1975, L’ITALIA “SCOPRE” LO STUPRO

di Tania Brando – Genoa News Chronicle / Io reporter

Nel 1975 l’Italia aveva già pianto per i sequestri e le abominevoli uccisioni di due bambini: Milena Sutter ed Ermanno Lavorini; era stata sconvolta dalla madre di tutte le stragi, la bomba assassina di Piazza Fontana; era diventata il campo di battaglia delle prime guerre di mafia e degli scontri di piazza. L’opinione pubblica era quasi assuefatta…ma poi…poi ecco il massacro del Circeo, il crimine che scardinò le nostre difese rendendoci davvero più vulnerabili; il crimine che costrinse gli uomini, tutti gli uomini, a guardare in fondo al pozzo dove oscillano, deformi, i paesaggi oscuri della mente.

San Felice Circeo – La villa dell’orrore. Oggi è in stato di abbandono

1975, COME ERAVAMO

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Nel 1975 la società italiana è percorsa da straordinari cambiamenti. Le donne si inoltrano su un nuovo terreno: quello della libertà e dell’autodeterminazione. Il movimento femminista è in prima linea per l’approvazione del divorzio e dell’aborto.

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Accadono fatti importanti. Nel mese di marzo viene approvata la legge che abbassa la maggiore età da 21 a 18 anni, nascono come funghi le prime tv locali e le radio libere, dilagano le discoteche e si riduce da 24 a 12 mesi il servizio militare obbligatorio di leva. Nello sport l’Italia scopre lo sci grazie alle imprese della valanga azzurra guidata da Gustavo Thoeni e dal commissario tecnico Mario Cotelli. In tv va in onda l’ultima edizione della popolare Canzonissima, gara cult vinta da Wess e Dori Ghezzi con “Un corpo e un’anima”. I dischi più venduti dell’anno sono “Sabato pomeriggio” di Claudio Baglioni, “L’importante è finire” di Mina e “Piange il telefono” canzone strappalacrime recitata da Domenico Modugno e dalla piccola Francesca Guadagno. Il 9 aprile Federico Fellini vince con “Amarcord” il suo terzo Oscar. Al cinema trionfa “Amici miei con la regia di Mario Monicelli, mentre il 27 marzo esce il primo film di Fantozzi”, l’indimenticabile maschera di Paolo VillaggioSi ride, ma il clima è pesante. Il paese entra nella fase più feroce degli anni di piombo. Gli scontri di piazza tra neofascisti e gruppi dell’estrema sinistra generano un rosario di morti. Il 13 ottobre viene approvata la nuova legge sull’ordine pubblico proposta dal ministro Oronzo Reale: le forze dell’ordine possono sparare.

IL BAGAGLIAIO

il bagagliaio

L’anno è il 1975, la notte è quella che segna il passaggio tra settembre e ottobre, tra un martedì e un mercoledì. E’ una notte di vigilia per migliaia di bambini e ragazzi. Mancano, infatti, poche ore al primo giorno di scuola. Sì perchè negli anni ’70, il primo ottobre, San Remigio, coincideva sempre con la riapertura delle scuole. Davanti ai cancelli, accolti dal suono della campanella, si sarebbero radunati i remigini, gli alunni di prima elementare, e gli altri studenti attesi dalla ripresa delle lezioni dopo le lunghe vacanze estive.

Siamo a Roma. Via Pola è una traversa di via Nomentana ed è equidistante dai due celebri polmoni verdi della capitale, Villa Borghese e Villa Ada. La tarda serata sta per essere inghiottita dalla notte fonda, quando improvvisamente accade qualcosa. Il sonno del quartiere è turbato da raffiche ravvicinate di colpi sordi. Una signora si affaccia al balcone, scruta tra la luce pallida dei lampioni. Non vede nessuno, ma quei rumori adesso si sentono meglio. Sembrano manate vibrate contro una superficie, provengono da un ambiente chiuso, sicuramente angusto, e sono accompagnate da lamenti gravi, ma flebili, quasi soffocati, simili a miagolii. Qualcuno, evidentemente oppresso da una costrizione claustrofobica, sta implorando aiuto. L’attenzione della donna si concentra su una Fiat 127 bianca parcheggiata a bordo strada. I colpi arrivano proprio dall’utilitaria…Strano però…l’abitacolo è vuoto…eppure quei battiti febbrili si sprigionano, ovattati, dal ventre dell’auto, più precisamente dal bagagliaio che visibilmente sussulta. Sul posto arriva un metronotte che allerta una pattuglia dei Carabinieri con un messaggio grottesco diventato tristemente celebre:

«Cigno, cigno… c’è un gatto che miagola dentro una 127 in viale Pola»

Sono le 22.50 del 30 settembre 1975 e quello che sta per accadere rappresenterà la parte più ombrosa della memoria collettiva di un intero Paese. I carabinieri che si affannano intorno all’auto non sanno ancora che il portellone di quell’inquietante bagagliaio é il diaframma fisico che delimita le atrocità del male; ed ovviamente non possono supporre che stanno per svelare l’immagine più orrendamente iconica e solenne della cronaca nera di quegli anni violenti.

Quando il cofano viene forzato e aperto, i carabinieri sono sopraffatti dall’orrore. Quello che emerge dal baule è il volto stravolto, grondante di sangue, di una ragazza nuda, il corpo percorso da lividi e ferite. Nello sguardo sospeso i segni di un’esperienza terrificante. La sua espressione è un lago d’angoscia. Cosa avranno visto quegli occhi? Sarà possibile raccontare ed essere creduti? La ragazza è ancora viva, ma è terrorizzata, devastata dallo choc. Donatella Colasanti, questo il nome della creatura, è l’immagine più vicina a Gesù Cristo crocifisso. E’ come se avesse conosciuto Auschwitz, il napalm in Vietnam, le violenze di una dittatura sudamericana. E’ come se avesse assorbito tutto il male del mondo. In quella tiepida notte di inizio autunno, Donatella passa dalle tenebre della pre-morte alla condanna della testimonianza. Per tutta la sua breve vita sarà una sopravvissuta segnata dallo stigma del dolore incarnato. Un fotoreporter al seguito dei Carabinieri, Antonio Monteforte, ferma l’istante: il suo flash abbagliante su quel volto martoriato diventa l’immagine-simbolo della violenza universale sulla donna. Il documento è una frustata alle coscienze.

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Ma non è tutto. La visione di quello strazio irripetibile è ancora parziale. Nel baule, accanto a Donatella Colasanti, c’è un’altra ragazza avvolta in un bozzolo di plastica, il corpo pietrificato, il respiro assente. E’ un angelo rannicchiato, si chiama Maria Rosaria Lopez ed è morta.

Il portabagagli diventa così la metafora del nostro inconscio, il luogo recondito dove si agitano i nostri demoni, il nascondiglio di segreti inconfessabili e nefandezze. Da quella notte, l’ordine impartito da Carabinieri e Polizia ai posti di blocco – “Prego, apra il portabagagli! – risuonerà più inquietante. Anche per le sue particolari modalità, il ritrovamento delle due ragazze anticipa, alla stregua di un lugubre annuncio, il fatto epocale che cambierà la Storia italiana: tre anni dopo, il 9 maggio 1978, sempre a Roma, ma in un altro bagagliaio, quello di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, verrà fatto ritrovare il corpo di Aldo Moro.

  LE BELVE

I loro compagni di classe li ricordano ancora oggi con l’epiteto di “piccoli bastardi”. Angelo Izzo e Gianni Guido erano nella stessa classe: sezione A, liceo classico San Leone Magno, istituto esclusivo, cattolicissimo e privato, frequentato dai rampolli dell’aristocrazia nera e dell’alta borghesia pariolina. Una scuola dove la retta mensile, agli inizi degli anni ’70, raggiungeva quasi i due milioni di lire. Roba per pochi insomma. Il terzo boia del Circeo, Andrea Ghira (foto sotto, ultimo a destra), andava invece al liceo Giulio Cesare, istituto di rango, ma pubblico.

Fascisti legati ai gruppi dell’eversione nera, sbruffoni e spavaldi. Trascorrevano le giornate tra Corso Trieste, Via Salaria e Corso Parioli, rintanati spesso al bar Tortuga, il ritrovo dei fascisti della zona, o imbucati in festini organizzati da altri giovani pariolini. Facile immaginarli mentre si atteggiavano con i jeans alla moda (marca Ufo, Fiorucci o Spitfire), le magliette Lacoste, gli occhiali da sole Ray-Ban, i mocassini color cuoio a punta e il giubbotto di pelle nera dal quale lasciavano intravedere il calcio di una pistola. Sicuri di poterla sempre fare franca: guidare senza patente, picchiare, spacciare, violentare, distruggere. Tanto c’era sempre l’avvocato di papà a tirarli fuori dai guai.

Giovanni Gianni Guido (foto sopra) viveva nel quartiere Nomentano, in un elegante palazzo tra Villa Paganini e Villa Torlonia. Il padre era un alto dirigente di banca, la madre figlia di una nota famiglia di armatori napoletani. Angelo Izzo (foto sotto), figlio di un ingegnere edile, occhi vibranti e tiroidei, era, per sua stessa ammissione, un maniaco sessuale. Lo psichiatra che lo aveva in cura gli aveva diagnosticato una nevrosi maniaco-depressiva e alterazioni della sessualità derivanti da iposviluppo anatomico. Narcisista e istrione, era conosciuto per la sua prepotenza e le sue deliranti teorie sulla divisione in classi dell’umanità: i dominanti, i poveri cristi, i pidocchiosi. Roba da far rabbrividire anche i camerati più convinti. Si racconta che persino Teodoro Buontempo, il capo dei giovani missini romani, il temuto leader del Fronte della Gioventù, gli avesse ordinato di stare alla larga. Già alla fine del 1969 Izzo e Ghira erano stati espulsi dall’associazione studentesca di destra “Giovane Italia” per una disonorevole abitudine: alcuni camerati li avevano sorpresi a nascondere moto rubate all’interno della sezione missina Trieste-Salario.

