LA CRICCA DEI VELENI

di Colette Miano – Genoa News Chronicle / Io, reporter

CARICHI MISTERIOSI

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Nelle notti senza luna i fanali dei Tir rischiaravano i tornanti dell’Aspromonte o gli itinerari impervi della profonda Lucania. Le comunità locali – fedeli per cultura e per paura al principio fondativo dell’omertà – “fatti gli affari tuoi e camperai cent’anni” – assistevano silenziose a quel viavai di mezzi pesanti, anomalo e misterioso, che raggiunse il suo culmine tra la fine degli anni ’70 e l’inizio dei ’90.

Dov’erano diretti quei Tir a pieno carico? Perchè viaggiavano di notte in luoghi così remoti e sperduti? E soprattutto, cosa trasportavano?

Quasi tutti sapevano, ma non parlavano…solo sussurri, voci di paese. Per scardinare quell’impenetrabile muro di gomma bisognava confidare in qualche circostanza straordinaria che tempestivamente si presentò al tramonto degli anni ’80. Tre fatti, all’apparenza scollegati, determinarono le condizioni propizie per indagare su quello strano traffico che da tempo rompeva l’isolamento e la tranquillità immota delle montagne meridionali: 1986, il disastro della centrale nucleare di Chernobyl; 1987, il referendum che segnò l’uscita dell’Italia dal nucleare; 1989, la caduta del Muro di Berlino e il conseguente dissolvimento dell’impero socialista sovietico. Le conseguenze potenzialmente delicatissime per la sicurezza degli Stati e una rinnovata coscienza ambientale, civile ed ecologica, costrinsero a monitorare il traffico clandestino di armi e di rifiuti tossici e radioattivi, affari che oltretutto solleticavano gli appetiti delle mafie.

Armi dalle caserme (ormai fuori controllo) dell’Est europeo e smaltimento illegale di veleni altrettanto redditizio e meno rischioso del narcotraffico: su questi due fronti le organizzazioni criminali italiane e balcaniche svilupparono la loro metamorfosi. Nacquero così, alla fine degli anni ’80, le ecomafie.

In un primo esposto di Legambiente, datato 2 marzo 1994, si denunciava l’esistenza, in Aspromonte e in Basilicata, di discariche abusive riempite di materiale tossico e radioattivo, trasportato con navi presso i porti del Sud e successivamente in montagna a bordo di furgoni, camion e tir. Nella denuncia si evidenziava come i territori calabrese e lucano si prestassero particolarmente alla realizzazione dei piani criminali di smaltimento, sia perchè i porti erano scarsamente controllati, sia perchè l’Aspromonte con le sue caverne naturali e la Basilicata con i siroi – cavità del IV secolo a.C. scavate nella roccia – apparivano i luoghi ideali dove occultare i rifiuti velenosi.

NAVI A PERDERE

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Sulla scorta di quell’esposto ambientalista, un pugno di uomini – coordinati da Francesco Neri, magistrato della Procura di Reggio Calabria, e guidati da Natale De Grazia, 39 anni, capitano di fregata della Marina Militare – iniziarono a raccogliere prove sulle pratiche di smaltimento illegale. Osservazioni, confidenze di pentiti, sequestri, perquisizioni, notti insonni e una scoperta che lasciava sgomenti: i veleni non venivano solo interrati, ma anche inabissati in mare con il sistema delle “navi a perdere“, carrette cariche di veleni affondate volontariamente con la complicità di armatori che sarebbe più appropriato definire pirati. Il vantaggio era duplice: i criminali incassavano sia l’indebito risarcimento ottenuto dalle compagnie assicurative, sia le tangenti per l’illecito smaltimento dei rifiuti pericolosi. Truffare ed inquinare rendeva ricchi. Secondo un dossier di Legambiente, trasmesso alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sui rifiuti istituita nel 2009, nel giro di 20 anni, tra il 1979 e il 2000, gli affondamenti dolosi e i naufragi simulati sono stati almeno 88.

