleta crede in sé stesso e soprattutto se è leale non accetterà mai di imbrogliare”.

I pericoli iniziano ad addensarsi nelle categorie dei giovanissimi, un pianeta  vastissimo popolato da ragazzini e amatori assillati dal demone del successo ad ogni costo. Efficace, più di mille analisi, la frase assai cruda di Ezio Vendrame «sogno una squadra di orfani», frase che circola tra molti allenatori di ‘calcio baby’ alle prese con padri e madri che inveiscono contro i genitori della squadretta avversaria o insultano l’allenatore che non fa giocare il figlio. Comportamenti dissennati che continuano ad ammorbare il pianeta dei dilettanti, un mondo, spesso bellicoso, finito più volte, e non a caso, nell’orbita del calcio scommesse e nel vortice del doping.

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La conferma arriva da Giovanni Malagò, il Presidente del Coni ovvero la casa del movimento sportivo italiano con 4milioni e 500mila atleti tesserati, più di 1milione di operatori sportivi e una forza di 65mila società:

“Nel mondo dei professionisti stiamo messi abbastanza bene, anche se c’è stata recentemente qualche mela marcia. Nel mondo degli amatori e dei dilettanti invece c’è una grande diffusione di queste sostanze a quello che mi dicono. Stato e Comitato olimpico devono collaborare per lottare contro questo fenomeno“.

Ma quanto è diffuso il doping tra dilettanti e amatori? Impossibile saperlo. I controlli sono pochi, il fenomeno sfugge alle statistiche e la guerra di cifre è inevitabile. Secondo le stime elaborate dalla Commissione Vigilanza e Controllo del Doping (Cvd) del Ministero della Salute, una percentuale compresa fra il 3 e il 4,5% degli atleti ricorrerebbe alla chimica per alterare le proprie prestazioni, mentre più della metà abuserebbe di sostanze ‘regolari’, ma comunque pericolose. In realtà, secondo una proiezione realisticamente attendibile, nella fascia sterminata di amatori e dilettanti italiani, 1 praticante su 4 (pari al 25%), almeno una volta nella sua vita, avrebbe assunto sostanze dopanti.

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Il popolo dei dopati si ingrossa ulteriormente tra culturisti e praticanti del fitness: incrociando i dati di diversi rapporti di Guardia di Finanza e Nas, almeno una palestra su dieci, in Italia, si rivela luogo di spaccio, commercio e consumo di doping.

IL DOPING UCCIDE

Ci si dopa in molte discipline,  dalla pallamano al rugby, fino al ciclismo dove la percentuale degli amatori trovati positivi a una o più sostanze si impenna. Ci si dopa spesso senza neppure sapere lontanamente che rischi si corrono, quali sono gli effetti collaterali di un farmaco, quali le conseguenze.

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Recenti indagini condotte dai Nas hanno evidenziato che molti praticanti di livello amatoriale affollano gli ambulatori dei medici dei ‘campioni’ per farsi prescrivere la ‘cura’ miracolosa che può consentire loro di battere in gara il collega di ufficio o il vicino di casa. Ma non solo. Molti ‘atleti della domenica’ si affidano al doping ‘fai da te’: acquistano i preparati via internet senza sapere che la contraffazione avvelena dal 35 al 50% dei prodotti.

Ci preoccupa il dato legato ai medicinali illegali contraffatti”, conferma il Comandante dei Nas Generale Cosimo Piccinno.

Il traffico illegale online di farmaci contraffatti è in aumento e garantisce margini di guadagno superiori, in proporzione, persino al traffico di cocaina. Dietro questa filiera agisce la criminalità organizzata (mafia, ‘ndrangheta, mafia giapponese, cinese e russa), perché i ricavi sono enormi. Un euro investito su uno stupefacente rende 16 volte, sui farmaci 2500. Il giro d’affari accertato è di 50 miliardi l’anno. Il nostro problema principale riguarda chi si dedica allo sport amatoriale e in particolare i giovani: devono capire che il doping fa male e in alcuni casi ha effetti letali“.

Moltissimo, però, anche in questo ambito, sfugge alle statistiche e ai controlli. Secondo stime approssimative, condivise anche dai Nas, il volume delle transazioni potrebbe toccare in realtà la soglia dei 200 miliardi.

“E’ nata la figura del ‘cyber pusher”, spiega Piccinno,“le farmacie online sono stimate intorno alle 40mila; l’acquisto delle sostanze è anonimo e facile, i prezzi sono economici, abbattuti anche del 60-70%. Non c’è controllo e persiste un elevato rischio di adulterazione. In questi casi i rischi per gli incauti acquirenti sono davvero estremi. Cultura malata e modelli assurdi che gli sportivi seguono meccanicamente. Non sapendo, forse, che l’ormone della crescita fa scoppiare cuore e fegato e che l’Epo porta alla trombosi. Almeno trenta atleti, in Italia, sono già morti così. Ma non è tutto. Su 600 medici di famiglia intervistati”, rivela Piccinno, “240 non sanno che è illegale acquistare farmaci con prescrizione online. Il deficit, dunque, è anche informativo”.

Ma oggi come vengono pianificati i controlli?

Con scelte mirate, grazie all’attività di militari qualificati con Master di ‘ispettore investigativo antidoping’. “Dal gennaio 2013 ad oggi 4397 denunciati, 612 arrestati, oltre 2milioni e mezzo di fiale sequestrate”.