Andrea Ghira (foto sotto), figlio del costruttore ed ex campione olimpico di pallanuoto Aldo Ghira, era un giovane violento che aveva aderito alle formazioni squadriste di estrema destra. Al Giulio Cesare aveva fondato la fazione Drago che teorizzava il crimine come mezzo di affermazione sociale. I suoi modelli erano Jacques Berenguer e Albert Bergamelli, noti criminali marsigliesi, che nei primi anni ’70 avevano messo a segno, anche a Roma, alcuni sequestri a scopo di estorsione. Una banda di giovani pazzi, insomma, cresciuti nel mito della violenza, “drughi pariolini” che non imitavano solo Arancia Meccanica, ma una vera e propria setta, la Rosa Rossa che univa neofascisti e massoni, notabili e satanisti.  Ghira e Izzo erano orgogliosamente pregiudicati: nel 1973 avevano messo a segno una rapina a mano armata per la quale avevano scontato venti mesi nel carcere di Rebibbia; qualche mese dopo ancora Izzo, assieme a due amici, aveva violentato due ragazzine e perciò era stato condannato a due anni e mezzo di reclusione, mai scontati per una provvidenziale sospensione condizionale della pena. La vasta aneddottica ricavata dalle loro miserabili biografie rimanda a scene sconvolgenti: Ghira che, appena sedicenne, scendeva dalla Jaguar rosa pallido del padre tenendo al guinzaglio un alano nero. Un cane – racconta il giornalista Fabrizio Roncone in un memorabile articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 4 maggio 2005 – che lui bastonava prima di uscire di casa e che, perciò, arrivava davanti al bar Tortuga sbavando inferocito.

Si racconta che tra le tante ragazze cadute nel giro di questa nostrana Arancia Meccanica, nessuna abbia ricevuto fiori, baci e carezze. Quelli che sarebbero diventati gli aguzzini del Circeo ripudiavano le tenerezze e preferivano – per usare un eufemismo – le maniere forti: pizzicotti, sberle e stupri. “Le feste – scrive Roncone – venivano organizzate di nascosto. Se arrivavano loro, Izzo e i suoi, era finita. Case saccheggiate e molte ragazze che forse, ancora adesso, tengono nascosto un segreto tremendo. Il giovedì mattina, però, questi piccoli delinquenti andavano regolarmente a messa. Può sembrare pazzesco, ma è così: il giovedì, al San Leone Magno, era giorno di funzione religiosa e loro erano lì, in prima fila, a mani giunte. La verità è che avevano paura di Padre Barnaba, il loro insegnante di religione. Lo vedevano e tremavano. Izzo, più di tutti. Un comportamento tipico, sembra, nei serial killer”.

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Nel libro di “Io sono l’uomo nero” scritto dalla giornalista Ilaria Amenta, Izzo consegna alcune memorie: “Gli stupri (o sfasci come Izzo chiama le violenze sessuali) per lungo tempo furono per alcuni di noi una specie di hobby cui ci dedicavamo con una frequenza diciamo settimanale. Era persino difficile distinguere le orgette con le nostre schiave sessuali, magari consenzienti, dagli stupri veri e propri”. Un gruppo di ragazzi, di adolescenti, della buona borghesia di Piazza Euclide, a Roma, che provava l’ebbrezza del potere, del dominio, del sopruso sopra una donna. Sempre Izzo racconta: “In quelle situazioni sfogavo molto più che la mia libidine compulsiva. Provavo qualcosa di ben più profondo e mostruoso che mi albergava dentro e che sentivo che premeva per irrompere. Ero nel cuore dell’odio, un po’ le stesse sensazioni che ho provato uccidendo. Quando uccidevo mi eccitavo”. Quegli stupri precedono di un anno e mezzo il massacro del Circeo del 1975 e valgono al gruppo una prima condanna a due anni e sei mesi di carcere. Il tribunale scrive che i condannati hanno dimostrato “una insensibilità che lascia sgomenti”. Poco dopo, però, i tre sono già liberi con la condizionale. C’è una frase, in sentenza, che farà molto discutere, dopo il massacro del Circeo: “Gli imputati, tutti di ottima famiglia, una volta usciti dal carcere imboccheranno la strada giusta”.

Sulla vicenda e sui mostri del Circeo sono stati realizzati film, scritti centinaia di articoli e decine di libri. Un loro compagno di scuola, Edoardo Albinati, nel romanzo “La scuola cattolica”, vincitore nel 2016 del Premio Strega, racconta in maniera magistrale ambienti, dinamiche e segreti di quella “mala educaciòn” all’origine della degenerazione:

Roma, anni Settanta: un quartiere residenziale, una scuola privata. Sembra che nulla di significativo possa accadere, eppure, per ragioni misteriose, in poco tempo quel rifugio di persone rispettabili viene attraversato da una ventata di follia senza precedenti; appena lasciato il liceo, alcuni ex alunni si scoprono autori di uno dei più clamorosi crimini dell’epoca, il delitto del Circeo.

L’INCONTRO

La vita è fatta di incontri. Alcuni possono salvarti ed arricchirti, altri distruggerti ed annullarti. Nell’elegante bar ai piedi del ‘Fungo’, nel cuore dell’Eur, Donatella, 17 anni, e Rosaria, 19, prendono il caffè con due simpatici ragazzi ventenni. Angelo, corporatura minuta, occhi enormi ed eloquio brillante con accenti fanatici, e Gianni, anche lui magro, ma decisamente più attraente, con un folto ciuffo che gli ricade sugli occhi e lo sguardo da seduttore imbronciato. In realtà Angelo Izzo (particolare non secondario) si presenta alle ragazze con il nome di Stefano. Dopo l’arresto rivelerà: “Avevamo l’abitudine di non dare i nostri nomi veri da quando, l’anno prima, io e altri avevamo commesso violenze carnali e pensavamo che usando nomi falsi non potevamo più essere incastrati”. Dunque, Gianni e Angelo/Stefano sono due ragazzi del quartiere Parioli, hanno frequentato le scuole migliori, sono iscritti all’università e alle due ragazze della Montagnola appaiono affascinanti. Tra una chiacchiera e l’altra i due invitano le amiche a una festa fuori Roma, in una villa sul mare. Perchè rifiutare? Non c’è motivo di dire di no. “Noi maschi saremo in tre, portate un’amica!”. “Va bene”, rispondono serene Rosaria e Donatella (foto sotto).

La vita è fatta di incontri, ma anche di “sliding doors”, cioè elementi assolutamente imprevedibili che possono cambiare la vita di una persona in modo altrettanto imprevedibile. Ad esempio perdere un aereo che poi precipita. Ebbene, nella terribile vicenda del Circeo, c’è una ragazza di nome Nadia, invitata alla festa da Rosaria e Donatella, che all’ultimo momento non si reca all’appuntamento per una provvidenziale indisposizione. Sarà la sua salvezza.

E’ il 29 settembre 1975: Gianni Guido e Angelo Izzo si presentano al rendez-vous con mezz’ora di ritardo. Rosaria e Donatella li hanno attesi, probabilmente trepidanti. Sono due ragazze di umili origini, semplici, pulite, ingenue. Due figlie del popolo, lontane anni-luce dai due pariolini (non a caso molti analisti, a tragedia compiuta, classificheranno il massacro del Circeo come un crimine di classe). Rosaria Lopez non ha finito le scuole medie, lavora in un bar e vive – con il fratello, la sorella e i genitori anziani e malati – in due stanze, in via di Grotta Perfetta all’Ardeatino. Anche Donatella Colasanti, studentessa, vive con la famiglia: padre impiegato, madre casalinga, un fratello di un anno più grande di lei. Una vita serena arricchita da un sogno: diventare attrice teatrale. I quattro salgono a bordo di una 127. Alle 17.50 giungono a San Felice Circeo, davanti al cancello di Villa Moresca, residenza affacciata sul promontorio del Parco Naturale con vista spettacolare sull’Isola di Ponza. La villa, spiegano i due ragazzi, è dei genitori di un loro caro amico, il terzo della compagnìa (Andrea Ghira ndr). Era davvero come l’avevano descritta: grande, due piani, taverna e garage, immersa nel verde e isolata. A un passo dal nulla. Le due ragazze vengono accompagnate in giardino. L’atmosfera è serena, qualche chiacchiera, i primi approcci, quel mare mitologico che sembra ancora estivo.

Dal romanzo “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese

“…Una paura indefinita di quell’aria così dolce, quel cielo così chiaro, quelle colline lunghe come lunghe onde che chiudevano nella loro serenità tante inquietudini ed orrori. Eppure, tutto sembrava così gaio e armonioso”.

Sono quasi le 18 e 30 e basta un gesto per precipitare nell’abisso. Sulla scena, all’apparenza idilliaca, irrompe una pistola: ad estrarla è Gianni Guido. Quello che segue è il racconto di un horror reale.

UN MARTIRIO LUNGO 36 ORE

Alla vista dell’arma spianata contro di loro, le ragazze reagiscono con un sorriso di stupore, ma ben presto si rendono conto che non si tratta di uno scherzo. Quei ragazzi così simpatici si trasformano in lupi e sanno essere convincenti: “Apparteniamo al clan dei Marsigliesi. Il nostro capo Jacques Berenguer ci ha ordinato di rapirvi”. Scatta il sequestro, cominciano le sevizie. Le due ragazze vengono legate e chiuse a chiave in un piccolo bagno senza finestre. Picchiate, umiliate, derise, insultate, brutalizzate. I loro corpi usati come lavagne dove esercitare istinti disumani e pulsioni psicopatiche. Donatella e Rosaria, in balìa dei torturatori, diventano oggetti. A un certo punto, particolare raccapricciante, Guido interrompe le sevizie. Deve recarsi a Roma dove per cena lo attendono i genitori: “Perché non dovrei mangiare tranquillamente coi miei?”. Poi tornerà indietro per terminare lo scempio.