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Nel disegno criminoso – oltre a servizi segreti ed apparati di diversi Stati – risultavano coinvolti faccendieri, massonerie e industriali corrotti e spregiudicati che potevano contare su granitiche coperture politiche e sulla manovalanza della ‘ndrangheta.

LA LOBBY DEI VELENI

Durante le indagini sugli “affondamenti pilotati” De Grazia scoprì che solo a Genova, dal 1985 al 1992, 131 navi effettuarono “normali” carichi e scarichi di materiale radioattivo sulle banchine del porto, quindi ben oltre il 1987, anno in cui l’Italia aveva scelto la moratoria sul nucleare. Proprio in Liguria, il tenace pool di investigatori trovò un prezioso alleato nella Procura di Savona che stava indagando sul ritrovamento di 6mila fusti di scorie tossiche in una cava di Borghetto Santo Spirito gestita da personaggi legati alla ‘ndrangheta. La procura di Locri accerterà in seguito che quei veleni stavano per essere inviati in Aspromonte dove sarebbero stati interrati negli anfratti naturali controllati dalle cosche.

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De Grazia e i suoi uomini acquisirono altre importanti informazioni da Carlo Giglio, stimato ingegnere dell’Enea, l’Agenzia Nazionale per l’Energia e per le nuove tecnologie che già nel 1985 aveva pubblicato un opuscolo nel quale si ipotizzava la possibilità di smaltire rifiuti radioattivi nelle profondità marine. L’ingegner Giglio, classificato dagli investigatori come il supertestimone “Billy“, riferì di essere riuscito a scoprire che nel centro Enea di Rotondella, nei pressi di Matera, la registrazione degli scarti nucleari era truccata per alterare il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo. Informazioni che hanno permesso di accertare l’esistenza di un traffico illegale di componenti chimiche e nucleari tra Italia e Paesi del terzo mondo (in particolare Irak, Pakistan e Libia) dove venivano utilizzate per la produzione di armamenti atomici. “In quella centrale dell’Enea – confidarono altri testimoni – tecnici iracheni e pachistani andavano e venivano”.

DE GRAZIA, IL CAPITANO EROICO

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Le indagini sulla lobby dei veleni toccavano nervi scoperti, interessi occulti ed affari miliardari. De Grazia e i suoi uomini si accorsero di essere pedinati, intercettati e filmati. Bersagliati, a più riprese, da condotte intimidatorie. Con il procedere delle indagini il clima attorno al pool si fece più pesante. De Grazia (foto sotto) era certo che tra i suoi collaboratori si annidasse una “talpa“, un informatore che riferiva le mosse delle indagini a personaggi legati ai servizi segreti deviati; é sembrato che forze occulte controllassero passo passo gli investigatori. Evidentemente De Grazia stava pestando piedi importanti.

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Sempre più angosciato confidò questo sospetto ai familiari, senza, tuttavia, allentare la dedizione e l’impegno. E’ stato scritto che De Grazia ha combattuto a mani nude contro i carri armati, ed è vero.

COMERIO, IL RE DEI VELENI

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Nella primavera del 1995, grazie all’apporto della Guardia Forestale di Brescia guidata dal colonnello Rino Martini, gli investigatori puntarono l’attenzione su una misterosa holding denominata O.D.M (Oceanic Disposal Management) che si occupava dell’inabissamento in mare di rifiuti radioattivi. Agli inizi del 1994, ad esempio, la O.D.M. risultava in trattativa con quattro ministri dell’Ucraina, paese che aveva una disperata necessità di smaltire enormi quantitativi di scorie radioattive. Si scoprì che il capo dell’organizzazione, Manfred Convalexius, era in ottimi rapporti con un imprenditore italiano, un certo Giorgio Comerio di Busto Arsizio (foto sotto), titolare della Comerio Industry con sede legale a La Valletta (Malta). Comerio vantava amici influenti; da loro otteneva favori e coperture e appena poteva ricambiava. Le cronache ci ricordano ad esempio che nella sua casa di Montecarlo ospitò per una breve, ma dorata latitanza, l’amico stragista Licio Gelli,  maestro Venerabile della Loggia P2 e anima nera dei misteri italiani.