Occorre tuttavia considerare che molte delle sostanze dopanti nascono con finalità terapeutiche all’insorgenza delle patologie e qui inevitabilmente il quadro si complica poiché entra in gioco la storia clinica dell’atleta. Luigi Frati, Presidente del Comitato Esenzione ai Fini Terapeutici (Ceft) chiarisce che “i farmaci somministrati devono essere strettamente correlati alla patologia. Non autorizziamo a gareggiare fino al termine del presunto effetto della terapia”.

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Se per Massimiliano Rosolino, campione olimpionico di nuoto, “bisognerebbe fare l’antidoping subito dopo la gara, rinviando al giorno successivo la premiazione”, Marco Bernardi, Presidente della Commissione Antidoping CIP, conferma che il ricorso al sostegno chimico sta diventando consuetudine persino tra gli atleti diversamente abili del movimento paralimpico.

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Così il doping, diventato di massa, presenta affinità con il mercato della droga e genera traffici internazionali dove si intrecciano gli interessi delle multinazionali farmaceutiche e della criminalità organizzata. Secondo l’Associazione Libera, in Italia, ogni anno, si consumano sostanze per un giro di affari di 425 milioni di euro. Usi e abusi che coinvolgono circa 190mila atleti e 70mila body builder per un totale, sicuramente sottostimato, di 260.000 assuntori.

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Secondo gli inquirenti, Nas e Guardia di Finanza, la mafia e la camorra gestiscono un mercato in crescita di circa il 30% all’anno, con numeri da grande industria. Un problema non solo italiano, che in Germania, ad esempio, hanno iniziato ad affrontare. Il Comitato olimpico tedesco ha deciso, infatti, di estendere la nuova legge antidoping, che prevede tre anni di carcere a chi fa uso di sostanze vietate, anche agli atleti amatoriali, incassando l’appoggio dell’Agenzia mondiale antidoping (Wada) e dell’agenzia nazionale tedesca antidoping (Nada).

Da un rapporto dell’Afld (Agence Française pour la Lutte au Dopage):

«Quello che succede tra i dilettanti è molto grave. I prodotti utilizzati sono gli stessi dei professionisti, ma vengono assunti in maniera casuale ed in quantità impressionante: abbiamo visto un padre somministrare al proprio figlio due o tre volte la dose di EPO alla quale fanno ricorso i professionisti. Quando andiamo sul luogo delle competizioni vediamo i genitori riempire le borracce, rompere delle fiale e utilizzare polvere».

Tammaro Maiello, Procuratore Capo della Procura Antidoping del Coni ha fotografato la situazione nel corso del recente Convegno ‘Lotta al Doping: peculiarità normative e strategie di contrasto. Aspetti giuridici ed operativi’.

«Nell’azione di contrasto è indispensabile l’interazione con le Procure della Repubblica e con i Nas: non possiamo agire solo sul sentito dire, dobbiamo acquisire dati certi a partire dai verbali di sequestro, dagli interrogatori e dalle intercettazioni. Abbiamo valorizzato tecniche di audizione: prima l’atleta veniva e raccontava la sua versione. Oggi vengono preparate domande circostanziate sulla base della lettura degli atti. Dal 1 luglio 2013 al novembre 2014 sono stati disposti 219 deferimenti. Non si persegue solo il campione affermato, assicura Maiello, ma anche il soggetto che frequenta le palestre».

LA SPOON RIVER DEL PALLONE

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Se 40 anni fa, con pochi ritrovati tecnologico-farmaceutici, si poteva correre tre volte più del normale, figuriamoci oggi. Manca ancora, nell’Italia senza memoria, una grande ‘Spoon River‘ di tutti quelli che sono stati uccisi o si sono gravemente ammalati per la follia senza scrupoli di dirigenti e medici sportivi. Il calcio è una prateria di lapidi premature: leucemie e SLA hanno colpito decine di giocatori professionisti in attività tra gli Anni ’70 e ’90, trattati alla stregua di cavie umane.

Scorrendo l’elenco delle morti premature nel mondo del pallone (da Armando Segato, il primo, a Bruno Beatrice, Mauro Bicicli, Andrea Fortunato, Fabrizio Gorin, Ernst Ocwirk, Nello Saltutti, Gianluca Signorini, Giuliano Taccola, Guido Vincenzi, Andrea Borgonovo), si rimane sbigottiti di fronte a una tale ecatombe. E poi ancora retine distrutte, ictus, infarti. Oppure giocatori che spariscono per mesi, infortunati non si sa per cosa, e senza fare controlli antidoping poiché sono ‘sotto cure mediche’; chi ha problemi di cocaina e viene lasciato fuori rosa per non essere smascherato dai controlli e perdere valore di mercato, chi, al termine delle partite, a volte ha la bava alla bocca o si lecca le labbra come fosse disidratato per aver corso troppo senza sentire la fatica o la sete.

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Bruno Beatrice, simbolo della Spoon River del calcio

«I calciatori sono più omertosi dei mafiosi» ha dichiarato una volta Raffaele Guariniello, il magistrato della Procura della Repubblica di Torino, da anni impegnato in indagini sul fronte delle morti sospette nel mondo del calcio.

«Nella mafia i testimoni si trovano, nel calcio no, è molto difficile». Guariniello più volte ha precisato di «non voler criminalizzare il calcio, ma neppure di volerlo assolvere a priori». Le cifre, del resto, appaiono chiare: in Italia, tra i calciatori, la Sla (Sclerosi laterale amiotrofica) ha un tasso di diffusione ventiquattro volte superiore alla media.