Dalla deposizione di Donatella Colasanti:

“Angelo Izzo ci ha fatto uscire a turno dal bagno, ci ha fatto spogliare e ci ha obbligate a stare con lui, ma non è riuscito ad avere rapporti completi nè con me, nè con Rosaria. Verso le 11 di sera è tornato Gianni Guido. Piangevamo, volevamo andare via. Loro ci minacciavano di sverginarci. Questo inferno è continuato per un paio d’ore, fino a quando ci hanno rinchiuso di nuovo nel bagno”.

E’ l’alba del 30 settembre. Donatella e Rosaria sono stremate, hanno bevuto solo acqua, cominciano a sentire freddo. I due aguzzini ricompaiono, ma questa volta, eccitati dalle anfetamine, riversano sulle vittime un cataclisma di ferocia. E’ un delirio di calci, pugni e sevizie che dura fino alle 5 del pomeriggio. Ormai l’unico pensiero delle ragazze è cercare di resistere, non soccombere, non morire.

Dal romanzo-verità “Stupro” di Patrizia Carrano

“No, questo no, per piacere, questo no”. Non l’avrebbe sopportato, ne sarebbe morta. Sbuzzata come un pollo, aperta su un tavolo di marmo e gli intestini rovesciati, colle budella di fuori. Le pareva d’essere artigliata dentro, s’aspettava d’essere rivoltata come un guanto. Una bestia appesa al gancio dei macellai, un capretto aperto e battuto per essere sistemato nella tiella del forno, il boccone del prete unto d’olio per chi se lo sarebbe mangiato…

Il peggio, forse, è passato, ma ecco che improvvisamente la sceneggiatura criminale premeditata dal branco subisce un mutamento che risulterà devastante. In villa, ad animare ulteriormente quel pomeriggio “divertente”, fa il suo ingresso un terzo aguzzino, il ventiduenne Andrea Ghira, il padrone di casa, già condannato per lesioni aggravate, rapina, ricettazione e violazione di domicilio. Di fronte alle ragazze si cala nei panni del suo modello, Jacques Berenguer, il temuto boss del clan dei Marsigliesi. A raccontare quella pantomima folle e brutale è sempre Donatella Colasanti. Lo sconvolgente passaggio è stato pubblicato dalla trasmissione investigativa Chi l’ha visto? E’ il momento della massima abiezione.

“Jacques appena arrivato nella villa non è stato cattivo con noi, non mi ha obbligato ad andare a letto con lui. Poi però ci ha ordinato di fare l’amore tra di noi, io e Rosaria…Poi Jacques ha preso Rosaria per la mano e l’ha portata in una stanza. Io sono rimasta con Izzo e Guido. Angelo Izzo ha provato ripetutamente a prendermi, ma senza riuscirci e siccome a Guido non piacevo mi hanno preso a calci sulla schiena. Approffittando di un attimo di distrazione ho raggiunto il telefono e ho chiamato il 113, riuscendo solo a dire: ‘mi stanno amazzando’. In quel momento sono stata colpita da una spranga di ferro e sono crollata a terra. Mentre mi prendevano a calci sentivo le urla di Rosaria. Dopo un po’ ho visto Jacques. Dietro di lui la mia amica era sporca di sangue e lo implorava di lasciarci andare”.

Sono le 19,30 del 30 settembre 1975. Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira comunicano alle ragazze che le avrebbero addormentate per riportarle a Roma. Preparano due siringhe con del liquido rosso. Guido e Izzo portano Rosaria Lopez al piano superiore della villa, mentre Donatella Colasanti rimane in balìa di Ghira. E’ una separazione drammatica e definitiva. Donatella vede l’amica trascinata dai due carcerieri. E’ l’ultima sconvolgente visione di Rosaria viva. L’epilogo è feroce. Quelle belve senza morale si nutrono della paura delle loro prede. Le iniezioni del misterioso sedativo vengono inoculate, ma non fanno effetto. La situazione precipita. Donatella Colasanti percepisce l’orrore attraverso l’udito: sente che al piano superiore è stato aperto il rubinetto della vasca da bagno…sente l’acqua scorrere, sente l’amica morire. A quel punto Donatella comprende d’istinto che l’unica possibilità di salvezza è fingersi morta.

“Angelo è rimasto nel bagno con Rosaria tutto il tempo, mentre Gianni e Andrea si alternavano per aiutarlo. Sentivo le grida di Rosaria che si interrompevano come se le stessero immergendo la testa nell’acqua. Dopo un po’ non ho sentito più niente. Io ero con Guido e dalle scale sono scesi Ghira e Izzo. Erano affannati e stanchi, in particolare Izzo. Anche su di me l’iniezione non aveva avuto effetto e così hanno cominciato a colpirmi con il calcio della pistola, mi hanno riempito di pugni. Mi hanno legato una cinghia al collo e mi hanno trascinata nuda per tutta la casa. Hanno tirato così forte che alla fine la fibbia si è rotta. Sono svenuta per una decina di minuti e quando mi sono risvegliata ho sentito il piede di uno di loro che mi premeva sul petto. Qualcuno ha detto: ‘Questa qui non vuole morire’, e hanno cominciato a colpirmi in testa con una spranga di ferro. A questo punto ho pensato che la sola cosa da fare per salvarmi era fingermi morta…I morti non provano dolore. Poi la stessa voce di prima ha detto: ‘Finalmente siamo riusciti ad ammazzarla’.

“Guarda come dormono bene queste due morte”: sono le ultime parole che Donatella Colasanti sente pronunciare da Angelo Izzo. I tre aguzzini caricano i poveri corpi delle due ragazze nel portabagagli della Fiat 127. Due corpi martoriati avvolti in teli di plastica. Sono le 21 di martedì 30 settembre 1975. Nelle case italiane il secondo canale della Rai trasmette “Piccola ribalta”, varietà condotto da Mariolina Cannuli, conturbante “signorina buonasera” ed Enzo Cerusico, attore-rivelazione di quegli anni. L’utilitaria, con il suo carico di dolore e morte, parte alla volta di Roma; a bordo ci sono Gianni Guido e Angelo Izzo. Andrea Ghira li segue al volante della sua Mini Minor. Alle 23.30, giunti in via Pola, parcheggiano e, appagati, si recano in pizzeria in attesa di liberarsi dei cadaveri. E’ l’ultimo oltraggio.

Quei corpi nel bagagliaio parlano. L’Italia “scopre” l’immensa gravità dello stupro e della morte per stupro. Non sarà più possibile voltare le spalle, svilire, minimizzare, insinuare, screditare, assolvere… In quell’attimo lancinante crolla l’impalcatura millenaria della bestialità maschilista: Se lo meritano…li avranno provocati…se sono andate in quella villa vuol dire che ci stavano…se fossero rimaste a casa non sarebbe accaduto. Questi commenti circoleranno ancora tra la gente? Risuoneranno ancora nelle aule dei tribunali?

GLI ARRESTI E IL PROCESSO

Gli autori del massacro vengono identificati nel giro di poche ore. I media si tuffano sul caso in modo compatto e compulsivo; i giornali catturano le immagini di Angelo Izzo (foto sopra) che sfila mostrando sorridente le manette. Anche Gianni Guido viene arrestato. Andrea Ghira no; gode di protezioni importanti: messo in allarme da una soffiata, sparisce ed evita la cattura. La sua famiglia si attiva per coprirlo e c’è un primo episodio che lo dimostra: i Carabinieri, accorsi nella villa del massacro, sorprendono la madre e il fratello del fuggitivo intenti a lavare il sangue. Trascorrono dieci giorni, e dalla latitanza Andrea Ghira fa pervenire agli amici in carcere un messaggio gonfio di odio e delirio di onnipotenza:

“Vi assicuro che quella bastarda (Donatella Colasanti ndr) la faccio fuori. per voi non c’è pericolo. A fine anno 1976 uscirete tutti per libertà provvisoria. Anche se sanno tutto, questi bastardi, faranno una brutta fine anche loro. Comunque non vi preoccupate per la mia latitanza, ho circa 13 milioni di lire, forse andrò via da Roma. Per quanto riguarda quella stronzetta farà la fine della Lopez. State calmi. A presto. Berenguer Ghira”.

Per tutta la sua vita Andrea Ghira sarà un fantasma; per lui, nonostante quell’orrore, neppure un giorno di carcere.

Donatella Colasanti durante un sopralluogo nella villa dell’orrore

l primi di ottobre del ’75, accompagnata dai carabinieri e dagli avvocati, Donatella Colasanti deve tornare al Circeo per i sopralluoghi di rito sulla scena delle sevizie. Ad uno dei sopralluoghi partecipa – assieme agli aguzzini – anche l’avvocato Nino Marazzita, legale della famiglia Lopez. Tempo dopo racconterà: “Si capiva che qualcuno era andato via in fretta, c’erano bottiglie e cicche di sigarette: ma quando si entrava in bagno e nella camera in cui si consumarono le torture, la vista era ripugnante. C’era un mare di sangue. E i responsabili erano impassibili, pareva guardassero l’arredamento”.

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Si avvicina il processo. Per Donatella Colasanti, all’epoca minorenne (aveva solo 17 anni), dovrebbe essere il momento sacro della verità e della giustizia, ma paradossalmente si tratta della prova più difficile. Dovrà sostenere il fuoco di sbarramento e gli attacchi della difesa degli imputati. Cercheranno di demolire la sua credibilità, tenteranno di annullare le differenze tra parte lesa e incriminati, la dipingeranno come adescatrice, avrà persino la sensazione di essere lei la colpevole, metteranno in campo tutte le strategie che da sempre, in Italia, connotano i processi per stupro. Dovrà subire una seconda violenza, sarà costretta a rispondere a domande ripugnanti, la colpiranno con un diluvio di commenti retrogradi e dovrà mettersi a nudo. La dignità di una ragazza offesa inchiodata ad una croce.