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Il pool di De Grazia strinse il cerchio sul re dei veleni. La perquisizione effettuata il 12 e 13 maggio 1995 nell’abitazione dell’intraprendente Comerio, a Garlasco, fornì agli investigatori dell’epoca uno spaccato decisamente inquietante: fotografie e prove di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l’autorizzazione a smaltire nel mare africano rifiuti radioattivi; documenti sul progetto Dodos (finanziato dalla CEE e poi abbandonato) che consisteva nel lancio, sui fondali marini di Africa e Nord Europa, di scorie radioattive attraverso speciali penetratori (roba da fantascienza, eppure maledettamente reale); prove di contatti con paesi arabi e indiani; transazioni in dollari su banche svizzere; atti di vendita di telemine; elenchi di navi da caricare e inabissare. Un verminaio di misfatti, le prove tangibili della follia umana. La ciliegina sulla torta nell’agenda personale di Comerio: nella pagina corrispondente al 21 settembre 1987 l’annotazione “lost the ship” (nave perduta), guardacaso proprio la data dell’affondamento, a largo Spartivento in Calabria, della motonave Rigel carica di uranio additivato, un metallo tossico e radioattivo.

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Da un successivo accertamento presso la sede genovese dei Lloyds di Londra emerse che dal 1987 al 1993 ben 23 navi erano colate a picco nel mare blu della Calabria. Tutti affondamenti volontari per riscuotere il premio assicurativo e nel contempo gettare a mare ogni sorta di rifiuti. Molte di quelle navi erano passate o addirittura partite dal molo 7 del Porto della Spezia conosciuto per anni, in tutto il mondo, come “the toxic berth” il molo dei veleni, punto di carico dei rifiuti diretti soprattutto verso la Calabria e l’Africa.

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Illuminante la confessione resa il 14 luglio 1995 da Marino Ganzerla, uno dei soci di Giorgio Comerio:

Circa 10 anni fa venni a conoscenza di progetti di affondamenti di navi cariche di rifiuti chimici, il cosiddetto sistema delle “navi a perdere”, la grande truffa alle assicurazioni. Se ricordo bene il porto più sospetto per i traffici di rifiuti era quello di La Spezia, mentre per gli affondamenti dolosi le coste dello Ionio erano preferite, sia perché erano gestite dalla ’ndrangheta, sia perchè lo Ionio è molto profondo. Aggiungo che i marinai delle navi colate a picco potevano essere recuperati anche da navi amiche che transitavano appositamente vicino al punto di affondamento. Gli stessi marinai venivano poi trasportati in paesi esteri anche perché erano sempre stranieri, anche se a volte il comandante o il direttore di macchina erano italiani o comunque gente fidata degli spedizionieri”.

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Secondo l’ipotesi avanzata all’epoca dalla Procura di Reggio Calabria, l’ingegner Comerio, riusciva, grazie a coperture di altissimo livello, a stringere affari con signori della guerra e trafficanti, tutti interessati ad entrare nel gigantesco business dei rifiuti più nocivi e indesiderati.