Chiamata anche morbo di Lou Gehrig, (dal nome del giocatore statunitense di baseball che fu la prima vittima accertata di questa patologia), malattia di Charcot o malattia dei moto-neuroni, la Sla è una malattia degenerativa e progressiva del sistema nervoso. Ma il ‘morbo del pallone’, così come lo ha definito il giornalista Massimiliano Castellani, è solo uno dei terribili mali che affligge il mondo del calcio perché al sospetto di diffuse ed invasive pratiche dopanti è legata anche la morte per tumori o leucemie di numerosi altri ex calciatori.

Con il libro Nel fango del dio Pallone (2000 Kaos edizioni), Carlo Petrini è stato il primo a denunciare apertamente la pratica del doping che già negli anni ‘60 e ‘70 in Italia era dilagante. Quattro anni più tardi ha fatto altrettanto Ferruccio Mazzola, (figlio di Valentino e fratello minore di Sandro), il quale con il libro Il terzo incomodo, ha mosso una serie di pesanti accuse al mondo del calcio. Ha raccontato di come il ‘mago’ Helenio Herrera somministrasse anfetamine per bocca e nel caffè, ipotizzando che le cause delle morti di molti dei calciatori della Grande Inter fossero da attribuire anche alle strane pratiche in voga all’epoca: un filo nero che collegava l’osteosarcoma di Carlo Tagnin, il tumore alla colonna vertebrale di Armando Picchi, quello al pancreas di Giacinto Facchetti e i decessi prematuri di altri tre calciatori. Petrini e Mazzola hanno trovato il coraggio di parlare e scrivere, denunciando in maniera dettagliata le pratiche diffuse nel loro mondo. Il sistema però li ha isolati, rinnegando quanto da loro denunciato e intentando addirittura cause legali nei loro confronti.

Da IL SECOLO XIX dell’11 novembre 2015

Sandro Mazzola: «Doping all’Inter? Mio fratello Ferruccio aveva ragione»

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Clamoroso dietrofront dell’ex stella della Grande Inter: «Ricordo quegli strani caffè e i giramenti di testa».

Un dietrofront che farà parlare a lungo. Ma, come dice il proverbio, meglio tardi che mai. «Doping? Mio fratello Ferruccio aveva ragione»: la retromarcia di Sandro Mazzola, ex stella della Grande Inter arriva da una lunga intervista concessa al Corriere dello Sport, ed è clamorosa.

A due anni e mezzo dalla morte di Ferruccio, “Sandrino” gli dà ragione per la prima volta dopo liti e incomprensioni. Per capirci qualcosa in più, però, bisogna prima fare un passo indietro fino al 2004 quando Ferruccio Mazzola, figlio di Valentino, capitano del Grande Torino, e fratello minore di Sandro, asso dell’Inter di Herrera, pubblicò il libro “Il terzo incomodo“.

In quel libro Ferruccio, anche lui ex giocatore della Grande Inter, lanciò accuse pesanti contro il “Mago” accusandolo di aver distribuito ai suoi giocatori pasticche, spesso sciolte nei caffè, che servivano a migliorare le performance dei calciatori nerazzurri. In un’intervista rilasciata all’Espresso un anno dopo Ferruccio Mazzola confermò le sue accuse facendo infuriare l’Inter e il più famoso fratello Sandro. Il club nerazzurro chiese 3 milioni di euro per danni morali e patrimoniali da devolvere in beneficenza, richiesta poi respinta dal giudice. Sandro Mazzola, invece, deluso dalle parole del fratello decise di interrompere i rapporti con Ferruccio.

Ora, a distanza di due anni e mezzo dalla morte di Ferruccio, deceduto il 7 maggio 2013 a Roma, dopo una lunga malattia, Sandro Mazzola cambia clamorosamente versione:

«Mio fratello aveva ragione, le cose sono vere – ha detto al Corriere dello Sport – e negli ultimi tempi io e lui ci siamo ritrovati dopo alcune incomprensioni. Io ad un certo punto cominciai ad avere, in campo, dei fortissimi giramenti di testa. Andai dal medico che mi fece fare tutte le analisi e mi disse che dovevo fermarmi, che avevo problemi grossi».

«Il dottore mi disse – ha proseguito l’ex numero 10 nerazzurro – che dovevo stare fuori almeno sei mesi. Ma questo Herrera non lo voleva.

Da dove nascevano quei valori sballati? Non lo so. Ma so che, prima della partita, ci davano sempre un caffè. Non so cosa ci fosse dentro. Ricordo che un mio compagno, Szymaniak, mi chiese se prendevo la simpamina. Io non sapevo cosa fosse ma qualcosa che non andava, qualcosa di strano, c’era».

Valerio Arrichiello – IL SECOLO XIX, 11 Novembre 2015

Come riporta il giornalista Alessandro Gilioli su L’Espresso:

Nel giro di quelli che hanno giocato a pallone negli anni ‘70 e poi hanno fatto ‘acting out’, i Carlo Petrini, i Ferruccio Mazzola, nessuno ha dubbi che sia stato il doping ad ammazzarli. Nel Cesena di quel periodo, arrivato a qualificarsi per la Coppa Uefa, ci si faceva in quantità industriali, due sono già morti (Mario Frustalupi e Giorgio Rognoni), un altro ha la Sla (Gianluca De Ponti), un quarto, Bruno Beatrice, ha avuto talmente tanta sfiga da giocare anche nella Fiorentina dove lo hanno riempito di Micoren, Corex e raggi Roentgen e la leucemia lo ha portato via che non aveva ancora quarant’anni, «con la schiuma alla bocca, lividi sul corpo, piaghe dappertutto, i buchi delle flebo ancora visibili sul braccio», ha raccontato una volta la vedova Gabriella.