Estate del 1976: si alza il sipario sul processo. Al banco dei testimoni – che per lei si trasformerà in un banco degli imputati – c’è Donatella Colasanti, sostenuta da centinaia di attiviste femministe. Il suo avvocato, Tina Lagostena Bassi (foto sotto), leonessa e pioniera della lotta per i diritti delle donne, l’ha messa al corrente: “ti cuciranno addosso l’abitino della colpevole”. Le ha spiegato che il dibattimento non sarà una passeggiata, ma un’arena dove chi rischierà di essere sbranato non saranno gli imputati, ma lei, la vittima.

Come previsto, le vite di Donatella e Rosaria vengono frantumate. Ma alla fine gli italiani si accorgono per la prima volta che il paese è diventato, forse, più civile. Il 29 luglio 1976 viene pronunciata la sentenza di primo grado: ergastolo senza attenuanti a Gianni Guido, Angelo Izzo e in contumacia ad Andrea Ghira. La sentenza viene modificata in appello per Gianni Guido: il 28 ottobre 1980 la condanna gli viene ridotta a trent’anni, dopo una dichiarazione di pentimento e l’accettazione da parte della famiglia Lopez di un risarcimento pari a cento milioni di lire. Tutto finito dunque? Decisamente no. Gli anni successivi sono segnati da fughe, coperture, misteri, finti pentimenti, depistaggi ed altri omicidi. Uno dei tre, Andrea Ghira, scomparirà per sempre, senza aver fatto neppure un giorno di carcere. Sulla vicenda del Circeo, insomma, non sarà mai scritta la parola ‘fine’.

ANDREA GHIRA, LATITANZA ED EROINA

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Andrea Ghira è ancora oggi il simbolo assoluto della giustizia negata. Sulla sua latitanza c’è ancora moltissimo da scoprire. Gli interrogativi si rincorrono. Chi lo ha coperto? Lo Stato italiano lo ha davvero cercato? La Spagna, il paese dove Ghira si era rifugiato, non ha mai collaborato alla sua cattura. Perchè? Partiamo dall’inizio. Dopo il massacro, mentre Izzo e Guido vengono arrestati, Ghira riesce a fuggire. Dalla latitanza scrive il delirante messaggio rivolto ai suoi complici, poi scompare definitivamente. Sulla base dei documenti noti è possibile ricostruire solo una parte dei suoi spostamenti. Almeno fino al Natale del 1975, Andrea Ghira si sarebbe nascosto a Roma. Forse, per mantenersi in “allenamento”, ha preso parte a un rapimento: nel dicembre di quell’anno, Ezio Matacchioni indica proprio Ghira tra i malviventi che lo hanno tenuto prigioniero in una villetta di Tor San Lorenzo, ma le sue dichiarazioni non convincono i giudici. Il 6 febbraio 1982 un testimone dichiara con assoluta certezza di aver visto Andrea Ghira ad Aprilia. Scattano le ricerche, ma del massacratore del Circeo non c’è traccia.

La latitanza di Ghira è al centro di un’inchiesta realizzata nel 1985 da Pino Buongiorno. Il giornalista raccoglie testimonianze più o meno attendibili sulla presenza del neofascista in Kenia; riferisce che ogni due mesi una donna viaggia tra Roma e Malindi per rifornire di soldi un italiano che si fa chiamare Lorenzo. Ghira gode, probabilmente, di protezioni molto forti. Lo segnalano a Londra, in Sudafrica, ma anche in Sudamerica – tra Brasile, Argentina e Paraguay – dove da decenni trovano rifugio le “primule” di mezzo mondo: nazisti, terroristi neri e rossi e criminali comuni. Qualche investigatore ipotizza più realisticamente che sia fuggito in Francia tramite la zia, che gestiva a Lourdes la struttura destinata ai malati che l’Unitalsi porta in pellegrinaggio al santuario mariano, magari proprio su uno dei cosiddetti treni bianchi, e che da lì abbia trovato riparo nella vicina Spagna ancora franchista. Quell’aiuto è stato confermato in tempi recenti. Nel corso degli anni è pure emerso che Andrea Ghira avrebbe trascorso sei mesi in un kibbutz israeliano per poi approdare a Madrid ed arruolarsi, il 26 giugno 1976, nel Tercio de Armada, la legione straniera spagnola, sotto il falso nome di Massimo Testa de Andres.

Con queste generalità fittizie il super-latitante, nella sua nuova veste di militare, viene arrestato il 28 maggio 1980 a Ceuta, città autonoma spagnola in Marocco. Le autorità lo bloccano con un quantitativo di hashish. Nei primi anni ’80, tra le autorità italiane e spagnole, intercorrono 23 note ufficiali, ma a nessuno sembra sia venuto il dubbio che Massimo Testa de Andrès potesse essere Andrea Ghira. Sarebbero state sufficienti una sua foto e le impronte digitali per risalire alla sua vera identità e decretarne l’estradizione in Italia, invece, ancora una volta, Ghira-De Andres viene ignorato e sottoposto alla giurisdizione militare. Prima di essere espulso dalla legione straniera spagnola a causa della sua tossicodipendenza da eroina, Andrea Ghira ha potuto indossare la divisa militare per 17 lunghi anni. Nel 2005 la Procura di Roma intercetta le conversazioni tra una domestica e alcuni familiari del latitante, conversazioni che vengono rilanciate in tv dalla trasmissione investigativa Chi l’ha visto?. E’ la svolta: messa alle strette, la famiglia Ghira riferisce agli inquirenti che Andrea è morto nel 1994 per overdose di eroina. La salma, riesumata nel cimitero di Melilla, viene sottoposta a due consulenze medico-legali: il riscontro sul dna evidenzia che le ossa appartengono certamente al “ceppo” della famiglia Ghira, ma non è possibile appurare che si tratti proprio di Andrea. Caso chiuso? Non proprio. Il dubbio che l’aguzzino del Circeo sia ancora vivo non si è mai completamente dissolto. Andrea Ghira protetto da una finta morte, il più beffardo e definitivo tra i depistaggi possibili.

 “STUPRO E TORTURO”. IO, ANGELO IZZO

Anche dopo l’arresto, magistrati e giornalisti si occupano a più riprese di Angelo Izzo. Sono costretti a farlo. Il suo dopo-Circeo è costellato da fughe, catture, rivelazioni e da un secondo feroce massacro. Nel corso degli anni si autoaccusa di svariate imprese criminali e fornisce le proprie versioni su stragi neofasciste, omicidi eccellenti, fatti di mafia e terrorismo. E’ sicuramente il primo a parlare dello stupro subito nel 1973 da Franca Rame. Compare nel ruolo di testimone e collaboratore di giustizia in diversi processi. Si dedica allo studio e alla scrittura. In carcere intrattiene rapporti con terroristi e criminali di spessore. Prova e riesce ad evadere. Nel gennaio del 1977, assieme a Gianni Guido, tenta l’evasione dal carcere di Latina, ma l’operazione non riesce. Nel 1986 prova a fuggire dal supercarcere di Paliano. Il 25 agosto 1993, approffittando di un permesso-premio, si allontana dal carcere di Alessandria ed espatria in Francia. Catturato a Parigi dopo due settimane, viene estradato in Italia.

Trascorrono altri anni. In una celebre intervista televisiva concessa in carcere a Franca Leosini per il programma Storie Maledette, Angelo Izzo ripercorre la sua storia. Si dice pentito per il massacro del Circeo, ma accompagna la dichiarazione a un sorriso luciferino. E infatti qualche mese dopo (sembra impossibile) uccide ancora. E’ il 2005: dopo aver ottenuto la semilibertà dal carcere di Campobasso, viene associato alla cooperativa Città futura che lui stesso finanzia. Offre assistenza a Maria Carmela e Valentina Maiorano rispettivamente moglie e figlia di un detenuto che ha conosciuto in carcere. Nella sua veste di operatore sociale promette alle due donne aiuti economici e un lavoro, ma è una trappola. L’impulso di Izzo è quello di replicare, con modalità ancora più efferate, il massacro compiuto trent’anni prima nella villa del Circeo. Il 28 aprile, con la complicità di due disperati (Guido Palladino e Luca Palaia), uccide le due donne e le sotterra. L’Italia è incredula e sgomenta. Dopo un drammatico processo Angelo Izzo colleziona il suo secondo ergastolo.

Gianni Leoni, ex nerista del Resto del Carlino che lo ha intervistato in carcere, ha detto di lui: «Racconta fatti agghiaccianti come se raccontasse una favola o come se questi fossero stati commessi da un altro. Mi disse che dopo aver ucciso la moglie e la figlia di Maiorano, avrebbe distrutto un’altra famiglia se non lo avessero fermato. Questa è la sua logica. Una logica agghiacciante, una logica da mostro. Ma Izzo non si offenderebbe».

GIANNI GUIDO, UOMO LIBERO

L’espiazione e il pentimento non appartengono nè al brodo culturale nazifascista, nè al più animalesco ed arcaico maschilismo. I concetti sono più o meno questi: la donna è semplicemente un giocattolo che se rompo pago. Dominare e sottomettere una donna è nell’ordine naturale delle cose, se perdipiù è povera è lecito infierire. Gianni Guido, allineato a questi terrificanti orientamenti, ottiene, come abbiamo visto, una consistente riduzione della pena grazie ad un risarcimento di 100 milioni di lire pagato alla famiglia della ragazza trucidata. Il pentimento e il rimorso, seppur dichiarati, non sembrano nelle sue corde. Appena può evade, scappa all’estero e si rifà una vita. Alla fine, tra indulti, benefici, regime di semilibertà e affidamento in prova ai servizi sociali, sconta 20 anni sui 30 comminati. La sua pena si è esaurita nel 2009. Ripercorrere il suo “post-Circeo” è istruttivo. Nel 1977 tenta di evadere dal carcere di Latina assieme a Izzo. Il 27 ottobre 1980, grazie al risarcimento pagato alla famiglia di Rosaria Lopez, si vede ridurre la pena dell’ergasolo a 30 anni. Il 25 gennaio 1981 evade dal carcere di San Gimignano; i suoi genitori, sospettati di aver corrotto un agente della penitenziaria, vengono assolti. Il 27 gennaio 1983 viene arrestato a Buenos Aires. In attesa di essere estradato in Italia, riesce nuovamente a fuggire da un ospedale della capitale argentina dove era ricoverato per un’epatite. Per avere sue notizie bisogna attendere l’estate del 1994 quando la sua lunga latitanza viene interrotta dalla cattura a Panama dove si era riciclato vendendo auto sotto il falso nome di Andrea Mariani.