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TRASPORTI PERICOLOSI

Una storia sciagurata quella del trasporto di veleni. Per regolamentare questi traffici le autorità internazionali stabilirono nuove regole con la Convenzione di Basilea, firmata dal nostro governo solo nei primi anni ’90. Prima di allora (e con modalità più occulte anche in seguito) buona parte delle scorie industriali italiane e delle forniture di armi venivano esportate – spesso al limite della legalità – verso i paesi africani, latinoamericani e del Medio Oriente. Decine di navi RO RO (dotate di portellone posteriore in grado di caricare direttamente container e mezzi dalla banchina), o nel peggiore dei casi navi simili a bagnarole, solcavano i mari con le stive piene di veleni: plutonio, torio, uranio, cesio, algofrene (gas considerato uno dei principali killer dell’ozono), scorie, armi varie da Guerra Fredda ed altre sostanze chimiche o componenti nucleari vendute chissà a chi o smaltite chissà dove. Le cronache marittime e i rapporti delle Capitanerie degli anni ’70 e ’80 documentano navigazioni simili a odissee. Tra le disavventure più folli quella della nave Zanoobia che dopo un periplo di un anno e mezzo, tra quarantene, divieti di autorità straniere e malori a bordo per le esalazioni, scaricò fusti di scorie chimiche su un molo del porto di Genova. Era il giugno del 1988 e la sorte di quei bidoni colmi di veleni resta ancora oggi ignota. “Come siano stati smaltiti non mi è dato sapere ammetterà nel 2010 il supertestimone Renato Pent, a.d. della Jelly Wax, davanti alla Commissione parlamentare sui rifiuti.

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Oltretutto a bordo della Zanoobia non c’erano ‘solo’ scarti chimici. Da una nota riservata del Sismi, datata 5 dicembre 1989, emerge un retroscena inquietante. Secondo l’informatore Fallaha Abdulsalam “la presenza di scorie radioattive a bordo della motonave siriana Zanoobia era stata originariamente rilevata da un’unità della Marina militare sovietica, che incrociava nel mare antistante i porti di Latakia e Tartous. I sensori impazzirono, scattò l’allarme perché “la radioattività rilevata era stata inizialmente attribuita ad un’offensiva israeliana“. Nel Mediterraneo si rischiò addirittura l’escalation militare. Poi i russi capirono che si trattava del carico della Zanoobia e l’allarme militare cessò.

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Tra i documenti sequestrati a Comerio emersero, inoltre, costanti riferimenti alla società di navigazione Ignazio Messina & C. alla ribalta della cronaca, più volte, per la collezione spaventosa di morti sul lavoro, incidenti navali, naufragi sospetti e condotte marittime disinvolte. Tra i fatti più gravi – facciamo un salto temporale al 7 maggio 2013 – è impossibile dimenticare la sciagurata manovra della motonave Jolly Nero andata a schiantarsi, dopo una retromarcia di quasi 4 miglia, contro la Torre piloti del Porto di Genova (costruita improvvidamente a fil di banchina). Bilancio del crollo: 9 morti, una strage. Ma torniamo alle navi dei veleni. All’epoca delle indagini sull’affaire Comerio, la Messina venne “attenzionata” per il controverso e impressionante naufragio della Rosso (ex Jolly Rosso). Era il 14 dicembre 1990. La nave, adibita al trasporto di rifiuti tossici e merci pericolose, si arenò come un gigante malato sulla spiaggia di Formiciche, nel Comune calabrese di Amantea, dopo aver navigato per alcune ore alla deriva in seguito all’abbandono dell’equipaggio.

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Le diverse inchieste sullo strano incidente e sulle possibili connessioni con i traffici internazionali di armi e rifiuti sono state archiviate all’inizio degli anni 2000, con il completo proscioglimento della compagnia.

ILARIA ALPI

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Dall’esame dei documenti sequestrati a Comerio gli investigatori trovarono riscontri e collegamenti con la Somalia che già da tempo figurava tra i luoghi di destinazione e smaltimento di rifiuti tossici. In una cartellina con l’etichetta “Somalia” gli investigatori scovarono un documento relativo a Ilaria Alpi, la giornalista del TG3 uccisa a Mogadiscio il 20 marzo 1994 insieme al suo cameraman Mira Hrovatin. Secondo il procuratore Francesco Neri si trattava del certificato di morte di Ilaria, secondo altri della notizia Ansa sulla sua uccisione. Chiarire non è stato più possibile. Quel documento è sparito, una “manina” lo ha trafugato dai faldoni dell’inchiesta.