Anni ‘70 e ’80, il ventennio del baratro. Il mondo è ancora diviso in due blocchi. Gli atleti del Patto di Varsavia sono, nella stragrande maggioranza, compromessi. I laboratori della DDR sono una fucina di ‘mostri’. Le atlete hanno sembianze maschili. Molte di loro, terminata la carriera agonistica, non potranno più procreare. Alcune saranno condannate al cambio di sesso.

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In Italia, sempre in quegli anni, lo scempio si consuma soprattutto nel calcio. E’ la fotografia di una generazione inconsapevole inghiottita dal doping. Nello Saltutti se ne è andato nel 2003: non fumava, non beveva, nemmeno il caffè; il primo della sua carriera da calciatore, a Manchester, gli fu passato nel sottopassaggio dal personale della Fiorentina: “Bevete, vi farà bene”. Saltutti disputò la sua migliore partita di sempre. La mattina dopo barcollava. Il primo infarto lo colse nel 1998, il secondo fu fatale. Ci dicevano: “Queste vi aiutano a rompere il fiato” ricordava il portiere Massimo Mattolini che nel 2000 subì un trapianto di rene dopo otto anni di dialisi, per poi morire nel 2009. Mimmo Caso, ala gigliata, un giorno scoprì di essere affetto dal Linfoma di Hodgkin. Ai magistrati ha raccontato di essere stato sottoposto regolarmente a terapie a base di iniezioni di Cromatom, Cortex e Neoton, a volte direttamente in vena:

“Né io né i miei compagni ci siamo mai preoccupati di verificare quello che ci veniva somministrato; ci fidavamo ciecamente dei medici”.

Lo stesso Giancarlo Antognoni, simbolo della Fiorentina e perno della Nazionale, uno dei più grandi calciatori italiani del dopoguerra, ha ammesso l’uso di Cortex, Micoren e di “flebo che il medico ci diceva contenere zuccheri o integratori”. Nel 2004 ebbe un infarto: “I medici rimasero molto sorpresi del mio caso, lo trovarono anomalo”.

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Chissà come, chissà perché, oggi (nel momento in cui scriviamo) Antognoni è un emarginato di lusso. Ha chiesto un appuntamento ai dirigenti della Fiorentina per poter rientrare nel calcio da dirigente, lavorare e offrire la sua esperienza. Non è mai stato ricevuto: una vergogna.

Donati come si riconoscono i ‘puliti’?

Sono quelli che nella maggior parte degli sport solitamente si piazzano subito dopo i campioni e gli atleti di vertice. Vanno cercati intorno alla trentesima posizione, a parer mio”.

Come siamo arrivati a questi punti?

Il doping è sempre esistito, ma è degenerato alla fine degli anni ’70 quando l’industria farmaceutica ha intravisto nel fenomeno la possibilità di business. E dopo aver saturato il mercato dei malati, ha puntato quello dei sani. Tutto è ben mimetizzato, in parte per debolezze dei controlli, in parte per la furbizia dei dirigenti sportivi: fino a 10 anni fa era più facile carpire i segni del doping. In alcune specialità sportive è una piaga pressoché totalizzante. Quando sono arrivati gli ormoni, come gli anabolizzanti che sviluppano i muscoli o l’ormone Epo che sviluppa il numero dei globuli rossi, il ciclismo ha fatto proprie queste pratiche. Devo dire che in questo sport c’è l’aggravante dell’opera di alcuni medici che venivano dall’atletica e che hanno contribuito a diffondere l’uso degli ormoni tra i corridori. Io sono diventato un uomo di confine, ho provato a combattere contro quel sistema da dentro e sono stato messo ai margini, quindi ho trovato la mia strada all’esterno del mondo dello sport. Su incarico del Csm, ho formato 90 magistrati. Molti di questi hanno oggi in mano le inchieste sul doping: chi pensa di poter agire come faceva fino a qualche anno fa, sappia che oggi non lo può più fare”.


Per L’INDRO – Pubblicato il 3 febbraio 2015 – Copyright

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di Virna Viani – Genoa News Chronicle / Io, reporter

GENOVA TERRA DI BADANTI

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Il passaparola corre rapido di casa in casa: dai villaggi andini peruviani alla sterminata Lima, fino alle popolose città ecuadoregne di Quito e Guayaquil. In questa parte di America Latina tutti sanno che la storia, talvolta, si può percorrere anche al contrario e che è possibile realizzare il sogno del lavoro e del piccolo risparmio proprio in quel luogo lontano dove la tragica epopea della Conquista ha avuto inizio: Genova, la città natale dell’Ammiraglio Colombo, al centro della Liguria, la terra che con la sua forma, evoca malinconicamente ‘un sorriso rovesciato’. Ma per quale motivo questa dolorosa via dell’emigrazione, fatta in primo luogo di madri e di figli, porta proprio all’ombra della Lanterna?

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Perché a Genova e in Liguria la richiesta di assistenza familiare è altissima. La spiegazione è tutta racchiusa in due cifre: A Genova gli over 65enni sono oltre 166mila e da soli rappresentano il 27,3% del totale dei residenti. Per ogni bambino con meno di sei anni si contano almeno tre anziani (un rapporto che fino a trent’anni fa era stimato uno a uno). Ancora più alto il dato regionale: la Liguria è la regione più vecchia d’Italia e tra le più vecchie del mondo (il rapporto tra anziani e giovani è di 240 ogni 100 ragazzi): su una popolazione complessiva di 1milione e 587mila abitanti gli over 65enni sono 440mila; si tratta di una percentuale altissima, pari al 27,7%, che in Italia sarà raggiunta solo tra 24 anni.