L’11 aprile 2008 Gianni Guido viene affidato ai servizi sociali dopo 14 anni passati nel carcere di Rebibbia. Ha finito di scontare definitivamente la sua pena il 25 agosto 2009, fruendo di uno sconto di 8 anni grazie all’indulto. Oggi (foto sotto) è un uomo libero.

DONATELLA E ROSARIA

Donatella Colasanti e Rosaria Lopez sono due simboli. Dopo il loro sacrificio sono state introdotte misure più severe e nuove norme per contrastare i crimini a sfondo sessuale e rafforzare le tutele della donna. Tuttavia, la strada (soprattutto culturale) da compiere è ancora molta. A mezzo secolo dai fatti del Circeo, femminicidi e violenze sessuali sono in pauroso aumento. Sproloqui che sembravano assopiti, tornano pericolosamente in auge. Così, eccoci costretti a ribadire, dopo l’ennesima violenza sessuale di gruppo, che ad esempio il sì di una donna ubriaca non è mai un consenso, ma uno stupro con l’aggravante della minorata difesa della vittima; e che lo stupro è una rapina, e che non si può essere consenzienti a uno stupro; e che in tutti i processi per stupro l’unico argomento che viene tirato fuori è sempre quello che lei era consenziente…Per queste ed altre ragioni, il massacro del Circeo è ancora attuale e non potrà essere dimenticato.

Il 4 ottobre 1975 si celebrano i funerali di Rosaria Lopez.

Il popolo della Montagnola (oggi quartiere residenziale tra l’Eur e la Garbatella) si raduna davanti alla Chiesa del Buon Pastore. “Era nella bara, vestita di bianco e aveva una lacrima, proprio sotto l’occhio destro”, ricorda la sorella Letizia. Ad officiare l’omelia è un vecchio prete partigiano, Don Pietro Occelli. Le sue parole risuonano ancora oggi come un monito:

«Vi è qui una sperequazione evidentissima che il delitto sottolinea: “loro” hanno avvocati di altissimo grido, hanno una magistratura che guarda benevola, hanno sempre la libertà provvisoria: e hanno anche le smaccate evasioni fiscali di padri ricchissimi che erano e sono rimasti fascisti. I figli di queste canaglie possono ammazzare, spendere e spandere, assassinare per non annoiarsi….».

Donatella Colasanti, la cui intera esistenza è stata segnata dalla notte al Circeo, non si è mai sposata e non ha mai avuto figli. E’ morta di cancro il 30 dicembre 2005 nella sua Roma. Aveva solo 47 anni. Su di lei è stata scritta la frase più vera: “Si è salvata fingendosi morta, ha passato la vita a fingersi viva”.

È passata alla storia per aver fatto condannare i suoi aggressori e per aver condotto alcune importanti battaglie, come quella per il riconoscimento dello stupro come reato contro la persona e non contro la morale pubblica. La immagino in una dimensione di pura luce abbracciata alla sua compagna di quelle giornate maledette.

Donatella e Rosaria, ricordiamole con un fiore.

In questo servizio della redazione di Fanpage le toccanti e preziose testimonianze di Roberto Colasanti e Letizia Lopez, fratello e sorella delle due vittime.



I PERCHE’ DI UN CRIMINE

1975 – Sulla stampa Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini si scontrano in un acceso dibattito nell’analizzare le ragioni profonde del massacro del Circeo. Calvino pone in evidenza il conflitto di classe tra i carnefici, ricchi pariolini neofascisti, e le vittime di umili origini provenienti da una zona periferica di Roma Sud. Per Pasolini questa contrapposizione non vale più: la cancrena non si diffonde da alcuni strati della borghesia, contagiando il Paese e quindi il popolo; c’è una fonte di corruzione assai più lontana e totale: “è il consumismo prescritto dal capitale dice Pasolini – che ha generato una devastante mutazione antropologica”. La disputa si interrompe brutalmente la mattina del 1 novembre 1975 quando si scopre il cadavere martoriato dell’intellettuale bolognese. Ma questa (forse) è un’altra storia…


di Tania Brando – Genoa News Chronicle / Io reporter

QUEI NAZISTI SALVATI A GENOVA

di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io, reporter

ft_1200x630px-Codice-ODESSA-la-piu-grande-fuga-di-criminali-della-storia-Loris-GiuriattiKlaus Altmann, Otto Pape, Riccardo Klement, Helmut Gregor…Ad una prima sommaria lettura questi nomi tedeschi non dicono nulla. E’ la formazione di una squadra di calcio? Sono generalità prese a caso da un vecchio elenco telefonico? A chi appartengono? La risposta è tutta racchiusa in un piano segreto assolutamente sconvolgente. Un piano che ebbe a Genova il suo snodo cruciale.

NOME IN CODICE: OPERAZIONE ODESSA

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Dopo la sconfitta di Hitler, numerosi gerarchi nazisti trovarono rifugio in Sudamerica (soprattutto in Argentina): criminali di guerra come Adolf Eichmann, Nikolaus Barbie e Josef Mengele, passati da Genova tra il 1949 e il 1951, ma anche Friedrich Rauch, l’ufficiale che aveva svuotato per conto del Führer la Banca centrale tedesca. Lungo la “rotta dei topi” fuggirono anche ustascia croati, collaborazionisti belgi e filo-nazisti francesi. Ad organizzare la fuga fu la misteriosa ed efficiente Organisation der ehemaligen SS-Angehorigen, nome in codice Odessa. In molti hanno cercato i segreti di Odessa: tra questi il giornalista Uki Goni che ho avuto il privilegio di incontrare e intervistare a Genova il 28 ottobre 2003. A lui si deve l’inchiesta più approfondita e documentata su una delle pagine più oscure della storia recente. Un esempio di giornalismo investigativo grazie al quale è stato possibile ricostruire l’intreccio di complicità inconfessabili che hanno permesso a centinaia di criminali nazisti di godere una seconda esistenza in incognito, lontani da Tribunali di guerra e cacciatori di taglie. Chi li ha protetti? Chi ha finanziato la loro fuga? Su quali forze si reggeva l’Internazionale Nera? Le risposte sono ormai note e ancora oggi fanno rabbrividire. I gerarchi nazisti, i responsabili operativi dello sterminio degli ebrei, i perversi teorici della tortura, sono stati protetti da accordi intercorsi tra il Governo del presidente argentino Juan Domingo Peròn e la Chiesa cattolica.

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Buenos Aires 1973 – Juan Peron e la moglie Isabel

Non solo. Per la loro salvezza si attivarono autorità elvetiche, alte sfere del Vaticano e servizi segreti di diversi paesi occidentali. In Sudamerica trovarono riparo sanguinari collaboratori di Hitler e tesori sterminati: nella sola Argentina, ad esempio, venne trasferito il tesoro di stato della Croazia, frutto della spoliazione di 600mila ebrei e serbi. Un’operazione di salvataggio efficace e sommersa comprovata da testimonianze attendibili e decine di documenti risparmiati dai tritacarte e riordinati da Uki Goni in sei anni di indefesso lavoro. Tuttavia, di fronte all’evidenza delle prove, il Vaticano e le alte sfere ecclesiastiche hanno sempre opposto un ostinato silenzio. Mai una parola, un’ammissione, una scusa. Nemmeno dagli ultimi Papi, ironia della sorte proprio un tedesco e un argentino. 

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Silenzi vergognosi e muri di gomma che da sempre sono i migliori alleati del negazionismo imperante (fabbrica sempre efficiente di false notizie) e del revisionismo dissennato incapace, ormai, di distinguere gli innocenti dai criminali, la parte giusta da quella sbagliata. Del resto, anche di fronte all’evidenza storica si continua a gridare, oggi più di ieri, al complotto sionista. Segno che il nazismo non è morto.

NAZISTI, LA GRANDE FUGA

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Sin dalla fine del secondo conflitto mondiale, il Sudamerica ha accolto schiere di uomini, tutti di lingua tedesca e con un passato da nascondere. Scendevano da motonavi partite da Genova o sbarcavano da battelli approdati nottetempo sulle coste della Patagonia; impossibile riconoscere in quelle figure dall’aspetto dimesso, gli sgherri hitleriani che fino a poche settimane prima, protetti dalle divise delle SS, torturavano, uccidevano e avviavano moltitudini di innocenti alle camere a gas e ai forni.

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In Brasile, Argentina o Paraguay quelle ombre anonime dai volti impiegatizi avrebbero vissuto il crepuscolo delle loro esistenze. Esistenze maledette.

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Il boia delle Fosse Ardeatine Erich Priebke salutato con gli onori dalla Polizia argentina

Verso il Sudamerica sono confluiti non solo uomini, ma anche quintali di oro. Testimoni hanno raccontato i viaggi avventurosi di casse colme di tesori trafugati dai nazisti e trasportate in nascondigli sulle montagne andine. Secondo ulteriori resoconti, (queste sì leggende metropolitane), lo stesso Hitler trascorse gli ultimi giorni della sua vita tra Argentina e Brasile, dove si troverebbe ancora oggi sepolto. Voci, solo voci, che necessitavano ovviamente di prove inoppugnabili e di verità storiche. Uki Goni, nelle sue ricerche, ha svelato con precisione inganni e connivenze, ha mostrato documenti post-bellici, lasciapassare, accordi segreti e carte che dimostrano la diretta complicità del Vaticano e dell’Argentina peronista nell’assistenza e nella protezione dei fuggiaschi nazisti. Del resto, il legame tra nazismo e cattolicesimo fu il detonatore che accese l’infatuazione dell’élite argentina per Hitler.