Resta in ogni caso significativo che all’interno di una cartella intitolata “Somalia“, nella quale erano contenuti documenti relativi allo smaltimento di rifiuti tossici e a contatti con esponenti somali, vi fosse un atto riguardante la morte di Ilaria Alpi, in un’epoca in cui nessun potenziale collegamento era stato ancora ipotizzato tra la morte della giornalista e il traffico di rifiuti.

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Già dal 1993 Ilaria Alpi indagava su un apocalittico traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici che avrebbe visto, tra l’altro, il coinvolgimento della Comerio e la complicità di servizi segreti e istituzioni italiane di primo livello. Una gigantesca “connection” i cui segreti più indicibili e occulti erano protetti dalla generica facciata della cooperazione. Armi e rifiuti anzichè cibo e medicine. La giovane inviata aveva accertato che i rifiuti velenosi prodotti nei paesi industrializzati venivano dislocati in diversi siti africani, in cambio di armi e tangenti scambiate con clan politici e bande locali.

Flashback: negli anni ’90 la Somalia è sicuramente uno dei luoghi più pericolosi del mondo. Ilaria Alpi è lì, sulla linea del fronte, impegnata a documentare gli sporchi retroscena di una cruenta guerra civile che ha come principali antagonisti il presidente ad interim Ali Mahdi e il generale Aidid.

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La cronologia scandisce il precipitare degli eventi. Il clima intorno alla giornalista diventa sempre più ostile. Le sue inchieste rigorose, efficaci, oneste e deontologicamente inappuntabili non piacciono, non sono gradite. Ilaria Alpi è una cacciatrice intelligente di verità occulte. Evidentemente le sue domande e i suoi pezzi toccano nervi scoperti e interessi che non devono essere svelati. Il 12 novembre 1993, sempre in Somalia e in circostanze misteriose, viene ucciso il sottufficiale del Sismi Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano. Nei primi mesi del ’94 la giornalista approda a un punto cruciale della sua inchiesta. Segue una pista che la porta a Bosaaso, distretto nel nord della Somalia che sta per essere trasformato (sotto la discreta sorveglianza di uomini dei servizi segreti italiani legati a Gladio) in una discarica di veleni. Qui raccoglie informazioni scottanti sulle dinamiche del malaffare, segue le rotte sospette e i carichi di armi di alcune navi della compagnìa Shifco (il suo chiodo fisso), sente o vede qualcosa di orribile, ma non avrà il tempo di approfondire. Il 20 marzo, tornata a Mogadiscio, Ilaria Alpi viene trucidata assieme al suo operatore Mira Hrovatin. Uccisa su commissione, a colpi di kalashnikov, perchè sapeva troppo.

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Ma non basta. Attorno ai cadaveri dei due reporter si consumano oltraggi e bieche manovre. Durante il rimpatrio delle salme qualcuno apre i sigilli dei loro bagagli e fa sparire alcune cassette delle registrazioni – video e alcuni preziosi taccuini della giornalista. Probabilmente Ilaria Alpi aveva scoperto i risvolti clamorosi (mandanti, organizzatori, ammontare delle tangenti?) di un traffico criminoso di armi e rifiuti (ormai incombente) che non a caso si radicherà progressivamente dopo la sua eliminazione. Una parziale conferma arriva l’11 novembre 1995: Alì Islam Haji Yusuf, membro dell’Autorità per i diritti umani di Bosaaso, segnala che al largo della città di Tohin, due navi sconosciute stavano effettuando un’operazione insolita: mentre una scavava sui fondali marini, l’altra seppelliva in quelle buche dei container dal contenuto misterioso. L’operazione stava creando tensione tra la popolazione locale“. Una denuncia da brividi che rappresenta, di fatto, la chiusura del cerchio.

Riassumendo: Ilaria Alpi e Mira Hrovatin – diventati testimoni ingombranti – cadono nella mortale imboscata il 20 marzo 1994. Pochi mesi dopo, nella regione di Bosaaso, dilagano, alla luce del sole, le operazioni di occultamento dei veleni: davanti alla popolazione allibita, container dal contenuto misterioso vengono scaricati nei fondali marini.