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“Nel 2038 i numeri dell’Italia saranno molto simili al dato della Liguria di oggi”, confermano dal Dipartimento di Geriatria dell’Ospedale Galliera di Genova. “Il confronto con gli altri Paesi è ancor più significativo: gli Stati Uniti, per dare un’idea, raggiungeranno il dato ligure fra non meno di mezzo secolo. Per numero di ultra 75enni, la Liguria si pone addirittura al di sopra della nazione più ‘vecchia’ al mondo che è il Giappone“.

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Genova, città ‘grigia’ per eccellenza, è anche la capitale degli ultracentenari. Secondo gli ultimi dati forniti dal Comune, sono 295 coloro, che nel 2013, hanno oltrepassato il limite del secolo. Ben 263 sono donne, solo 32 gli uomini. Un dato che fa del capoluogo ligure, tra le grandi città, quella col più alto numero di over 100 rispetto agli abitanti, preceduta solo da Trieste. Che Genova sia una sorta di empireo della longevità lo dimostra il raffronto col 2003 quando gli ultracentenari genovesi erano 136, meno della metà rispetto ad oggi. Un dato assolutamente sbalorditivo se si considera che in soli dieci anni la percentuale degli ultracentenari è aumentata del 117 per cento, mentre gli ultranovantenni hanno registrato un più 78 per cento a dispetto dei giovani, che invece, sono calati del dieci per cento.



L’INTERVISTA

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Da una decina d’anni, la Liguria è un laboratorio per lo studio e la gestione dell’invecchiamento

L’affermazione è di Claudio Regazzoni, vice Presidente di Auser Liguria.

Purtroppo la politica non riesce a prendere coscienza che siamo di fronte ad una rivoluzione demografica che non ha precedenti nella storia. Per il 2015 il già inadeguato Fondo per le non autosufficienze dopo il previsto taglio di 100 milioni passerà a 250 milioni. Esangue rimane anche il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali: appena 300 milioni. Si aggiungano allo scenario i tagli agli Enti locali, ed ecco che la prospettiva in termini di servizi risulta davvero tetra per milioni di italiani. Di fattole politiche sociali sono state smantellate nel 2011, quando il Fondo Nazionale subì un taglio di 1miliardo di euro. Risorse mai più ripristinate”.

Come fate a sostenere la situazione?

“Grazie al lavoro svolto negli ultimi 10 anni, in Liguria siamo riusciti a creare una rete di 120 associazioni di volontariato impegnate sul versante dell’assistenza domiciliare agli anziani più fragili. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di donne sole che cerchiamo di sostenere con visite giornaliere, e nei casi più critici, con permanenze continue a domicilio, anche di una settimana. Inoltre stiamo cercando di rafforzare il cosiddetto ’accompagnamento protetto’, che scatta quando l’anziano deve sottoporsi a visite ed esami nelle strutture sanitarie cittadine. Ma tutto questo, ovviamente, non basta. Non a caso, il ricorso massiccio alle badanti rappresenta la prima, e più immediata risposta, verso un’emergenza che assolutamente va superata”.

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Liguria come laboratorio per lo studio dell’invecchiamento. Cosa significa?

“Significa modificare totalmente l’approccio al problema. Nessuno ne parla, ma siamo di fronte a un cambiamento sociale epocale. Oggi un sessantenne con figli e nipoti, spesso, ha ancora i genitori. Per le famiglie è un carico di enorme impegno e responsabilità. Pertanto occorre investire sulla prevenzione, affrontare l’invecchiamento con un approccio culturale radicalmente nuovo e coinvolgere la società civile per colmare il vuoto tra le generazioni”.

In che modo?

“A Genova e in Liguria, da sei anni, abbiamo avviato un progetto basato sull’invecchiamento attivo: ginnastica dolce, turismo, relazioni, lezioni di informatica, apprendimento, cammino, creazione di spazi condivisi. Siamo riusciti a coinvolgere 30mila anziani. E’ la prima regione che ha investito su questo tipo di risposta. L’invecchiamento non va più affrontato solo nell’ambito della malattia. Lo dicono gli studi e lo conferma la nostra esperienza”.

Il punto dolente sono i finanziamenti?

“Indubbiamente. I piani, le competenze, la forza del volontariato ci sono. Mancano le risorse. E per una regione come la Liguria, con una quantità così alta di anziani, è un problema serio ed urgente. Mi preme un dato. I servizi garantiti dalla rete delle 120 associazioni, attive sui 19 distretti socio-sanitari della Liguria, potevano contare su un finanziamento annuale di 800mila euro erogato, in egual misura, da Regione Liguria e Fondazione Carige. Dopo il noto scandalo che ha investito Carige non potremo più contare sui 400mila euro della Fondazione. Tutto, per ora, è fermo al solo finanziamento regionale. Malgrado il dimezzamento andremo comunque avanti, con la forza di un sogno: fare della vecchiaia un progetto di vita”.