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Già alla fine degli anni Trenta, l’Argentina ubriaca di antisemitismo, aveva chiuso i suoi confini agli ebrei minacciati dal nazismo. Alcuni perseguitati riuscirono a farsi passare per cattolici, altri pagarono le salate tangenti chieste da diplomatici e funzionari argentini dell’Immigrazione. “Quante migliaia di persone in più si sarebbero potute salvare se i burocrati di Buenos Aires avessero mostrato un minimo di decenza umana?“, si chiede Goni. L’Argentina divenne ben presto un centro di riciclaggio del denaro proveniente dal racket delle estorsioni messo in piedi dai nazisti. Questi ultimi concedevano agli ebrei più facoltosi visti d’uscita dai territori occupati in cambio di grosse somme di denaro in valuta estera. Veri e propri ricatti.

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Le liste di 12mila nazisti e i rispettivi tesori sottratti agli ebrei. Le carte scovate in una banca argentina

Goni ha alzato il sipario su una miniera di episodi. Racconta che suo nonno, console argentino a San Francisco, Vienna, Genova e La Paz, dovette gestire moltissime richieste di ebrei che desideravano entrare in Argentina dalla Bolivia. Un giorno una giovane e bellissima donna svuotò sulla sua scrivania una borsa piena di gioielli, ma non essendo riuscita a convincerlo, si spogliò e gli si offrì, invano, in cambio del permesso d’ingresso. Questo era il clima. Molti ebrei morirono nel tentativo di varcare a piedi il confine con l’Argentina, uccisi, rapinati o abbandonati al loro destino dalle guide che avevano assoldato. Nell’Argentina filonazista, insomma, gli ebrei perseguitati non potevano entrare, ma i nazisti sì. Alla fine della guerra alcuni fedelissimi di Hitler, che avevano sulla coscienza milioni di vite di ebrei, cercarono rifugio tra le braccia della chiesa cattolica, altri offrirono la propria esperienza di anticomunisti ai servizi segreti alleati. Molti capi delle SS per sottrarsi ai processi, il più noto quello celebrato a Norimberga, iniziarono a inventarsi un falso passato, attraverso un campionario di raggiri e metamorfosi che culminavano quasi sempre nel cambio di identità e dei connotati.

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In Argentina, paese reso ricco dalle esportazioni di carne, i nazisti in fuga si installarono soprattutto nella capitale Buenos Aires o a San Carlos de Bariloche, località sciistica della Patagonia circondata dalle Ande, una piccola Svizzera. Quelle che conducevano erano esistenze sotto traccia, quasi monacali. Dalla banalità del male al quieto vivere: lavori tranquilli, la protezione discreta del governo peronista, gli affetti familiari in case ovattate. Solo alcuni si abbandonarono alle tentazioni offerte dalla movida viziosa di Buenos Aires, con i suoi locali di tango, i night animati da bellissime prostitute di importazione e i bordelli della Boca, il fatiscente quartiere a sud della metropoli animato da immigrati italiani.

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Tra le poche distrazioni degli ex gerarchi qualche incontro conviviale per ricordare in compagnìa i bei tempi andati e soprattutto l’attività del mensile Der Weg” (foto sopra) che i nazisti rifugiati in Sudamerica sovvenzionavano, scrivevano e distribuivano anche nella lontana Germania. In pochi anni “Der Weg” divenne l’organo di informazione di un “Quarto Reich” in Argentina, il mezzo per diffondere il culto nazista nel mondo.

GENOVA, SNODO DELLA RATLINE

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Genova portuale e socialista, Genova che da sola costrinse alla resa le forze di occupazione nazista, Genova, medaglia d’oro della Resistenza, è stata anche l’avamposto europeo dell’operazione Odessa. Sembra incredibile, ma tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, nella capitale italiana dell’antifascismo, molti nazisti di primo piano hanno potuto contare su una rete di sostegno, neppure troppo clandestina, organizzata dalla diplomazia argentina con la benedizione dell’ultraconservatore e potentissimo Cardinale Giuseppe Siri (foto sotto). In una nota del Central Intelligence Group, datata 21 gennaio 1947, Siri viene segnalato come referente di “un’organizzazione internazionale il cui scopo era favorire l’emigrazione di europei anticomunisti in Sudamerica”. Mentre altri due rapporti inviati a Washington quello stesso anno sottolineano come i nazisti in arrivo a Genova, non solo fossero assistiti da dignitari cattolici, ma che la Pontificia Commissione di Assistenza avesse a tal fine persino aperto un ufficio alla stazione Principe. Un centro che faceva capo all’Auxilium. Il 21 settembre 2003 il cardinale Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, garantiva che la Chiesa «era pulita», che non aveva favorito quelle fughe e, per spazzare ogni sospetto, annunciava l’apertura di una controinchiesta affidata a un pool di esperti incaricati di confutare le tesi di Uki Goni, rilanciate in Italia da Il Secolo XIX. Da allora sono passati molti anni, ma dei risultati di quella commissione non si è avuta più notizia. È davvero possibile che la curia genovese fosse del tutto ignara di quanto stava avvenendo in città? Perchè l’archivio privato del Cardinale Giuseppe Siri è tuttora inaccessibile? Domande aperte soffocate dall’afasia di chi avrebbe dovuto rispondere. 

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Chiesa cattolica e governo argentino agirono su binari paralleli. Peròn aveva insediato in Italia un’organizzazione nota col nome di DIAE, Delegazione per l’immigrazione argentina in Europa. La DIAE godeva di uno status semidiplomatico; aveva uffici a Roma, dove veniva gestito tutto il lavoro amministrativo, e a Genova, dove chi voleva emigrare in Argentina doveva sottoporsi a un esame sanitario effettuato da medici argentini. Negli uffici genovesi della Diae, in via Albaro 38, fior di gerarchi nazisti ottennero il via libera verso il Sudamerica. Tutte le pratiche venivano raccolte in fascicoli numerati presso il Centro dell’immigrazione a Buenos Aires. Si è così scoperto che dagli uffici di Albaro della Daie, dal 1947 al ’51, erano passati non solo Mengele, Eichmann, Barbie e camerati più o meno noti, ma anche centinaia di “figure minori”, di sterminatori e seviziatori al servizio della follia nazista che in quell’edificio genovese trovarono una nuova identità, un visto per entrare in Argentina e un passaporto rilasciato dalla Croce Rossa. I passaporti della Croce Rossa erano poco più che un attestato introdotto negli anni del dopoguerra per ridare un’identità ai molti che, nelle vicissitudini del conflitto mondiale, avevano perso (o distrutto) il proprio documento. Identità che, nella maggior parte dei casi, veniva certificata da testimoni accreditati. Ed è proprio grazie alle copie di questi passaporti conservati nella sede centrale di Ginevra della Croce Rossa che si è potuto ricostruire la rotta genovese dei fuggiaschi, determinare dove avevano alloggiato in città e, soprattutto, chi aveva garantito per loro. Solo nel 1948 approdarono in Argentina, su transatlantici di linea, i famigerati Eichmann, Mengele, Priebke e Schwammberger. In una lettera il vescovo Alois Hudal (foto sotto), sostenitore di Hitler, chiedeva (e poi otteneva) al Presidente Peròn “visti di espatrio per 5mila soldati tedeschi e austriaci, combattenti anti-comunisti il cui sacrificio in guerra aveva salvato l’Europa dal dominio sovietico”.

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Proprio a Genova Monsignor Hudal stipulò un accordo segreto con polizia e carabinieri: anzichè arrestare nazisti ricercati, i carabinieri accettarono di indirizzarli verso chiese e conventi indicati dal vescovo. Ma un giorno quell’accordo si ruppe a causa di un episodio poco conosciuto. Accadde che 110 nazisti, dal ponte di una nave in partenza da Genova, sentendosi ormai al sicuro, iniziarono a intonare canti hitleriani e rivolgere offese ad un gruppo di carabinieri che stazionavano in banchina. Ultrà ante litteram. Un tripudio di oscenità e saluti romani all’indirizzo dei militari italiani. Sfortunatamente per gli sfrontati nazisti, la nave ebbe un guasto tecnico e dovette rientrare in porto. I fuggiaschi tedeschi furono così accolti – o meglio presi in consegna – dai carabinieri e come si può immaginare gli abbracci non furono affettuosi…Sempre a Genova l’organizzazione Odessa indirizzava i suoi protetti all’hotel Nazionale di via Lomellini 6, tra la centralissima piazza De Ferrari, la stazione ferroviaria di Genova Principe e il porto passeggeri, una posizione ideale per chi si apprestava a fuggire. In quell’albergo molti nazisti, prossimi all’imbarco, trascorsero l’ultima notte prima di lasciare l’Europa dove sino a pochi mesi prima avevano seminato orrore e dolore. Sicuramente Eichmann, il suo assistente Hans Fischbock e Barbie alloggiarono alcuni giorni nell’hotel di via Lomellini, assistiti durante il soggiorno genovese da Krunoslav Draganovic, prelato ungherese e criminale di guerra croato legato sia al Vaticano, sia ai servizi segreti americani.