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dal blog “La Torre di Babele” di Pino Scaccia

In un appunto ritrovato dai genitori sul taccuino di Ilaria Alpi c’era scritto “sei navi”. Le navi dei veleni. La giornalista del TG3, prima di essere uccisa, intervistò il sultano del Bosaaso che gestisce quel tratto di costa somala individuato come uno dei dodici siti preferenziali per lo scarico di rifiuti tossici della ditta Comerio. Grandi misteri che s’intrecciano con il traffico di armi che segue spesso le stesse vie.

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LA MORTE DEL CAPITANO DE GRAZIA

Il 12 dicembre 1995 è stato l’ultimo giorno di vita di Natale De Grazia. Nei primi minuti del 13 dicembre, a pochi giorni dal suo 39esimo compleanno, il capitano muore improvvisamente per cause che a molti appariranno quanto meno sospette. De Grazia – recita la traballante ricostruzione ufficiale – era in viaggio con due colleghi. Accanto a sè l’inseparabile valigetta nera con le deleghe d’indagine sulle “navi a perdere”. Terminata la cena in un ristorante, il malore nel sonno, mentre si trovava in auto, e la morte istantanea certificata dal medico di guardia dell’ospedale di Nocera Inferiore. Sulla base dell’autopsia, effettuata dalla dottoressa Simona Del Vecchio, si concluse che Natale De Grazia (giovane, sano e atletico) era morto improvvisamente per insufficienza miocardica. Eppure, coloro che all’epoca videro la salma dell’ufficiale stentarono a credere a quel referto. Francesco Postorino, cognato di De Grazia, ricorda, ancora oggi, un corpo martoriato:

“Quando ho visto il corpo di mio cognato sono rimasto scioccato, era quasi irriconoscibile, aveva il volto gonfio, il naso gonfio come se avesse preso una testata, era tutto pieno di lividi, come se qualcosa gli fosse esploso dentro. Sotto il costato, all’altezza dell’ascella aveva una ferita a forma di triangolo, sembravano bruciature fatte con un ferro incandescente, una cosa strana. Il dubbio che mi viene è che potessero essere dei segnali di tortura”.

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I lividi e i segni sul volto e sul corpo del capitano De Grazia potevano essere compatibili con una morte improvvisa?

 I familiari di Natale De Grazia, per nulla convinti dalle conclusioni dell’autopsia, chiesero ed ottennero la riesumazione del cadavere per un secondo esame che però venne affidato ancora una volta, con una procedura assai discutibile, a Simona Del Vecchio (foto sotto).

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Eventuali tracce di sostanze velenose, mai cercate nella prima autopsia, non furono più trovate nella seconda a causa dei 16 mesi trascorsi e della putrefazione in atto. L’esame, nel confermare la morte improvvisa dell’adulto, seppellì l’inchiesta sul decesso sotto la pietra tombale dell’archiviazione, lasciando tuttavia inalterati i tremendi sospetti. Da allora, sulla morte di Natale De Grazia aleggiano almeno tre cause: quella ufficiale di morte naturale, come sancito nei referti delle due autopsie effettuate dalla dottoressa Simona Del Vecchio; morte per avvelenamento, come supposto nel 2012 dal dottor Giovanni Arcudi per conto della Commissione parlamentare d’inchiesta; morte violenta per pestaggio e tortura, come ipotizzato in alcune inchieste giornalistiche corroborate da testimonianze inedite.