IL SILENZIOSO ESERCITO DELLE BADANTI UCRAINE

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La fama di ‘Genova Jurassic City’ ha travalicato i confini e ha raggiunto anche il più profondo Est-Europa. Kiev, Ternopil, Odessa, Leopoli e soprattutto  Khmelnitsky, centro agricolo della Podolia, la regione ucraina da cui provengono quasi tutte le donne arruolate in Italia come badanti. Solo nel Duemila, a Genova, le assistenti ucraine erano appena 72, oggi sono quasi 2mila, sospese tra la necessità impellente di un salario e la preoccupazione per lo spettro di un conflitto, sempre più armato, nel loro paese. Donne eroiche e dolenti, dagli sguardi duri e tristi. In fuga da stipendi o pensioni miserabili, che hanno scelto di sacrificarsi per mantenere i figli all’università o i mariti disoccupati. Il loro guadagno medio è di 700 euro al mese.

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A Genova abitano dove lavorano, nelle case degli anziani che assistono. Fanno tutto: pulizia della casa, la spesa, le infermiere. Lavorano anche 60 ore a settimana, spesso senza giorno libero, pure di notte e senza essere pagate di più. La crisi economica ha impattato sugli standard minimi di lavoro, provocando, quasi sempre, un peggioramento. Non hanno uno spazio per loro. Il pochissimo tempo libero lo trascorrono insieme, sedute a piccoli gruppi sulle panchine di fronte alla stazione Brignole. Rarefatti i contatti con i genovesi. Ma quante sono le badanti a Genova? Impossibile determinarne il numero. Circa 7mila quelle con un contratto di lavoro, almeno il doppio le irregolari sfruttate che ingrossano l’esercito sommerso del lavoro nero.

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Così Genova è diventata in pochi anni la capitale del ‘welfare informale’, settore ad alto tasso di precarietà dove le badanti rappresentano, di fatto, la prima industria. E’ il volto, spesso ignorato, di una città ripiegata su se stessa, curva come le schiene dei suoi anziani. Immagini e situazioni che sono lo specchio di una società genovese ammuffita, stantia, imperniata sulla ‘gerontocrazia’: male tutto italiano che tuttavia, nel capoluogo ligure, assume le dimensioni e i caratteri di un opprimente e invasivo Stato parallelo. L’immobilità prima condizione per assicurare le rendite di posizione alle stesse persone; un po’ come i nobili che affollavano la reggia di Versailles.

I PENSIONATI LAVORATORI

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Tutto a Genova è nelle mani di ‘ex brillanti’, ‘ex famosi’, ‘ex dinamici’ ancorati, con tenacia feroce, alle poltrone di innumerevoli consigli di amministrazione, enti, imprese e organi di informazione. Un settore molto influenzato da questo processo è quello del giornalismo, ambito estremamente delicato perché è il laboratorio dinamico e concettuale di come il territorio si rappresenta e si auto-rappresenta. Un comparto in cui la valorizzazione dell’esperienza di un giornalista e la speculazione diretta al risparmio da parte dell’editore, vivono in equilibrio su un filo estremamente labile. Il precariato tra i giovani abbonda, mentre giornalisti, ormai in pensione, ri-occupano posti di lavoro con contratti di collaborazione.

I GIORNALISTI ETERNI

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Il problema esiste e va combattuto”, spiega Alessandra Costante, segretaria dell’Associazione Ligure dei Giornalisti. “In Liguria, contiamo una ventina di casi, tra colleghi pensionati o pre-pensionati, che continuano a lavorare, mediante contratti di collaborazione. Rispetto ad altre regioni si tratta, comunque, di un numero decisamente limitato”.

Cosa accade in pratica?

“A 58- 60 anni un giornalista raggiunge l’apice della carriera, ma rappresenta un costo. L’azienda decide allora di ricorrere allo strumento del prepensionamento: fa uscire il collega dalla porta principale e lo fa rientrare dalla finestra perché, ovviamente, non vuole rinunciare alle sue competenze e capacità. Scattano così i contratti di collaborazione. L’azienda riduce i costi, ma scarica sull’Inpgi (l’istituto di previdenza della categoria) il fardello del prepensionamento”.

Riassumendo, il giornalista continua a prestare servizio nell’azienda che lo ha messo in pre-pensionamento, oppure si ricicla in altre testate, sottraendo collaborazioni e lavoro a colleghi precari e freelance.

“Di fatto, è così. Ma su questo punto la linea dell’associazione è molto chiara: l’editore che non vuole privarsi del giornalista ‘esperto’, deve mantenere e rispettare il contratto. Fino ad oggi, a Genova e in Liguria, siamo riusciti a contenere il problema. Inoltre, grazie alle forti restrizioni previste dalla normativa 416 contenuta nella Legge di riforma dei prepensionamenti, molti di questi contratti di collaborazione andranno sicuramente rivisti”.

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GLI INAMOVIBILI GERONTOCRATI

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I ‘gerontocrati’, tuttavia, non mollano mai. Li vedi, placidamente adagiati nelle platee di convegni, raduni ed eventi. Eternamente ‘presenti e rappresentanti’ in difesa di un potere, che nella Genova di oggi, inizia comunque a mostrare qualche cedimento. Emblematico il caso di Carige, la prima banca cittadina che per un quarto di secolo è stata guidata, con il piglio e i metodi del padre – padrone, da Giovanni Berneschi finito alla veneranda età di 76 anni nel mirino della Procura per avere, tra l’altro, distratto e riciclato all’estero 21milioni di euro dal comparto assicurativo di Carige Vita Nuova.