QUEI SANGUINARI SALVATI DALLA CHIESA

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Dunque, tra le iene naziste aiutate dalla Chiesa cattolica sulla via dell’Argentina figura lo sterminatore delle SS Klaus Barbie (foto sopra), capo della Gestapo, descritto sui libri di Storia come il “macellaio di Lione” per aver pianificato l’enorme eccidio di ebrei francesi. I suoi sistemi erano spicci e crudeli. Aveva stabilito il suo quartier generale all’Hotel Terminus di Lione che divenne il luogo per le sue torture ai danni dei sospettati. Ma non soltanto le persone che in qualche modo avevano legami con la Resistenza erano le sue vittime. Barbie aveva escogitato il sistema di rastrellare a caso i passanti per le strade di Lione e di torturarli sino a che qualcuno, stremato dal dolore, non si decideva a rivelare qualcosa…qualsiasi cosa. Fu Barbie, che dopo aver scovato 44 bambini ebrei nascosti nel villaggio di Izieu, li deportò ad Auschwitz. Nel settembre 1944, all’avvicinarsi delle truppe americane, Barbie bruciò tutti gli archivi della Gestapo di Lione e fece uccidere un centinaio di persone che conoscevano la sua attività. Eliminò anche 22 agenti che lavoravano per suo conto e che si erano infiltrati nella Resistenza. Dopo la guerra si riciclò come informatore anticomunista per i servizi segreti americani che gli restituirono il favore consegnandolo all’organizzazione Odessa per favorirne l’espatrio in Sudamerica. Nel marzo del ’51 arrivò a Genova, tranquillamente in treno, e ad accoglierlo alla stazione Principe trovò il sacerdote croato Krunoslav Draganovic che aveva controfirmato il suo passaporto attestandone le false generalità. Con il nome di copertura di Klaus Altmann, il “macellaio di Lione” soggiornò nell’albergo Nazionale di via Lomellini 6 in attesa di imbarcarsi, il 22 marzo, sul piroscafo argentino Corrientes. La destinazione per lui non fu l’Argentina di Peron, ma la Bolivia.

Ecco Barbie (foto sotto) in versione borghese da tranquillo signore in vacanza fotografato a Lima, in Perù, nel gennaio del 1972. 

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A Genova – riferisce Uki Goni nel suo libro “Operazione Odessa” –  Draganovic si assicurò che Barbie non si annoiasse. L’SS e il colonnello ustascia frequentarono insieme night club e ristoranti. Alla fine, il 22 marzo 1951, Barbie si imbarcò a Genova sul transatlantico di linea “Corrientes” con un gruppo di altri nazisti, giungendo tre settimane dopo a Buenos aires, da dove, al termine di una breve sosta in città, proseguì (sotto falso nome) per la Bolivia”.

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Ma chi furono i principali attivisti dell’Operazione Odessa? Il nucleo operativo era sicuramente composto da una quarantina di elementi. Una cricca assortita che comprendeva criminali di guerra, scienziati, giornalisti, cardinali, banchieri. Ecco un breve profilo di coloro che tirarono le fila dell’organizzazione a Genova: Edoardo Domoter, prelato ungherese a capo della parrocchia francescana di Sant’Antonio a Genova Pegli. Fu lui a procurare il passaporto della Croce Rossa al criminale delle SS Adolf Eichmann, diretto in Argentina con il falso nome di Ricardo Klement, nato a Bolzano e figlio di N.N. (così allora venivano definiti negli atti ufficiali i figli cosiddetti illegittimi).

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La belva che aveva pianificato e diretto i campi di sterminio di Hitler pensava di averla fatta franca. Era arrivato a Genova “solo” nella tarda primavera del 1950. In attesa del passaporto e dell’imbarco sulla motonave Giovanna C., in partenza per Buenos Aires il 17 giugno del 1950, aveva trovato alloggio in un albergo al numero 29 di via Balbi. Poi, una volta sbarcato a Buenos Aires il 14 luglio, era ripartito alla volta della lontanissima Tucuman, alle pendici delle Ande, dove lo aspettava un oscuro lavoro in un’industria meccanica. Con il passare degli anni, il vecchio criminale nazista aveva maturato la convinzione che il mondo si fosse dimenticato di lui. Si era trasferito con la famiglia nei dintorni di Buenos Aires dove aveva trovato un lavoro di tecnico nella filiale della Mercedes; faceva metodicamente la spola fra l’officina e la casa, ogni giorno a ore fisse, come un impiegato qualsiasi. E’ stato allora che gli 007 del Mossad, l’implacabile servizio segreto israeliano, fecero scattare la trappola. Nove giorni dopo la cattura, vestito grottescamente con una divisa da steward e narcotizzato, Eichmann veniva imbarcato sul volo ufficiale di una delegazione israeliana, verso il processo, che due anni più tardi, nel 1962, si sarebbe concluso con l’inesorabile condanna a morte. La posizione di una parte consistente della Chiesa rispetto ad uno dei massimi artefici dell’Olocausto, venne condensata in una dichiarazione dell’alto prelato argentino Antonio Caggiano, nominato cardinale da Papa Pio XII. Nel 1960, deprecando la cattura di Eichmann da parte d’Israele, Caggiano affermò: “Il nostro obbligo in quanto cristiani è perdonarlo per quanto ha fatto“.

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Adolf Eichmann sotto processo prima della condanna a morte

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La prima linea dell’organizzazione Odessa operante a Genova comprendeva inoltre Carlos Fuldner, principale agente dell’organizzazione salva-nazisti di Peròn, ex capitano e agente speciale dei servizi segreti delle SS. Nel 1948, nella veste di agente speciale di Peròn, aprì alcuni uffici per il salvataggio di nazisti a Genova e a Berna ed organizzò il trasferimento in Argentina di Adolf Eichmann, Josef Mengele, Erich Priebke, Josef Schwammberger e Gerhard Bohne. Ivo Heinrich, criminale di guerra croato e consigliere finanziario di Ante Pavelic, il dittatore fantoccio della Croazia. In Argentina vendette parte dell’oro nazista. Il vescovo austriaco Alois Hudal, come abbiamo visto, tra i principali agenti del Vaticano nell’opera di salvataggio dei nazisti. Fu lui ad organizzare la fuga di Franz Stangl (foto sotto), comandante di Treblinka, il terribile campo di sterminio dove furono assassinati 900mila esseri umani, secondo solo ad Auschwitz per intensità delle stragi.

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Reinhard Kops, spia nazista. Assistente del vescovo Hudal, fu cooptato da Peròn nell’ufficio di Genova dell’organizzazione salva-nazisti denominata SARE. Charles Lesca, criminale di guerra francese nato in Argentina, organizzò il primo corridoio di fuga in Argentina per gli agenti segreti delle SS. Altra figura cruciale Don Carlo Petranovic, ex cappellano militare delle milizie ustascia di Ante Pavelic, punto di riferimento dell’Operazione Odessa all’interno del porto di Genova da dove faceva imbarcare i fuggiaschi nazisti sulle navi dirette in Argentina. La storia genovese di Don Carlo cominciò nei primi mesi del 1946 con un biglietto di presentazione scritto dal cardinale di Milano Ildebrando Schuster e inviato all’arcivescovo Giuseppe Siri. Con questo viatico il sacerdote croato si stabilì a Genova ed è qui, che fino ai primi mesi del ‘52, gestì direttamente la trama di rapporti tra Vaticano, Croce Rossa, Auxilium e Comitato nazionale per l’emigrazione in Argentina. In città Petranovic alloggiava in una cella del convento benedettino del Boschetto, sopra Fegino, ed ebbe, rivelano alcune fonti, un rapporto personale e costante con il cardinale Siri che dell’Auxilium e del Comitato nazionale per l’emigrazione in Argentina era il referente principe. E’ peraltro noto che Petranovic usasse la Mercedes nera del Cardinale Siri con targa diplomatica della Città del Vaticano; viaggiava spesso di notte tra Genova e Roma, e ritornava sempre di notte non staccandosi mai da una “valigia diplomatica”. C’è chi dice che contenesse proprio i passaporti in grado di garantire una nuova vita ai nazisti e agli ustascia in fuga da Genova. Lui stesso, nel corso di un’intervista rilasciata nell’89 a Mark Aarons e a John Loftus, autori del saggio “Unholy Trinity”, si vanterà di essere stato molto vicino al cardinale genovese dichiarando di avere aiutato 2mila persone a imbarcarsi a Genova.

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Uno dei documenti falsi di Adolf Eichmann

Franz Ruffinengo, impiegato nell’ufficio di Genova della SARE. A Buenos Aires aprì un’agenzia di viaggi che si specializzò nel far immigrare illegalmente nazisti in Argentina. A questi “gentiluomini” si affiancò una squadra speciale organizzata direttamente dal Presidente Peròn. Tra i personaggi di maggior spessore criminale ricordiamo Jacques de Mahieu, reduce della divisione Waffen-SS “Carlo Magno”. Negli anni Sessanta, mentre dirigeva una sezione del partito peronista a Buenos Aires, era ancora attivissimo nell’offrire aiuti ai nazisti. Tristemente famose le sue conferenze gremite di fanatici che al solo udire la parola ebreo tuonavano inebriati Sapone!, Sapone!. Concluse la sua vita da estremista di destra nel 1989 dopo essersi battuto a favore del candidato alle presidenziali Carlos Menem. Un altro elemento di spicco fu Jan Durcansky, (per gli amici Don Giovanni) responsabile, tra il novembre 1944 e l’inizio del 1945, dell’omicidio di massa, in Cecoslovacchia, di circa 1300 prigionieri di guerra in gran parte francesi e americani. In un caso 400 vittime vennero fatte inginocchiare, quindi furono trucidate e gettate in un forno di calcinazione; in altri due casi, 900 persone tra cui donne e bambini vennero sterminate a colpi di mitragliatrice e gettate in due trincee. Solo due anni dopo Durcansky venne cooptato, direttamente da Peròn, nell’Ufficio immigrazione argentino, dove provvide ad accelerare la concessione di domande di cittadinanza e permessi di sbarco ai fuggitivi nazisti. Nell’agosto del 1947 giunse in missione a Genova, sotto il falso nome di Giovanni Dubranka, per organizzare la più grande fuga di criminali hitleriani mai registrata negli annali del crimine.

IL CASO PRIEBKE

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Nel 1948 Erich Priebke è un tedesco con le spalle al muro. I cacciatori di nazisti lo cercano. A Roma lo ricordano con orrore per quel suo inconfondibile ghigno demoniaco sfoderato durante la strage delle Fosse Ardeatine, a memoria d’uomo il più osceno eccidio di massa mai compiuto in una città italiana nel corso del Novecento: 335 civili prelevati e assassinati con modalità disumane. La cronaca dei fatti è tristemente nota. 23 marzo 1944: una compagnìa di soldati tedeschi del Tirolo, nel corso di un sopralluogo in Via Rasella a Roma, viene falcidiata da un attentato dinamitardo organizzato da una formazione di 12 gappisti partigiani. Il bilancio è pesante: 33 reclute altoatesine e 2 civili (tra cui un dodicenne) muoiono investiti dalle esplosioni di un ordigno artigianale e di quattro bombe a mano.