Di seguito il prezioso reportage pubblicato il 12 dicembre 2019 dalla testata Fanpage:



QUELLE AUTOPSIE FANTASMA…

Altri fatti significativi accaduti nel corso degli anni alimentano i dubbi sulla morte del capitano De Grazia. E’ opportuno, a questo punto, soffermare l’attenzione sulla dottoressa Del Vecchio la cui storia è lastricata di “gialli”. Oltre al caso De Grazia c’è il suo nome sui referti delle autopsie che hanno deciso le sorti delle inchieste giudiziarie su alcuni dei casi più scottanti degli anni ’90: dalla morte del colonnello del Sismi Mario Ferraro, trovato impiccato a un portasciugamani nella sua casa a Roma, alla sparatoria in cui rimase colpito a morte l’ispettore dei Nocs Samuele Donatoni, durante un blitz fallito nel corso del sequestro dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini. Ma non è tutto. Nel 2017 la coroner Del Vecchio è finita nel mirino di un’indagine della Procura di Imperia, città nella quale ricopriva l’incarico di responsabile della Medicina legale. Secondo l’accusa Simona Del Vecchio firmava i certificati di morte senza ispezionare i corpi. In altre parole quelle certificate dalla dottoressa erano autopsie fantasma.

DELVVIl 25 febbraio 2020, dopo un processo per falso, truffa e peculato, la II Sezione penale della Corte di Appello di Genova – per effetto del concordato in Appello – ha abbassato la condanna nei confronti di Simona Del Vecchio, da 6 anni e 6 mesi di reclusione, a 2 anni e 11 mesi.

LA FINE DI TUTTO

Certamente, dopo la morte di Natale De Grazia, l’inchiesta sulle navi a perdere e sui traffici di veleni si arenò. Da allora i paesi industrializzati hanno continuato ad utilizzare il Terzo Mondo e i paesi balcanici dell’Est (vedi Bulgaria) come pattumiere, rendendo legale il traffico di rifiuti tossici attraverso accordi bilaterali o, preferibilmente, sfruttando scorciatoie illegali gestite dal crimine o da apparati politici corrotti. Alcune delle indagini che il capitano stava conducendo non proseguirono e si disperse un patrimonio di informazioni e conoscenze che evidentemente faceva paura a molti. Il 5 novembre 2009, il pentito Francesco Fonti, ex affiliato alla ‘ndrangheta, nel corso dell’audizione davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti, riferì che secondo ambienti ‘ndranghetisti il capitano Natale De Grazia era stato ucciso. Aggiunse che i servizi segreti facevano sparire sia i rifiuti, sia le persone che potevano rappresentare un concreto ostacolo alla prosecuzione dei traffici illeciti. L’ipotesi era quindi che il capitano fosse stato eliminato perchè stava scoprendo cose che avrebbero dovuto rimanere segrete.

Dopo la morte del capitano De Grazia fu commesso l’ultimo oltraggio: alcuni atti investigativi riservati sparirono. Diversi plichi furono violati, lo scatolone sigillato che li conteneva risultò danneggiato da un lato. Mani ignote trafugarono documenti da undici cartelle.

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La tragica scomparsa di Natale De Grazia, vero motore dell’inchiesta sui rifiuti, fu seguita dal rapidissimo smembramento del suo pool: il maresciallo dei carabinieri Niccolò Moschitta andò in pensione all’età di 44 anni. L’altro carabiniere Rosario Francaviglia chiese il trasferimento a Catania. E anche l’ispettore superiore del Corpo Forestale dello Stato, Claudio Tassi, non si occupò più dell’indagine: a suo dire non per sua iniziativa. La disgregazione di quella squadra è una lunga ombra sull’intera vicenda. Un altro mistero italiano irrisolto.


di Colette Miano – Genoa News Chronicle / Io, reporter

Fonti:

  • Atti Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo di rifiuti.
  • Maree online: “Rigel: 25 anni di veleni in fondo al mare“.
  • La Torre di Babele | il blog di Pino Scaccia: “Tutte le navi dei veleni“.
  • Fanpage.it: “La morte del capitano De Grazia“.
  • il Fatto Quotidiano: “Autopsie fantasma. Guai per la dottoressa che certificò la morte naturale per il capitano De Grazia” di Andrea Tornago.