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Traducendo brutalmente, il banchiere, secondo l’accusa, avrebbe rubato un fiume di denaro alla sua banca. Uno scandalo enorme che ha scosso alle fondamenta i potentati della città di cui Berneschi è stato, per oltre due decenni, collettore di cariche, poteri e soldi. Proprio le amicizie speciali, i legami forti con i piani alti dell’industria e della politica di sinistra e di destra, hanno sgretolato il suo dominio costruito in larga parte sui prestiti erogati ai soliti selezionati ‘amici’.

Il potere è in mano alle stesse figure che invecchiano restando sedute sulle stesse sedie, e inevitabilmente diventano fattore di attrazione di interessi. E’ successo e succede in Italia, ma a Genova questo andazzo è legge, attitudine, vizio genetico. 

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Gerontocrazia vizio antico – L’Espresso del 12 maggio 1963

Sempre inamovibili, gli over 65 restano una risorsa indispensabile per le famiglie, soprattutto in questo momento di crisi. Del resto, sono loro, in moltissimi casi, a supportare i figli, a sostenere economicamente gli eredi e a mantenere inalterato lo stato delle cose. A Genova scalfire questa diga e rimuovere le incrostazioni significa intraprendere una sfida titanica.

“Ma quando lasciano le poltrone?”, “Quando si tolgono dalle scatole?”, “Quando potrà respirare la città ?

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Domande spontanee e ancora inevase, lanciate puntualmente dalle nuove generazioni in perenne attesa. Una città gestita da ‘over 65’ viaggia fatalmente su ritmi, prospettive e dinamiche ancorate a forme e modalità del passato. L’avidità nel comandare, nell’esserci comunque e dovunque, a Genova si è cristallizzata in una imperturbabile oligarchia ‘agé’ che ‘del largo ai giovani’ semplicemente se ne infischia.

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Nicola Camurri, 31 anni, attore, regista ed operatore nel settore della comunicazione e dei new media, ci offre un’analisi cruda e illuminante.

“Se si afferma che Genova è seduta o bloccata, si presuppone che prima fosse in piedi o in cammino. In realtà non si è mai mossa, non è mai partita. E chi manca, sempre e comunque, al confronto? I ragazzi e le ragazze che si trovano a dover subire le decisioni prese da altri. Genova, semplicemente, non prevede i giovani, li esclude anche nella fruizione degli spazi. Porto un esempio: nelle giornate del post-alluvione, la città distrutta, sporca di fango e decisamente meno superba, ha offerto paradossalmente una delle sue immagini migliori ed esteticamente più coinvolgenti”.

Perché?

“Perché è andata in scena una straordinaria rivoluzione dello spazio. Con le strade sporche di fango, nobili e notabili sono scomparsi, il volto della gerontocrazia si è improvvisamente eclissato, e gli spazi, pur nel dramma, sono diventati accessibili. I ragazzi spalavano, comunicavano, si divertivano, perché erano protagonisti di una costruzione che solitamente viene loro negata. Genova ha restituito un’immagine visiva di sé completamente rovesciata: pur essendo sporca, la città sorrideva”.

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Torniamo alle dinamiche di esclusione. Come si manifestano?

“Gli esempi sono molti. A Genova le selezioni non si basano sul merito, ma sull’appartenenza e fedeltà ad un gruppo. Funziona così: un giovane che dedica il suo tempo alle relazioni, vince sempre rispetto al collega che coltiva e arricchisce il proprio talento e la propria creatività. Sono regole non scritte che, tuttavia, compromettono la serietà della selezione. E’ un sistema dopato che ha contaminato da tempo anche il sistema teatrale. Gran parte di quel mondo, che ha resistito per anni alla sua stessa mediocrità, lo ha fatto per interventi finanziari e politici esterni che alla lunga hanno minato il sistema stesso. Il risultato di questa dipendenza dal gruppo dominante, di questa impostazione novecentesca, è sotto gli occhi di tutti: viene soffocata la creatività, si ha paura della novità. In questo modo il sistema pubblico finanzia spettacoli che spesso non piacciono”.

Altri esempi?

“Il Teatro Stabile di Genova, una delle istituzioni culturali più importanti del paese, ha indetto un bando di concorso internazionale per selezionare il nuovo direttore. Sembra, secondo indiscrezioni, che gli unici candidati siano genovesi. Nemmeno liguri, ma genovesi. E faccio notare che il bando è internazionale. E’ un fatto gravissimo. Vuol dire che la città non attrae. E’ il fallimento di un sistema autoreferenziale”.

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Allora, cosa rimane?

“I ragazzi genovesi sanno che non è più possibile delegare la rappresentanza. Ma sono disillusi. Ho 30 anni, e quando parlo con ragazzi di 20, ricchi di talento, mi accorgo che si stupiscono perché c’è qualcuno che li ascolta, li apprezza e li incoraggia. In tanti vanno via. Sono giovani laureati che preferiscono fare i lavapiatti in giro per l’Europa, piuttosto che mettersi a cercare un lavoro adeguato ai loro studi. Sanno che con questo sistema dopato e soffocato dalla gerontocrazia, a Genova è impossibile affermarsi”.

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Questa, dunque, la situazione reale che si vive a Genova: l’enorme fascia della vecchiaia sofferente e assistita, l’anzianità utilizzata come leva del potere perpetuo, il disagio delle nuove generazioni confinate nelle retrovie e nel limbo dell’attesa. Cerchiamo allora un elemento, una storia di speranza. Forse lo sport può aiutare.

UNA PICCOLA STORIA DI SPERANZA

Incontriamo Lanfranco Marasso, 49 anni (per i parametri genovesi poco più di un adolescente), Presidente della ‘Quadrifoglio s.r.l. Sportiva’, la società che a Genova, per conto del Comune, gestisce Villa Gentile, campo scuola di Atletica Leggera, centro nevralgico dell’attività agonistica di tutta la Liguria e unico impianto genovese idoneo ad ospitare gare ufficiali previste dal calendario nazionale di atletica leggera.

Marasso, cosa offre Genova ai ragazzi che vogliono praticare sport?

“E’ una città sostanzialmente sacrificata al calcio che è riuscita anche nell’impresa di abdicare al ruolo di capitale italiana ed europea dell’Atletica. Fino agli Anni ‘80 disponeva di 5 impianti, senza contare il Palasport, teatro, per almeno due decenni, di record e imprese leggendarie. Col tempo, per mancanza di sensibilità, questo patrimonio si è dissolto. Tra le strutture destinate esclusivamente all’atletica è rimasto il campo scuola di Villa Gentile, l’unico del levante ligure fino a La Spezia”.

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L’impianto di Villa Gentile era gestito da Sportingenova, società del Comune, liquidata con un passivo spaventoso di 31 milioni di euro. In seguito, si è candidata la Quadrifoglio, che mediante un bando, ha assunto la gestione del campo scuola per 15 anni. Cosa vi ha spinto ad intraprendere questa avventura?

“L’amore per l’atletica e per la città. Il mio ’vero’ lavoro di dirigente industriale mi porta a girare il mondo. Il raffronto tra Genova e altre città estere, per certi aspetti, è avvilente. Nella gestione di Villa Gentile siamo concentrati su alcuni obiettivi: buona gestione, sostenibilità economica, equilibrio amministrativo, fare dell’impianto un elemento aggregatore per i giovani atleti, e realizzare un progetto di profonda ristrutturazione. Il tutto, mantenendo ovviamente inalterata la natura della convenzione con il soggetto pubblico che stabilisce le tariffe. Faccio un esempio: un genovese non tesserato, presentando un certificato medico, spende solamente 1 euro al giorno per correre sulla pista. Un’altra opportunità è offerta dalla ‘running card’ annuale, che ha un costo di 25 euro e permette ad amatori e agonisti di prepararsi alle competizioni”.

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Difficoltà?

“Molte. Gestire Villa Gentile costa 120mila euro all’anno, 10mila euro al mese. La nostra è una società con una forte componente volontaristica. Siamo impegnati in una fondamentale missione sociale e applichiamo tariffe calmierate, oltretutto in uno sport considerato ‘povero’. Nello stesso tempo, però, dobbiamo rispettare una montagna di adempimenti: bilanci, sicurezza, burocrazia, complessità normativa. Una mole assurda. Talvolta ho quasi la sensazione che l’Amministrazione pubblica non sia più partner, ma controparte. Dovessi rivolgere un appello al Presidente del CONI Giovanni Malagò, lo esorterei a farsi garante delle società sportive dilettantistiche, affinché sia avviata rapidamente una radicale semplificazione rispetto alla pubblica amministrazione. Per la gestione dello sport sarebbe un bel passo avanti”.

Malgrado gli ostacoli, quali risultati avete raggiunto? 

“Con 60mila presenze annue e 200 ragazzi al giorno, siamo il punto di riferimento delle scuole genovesi. Si devono poi aggiungere i frequentatori ‘extra-scolastici’ che sono 100mila. Abbiamo raggiunto il pareggio di bilancio, sia nel 2012, che nel 2013. Abbiamo creato 4 posti di lavoro a tempo indeterminato. Questi numeri sono la nostra forza”.

Operazione coraggiosa e virtuosa che tuttavia è solo una goccia nel mare di difficoltà che incontrano i giovani a Genova. Mancano spazi per lo sport e per la cultura, e laddove si siano sperimentate forme di autogestione, come è accaduto per il Centro Sociale ‘Buridda, vengono combattute risolutamente, senza peraltro offrire alternative o prospettive. I giovani del centro sociale, la primavera scorsa, sono stati cacciati con un blitz della Polizia dalla sede abbandonata dell’ex facoltà di Economia che avevano occupato nel 2003.

Manifestazione pe ril centro sociale Buridda a Genova

Dall’amministrazione comunale, che si è dichiarata del tutto ignara rispetto all’operazione di sgombero, solo un silenzioso imbarazzo. Così le istituzioni, con le armi della forza o dell’indifferenza, hanno sancito la condanna di un’esperienza, condotta certamente da un collettivo politicamente e culturalmente schierato, ma che comunque ha avuto il merito di rappresentare la cronica carenza di spazi, il vuoto di proposte e l’isolamento di una generazione.

IL FRENO DEL “MANIMAN”

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Nella cultura genovese l’espressione dialettale ‘maniman’ incarna il pensiero tipico della città. ‘Maniman’ significa timore, accenno a pericoli, novità o cambiamenti che potrebbero manifestarsi. E’ una forma di prudenza rinunciataria diventata, nei secoli, filosofia e carattere peculiare di un popolo: meglio non rischiare, mai. Nello stallo di questi anni, proprio l’atteggiamento ispirato dal ‘maniman’, rischia di diventare miscela micidiale per una città, che al contrario, ha fame di energia, freschezza e innovazione. Spinte che necessariamente solo le nuove generazioni possono trasmettere. Anche con l’azzardo e l’incoscienza.


Per L’INDRO – Pubblicato il 28 ottobre 2014 – Copyright