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La reazione nazista è devastante. Appellandosi alla legittimità dell’atto di guerra e ad un arbitrario e controverso “diritto di rappresaglia” Hitler stabilisce che per ciascun soldato tedesco morto nell’attentato saranno trucidati dieci italiani. Nel volgere di poche ore gli uomini del tenente colonnello delle SS Herbert Kappler e del suo fidato capitano Erich Priebke radunano 335 italiani (5 in più per un sadico “errore di calcolo”), tra condannati a morte in attesa di esecuzione, carcerati in attesa di giudizio ed ebrei. Il 24 marzo le vittime designate vengono condotte alla periferia di Roma, all’ingresso di alcune cave chiamate Fosse Ardeatine. E’ una folla dolente che comprende partigiani, artigiani, camerieri, musicisti. Il più giovane ha 14 anni, il più anziano 75. A tutti vengono legate le mani dietro la schiena. Alle tre del pomeriggio lo sterminio ha inizio: a gruppi di cinque, i condannati spariscono all’interno della cava. Priebke è tra i boia in camicia bruna che ad ogni esecuzione cancella i nomi dall’elenco. Fino alla fine dei suoi giorni (morirà centenario nel 2013) ammetterà di aver sparato solo due volte. Lo scenario è infernale. Le Fosse Ardeatine, racconteranno i medici legali, sono una gigantesca rappresentazione dell’orrore. Gli stessi carnefici tedeschi, non riuscendo a tollerare la crescente pila di cadaveri, vengono rianimati fino a tarda sera con razioni ripetute di superalcolici. Le conseguenze sono raccapriccianti. Alcuni soldati del plotone di esecuzione, completamente ubriachi e sconvolti, sbagliano mira e non colpiscono gli organi vitali. Così, molte vittime vanno incontro ad una morte lenta e doppiamente atroce.

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Torniamo al 1948. Per il crimine abbietto delle Fosse Ardeatine, perpetrato quattro anni prima, Herbert Kappler viene condannato all’ergastolo da un tribunale di Roma. La pressione popolare per catturare anche il suo braccio destro Priebke è forte e sacrosanta. Se la maggioranza chiede giustizia, alcuni gruppi di ex partigiani di orientamento comunista, ancora ben armati, cercano la vendetta. E Priebke, ovviamente, lo sa. Su di lui, peraltro, si addensano altre ombre: molti testimoni lo avevano descritto tra gli ufficiali più avidi nel compimento delle seguenti “operazioni”: il rastrellamento di oltre 2mila ebrei romani spediti ad Auschwitz e condannati allo sterminio, l’estorsione di 50 chili di oro alla comunità ebraica, il saccheggio della Banca d’Italia durante l’occupazione nazista della capitale e gli interrogatori a base di torture (come sarà sentenziato il 22 luglio 1997 dal tribunale militare di Roma); tra i suoi strumenti prediletti il pugno di ferro e le scosse elettriche da applicare ai genitali dei prigionieri (lo stesso sistema utilizzato dai gauchos argentini nei mattatoi e che, nella versione della picana, sarà utilizzato come strumento di tortura dai regimi sudamericani negli anni Settanta e Ottanta. L’ennesimo, tangibile segno della continuità tra nazismo e dittature militari).

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Criminale di guerra, ma non solo. Priebke aveva dato prova di abilità diplomatica tessendo proficue relazioni segrete tra il comando di occupazione nazista e il Vaticano. Contatti utilissimi che adesso, nel 1948, lo salveranno. Sotto lo pseudonimo di Otto Pape, Priebke si imbarca a Genova assieme alla moglie e ai figli, sul piroscafo San Giorgio, con un biglietto di terza classe. Sbarcato a Buenos Aires lavora come lavapiatti e cameriere. Nel 1954 si trasferisce a Bariloche, la “piccola Svizzera” in salsa argentina, così simile a una località dell’amato e lontano Tirolo. A Bariloche Priebke si sente a casa. Incontra e frequenta i “fratelli” camerati che qui hanno trovato rifugio a decine. “Don Erico” (così viene chiamato in Argentina) è un cittadino modello, una figura rispettata, direttore dell’Associazione culturale tedesco-argentina e della sua scuola tedesca che vanta più di mille studenti, alcuni dei quali ebrei. Il boia delle Fosse Ardeatine è anche un commerciante apprezzato. Il suo negozio di gastronomia “Vienna” è il più rinomato della città per il taglio e la bontà delle sue carni. Tutto cambia nel 1994. “Primetime”, seguitissimo programma giornalistico della testata americana ABC, lo scova grazie ad una “soffiata” del Centro Simon Wiesenthal, il centro di documentazione ebraica sull’Olocausto intitolato al celebre cacciatore di nazisti. Il famoso giornalista d’assalto Samuel Donaldson si mette alle calcagna di Priebke, lo segue lungo le strade di Bariloche, lo chiama con il suo vero nome…Mister Priebke! Nasce così la clamorosa intervista che svela al mondo il nascondiglio dell’ex capitano delle SS che fece tremare Roma. E’ la svolta di una seconda vita che sembrava ormai incardinata in una quotidianità senza sussulti.



Le reazioni allo scoop della ABC sono enormi. Lo scandalo dei nazisti liberi e protetti ha una risonanza internazionale. I milioni di morti, le vittime della barbarie nazista, vengono uccisi una seconda volta. In Italia le vecchie ferite riprendono a sanguinare. Il 10 maggio 1994, Emanuela Audisio, giornalista de “la Repubblica” firma la prima, vera intervista ad Erich Priebke. E’ una conversazione lunga e ragionata, densa di particolari e rivelazioni sconcertanti che apriranno la strada alle grandi inchieste giudiziarie e giornalistiche sulla “ratline“, la grande fuga dei seguaci di Hitler. Per Priebke, diventato improvvisamente scomodo anche per l’Argentina, si apriranno le porte per l’estradizione in Italia. Di seguito i passaggi cruciali dell’intervista:

Priebke, lei vive in Argentina. Chi l’ha aiutata a fuggire?

“L’aiuto venne da un padre francescano, no, non ricordo il nome. Ci disse: per la Germania non posso fare niente, ma se vi accontentate dell’Argentina posso aiutarvi. Dissi di sì. Anche perché era nel ’48 ed erano due anni che sotto mentite spoglie lavoravo in campagna, un lavoro molto duro. Inoltre non potevo più contare sulla mia bella casa che era stata requisita a mia moglie dai carabinieri”.

E andò a Genova

“Sì. Ma non è vero che il Vaticano dava soldi per la fuga. Per comprare i biglietti della nave, era un cargo italiano, vendemmo tutta la nostra roba. Solo che non potevo partire con il mio passaporto e chiesi aiuto al Vaticano, che tramite il vescovo Alois Hudal si disse pronto ad aiutarmi. Mi diede anche una mano padre Pfeiffer, ora morto, che spesso quando ero a Roma mi aveva chiesto clemenza per i prigionieri. Partii con un passaporto bianco con le insegne della Croce Rossa, idem mia moglie e i ragazzi. In seguito ho sentito dire molte cose, della facilità con cui a quei tempi il Vaticano procurava non solo nuove identità, ma anche soldi. A me il denaro non l’hanno dato, e nemmeno a quelli con cui ho parlato in seguito. Ho sentito parlare di un codice Odessa, di una catena di aiuti a ex nazisti, ma di questa ratline non so niente. E’ probabile che il Vaticano avesse una sua rete di conventi e monasteri dove nascondere gente, ma bisogna anche dire che il Vaticano aiutava tutti, anche gli ebrei, non solo noi tedeschi”.

Lei si definirebbe un assassino?

“Sì, uno alle Fosse Ardeatine l’ho ammazzato. Era l’ordine. Ma quello che voglio dire è che a noi ufficiali dei morti in via Rasella non importava niente. Non erano nostri ragazzi, erano del Tirolo, più italiani che tedeschi. I poliziotti italiani ci portarono cinque persone in più. C’era stato un errore. Non so come sia potuto accadere. Nessuno di noi pensava o voleva vendicarsi, l’ordine arrivò molto dall’alto. Eravamo schifati, non riuscivamo a capire come un tedesco potesse fare questo, ma Kappler fu inflessibile, costrinse a sparare anche il cuciniere”.

E’ preoccupato della richiesta di estradizione e del mandato di arresto appena firmato?

“Sì, sono molto preoccupato e angosciato. Non mi va di lasciare sola mia moglie. Roma è una bella città, l’ho amata molto, ma tornarci alla mia età e da prigioniero proprio non mi va giù. Anche perché in Argentina non è più come una volta, l’estradizione viene concessa spesso. Avessi saputo che capitava tutto questo non avrei mai detto quelle cose alla tv americana. Sono stato uno stupido. Qualche amico mi ha consigliato di andare in Germania, dove non sarei mai estradato, ma per adesso non voglio”.

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Se verrà estradato farà i nomi di altri suoi colleghi nella sua stessa posizione?

“Credo di sì. Alcuni di loro vivono o hanno vissuto alla fine della guerra per molto tempo nei dintorni di Roma, in Italia insomma. Ce n’era uno che è rimasto perché era fidanzato con una ragazza ed è stato addirittura scelto come comparsa in un film che hanno girato sulle Fosse Ardeatine. Lo hanno preso e messo in divisa perché dicevano che sembrava un perfetto tedesco. Lo stesso Harster, che era il mio capo e che contava molto più di me, veniva ogni anno a vedere gli spettacoli all’Arena di Verona. Senza mai essere fermato. E’ morto due anni fa, ogni tanto ci sentivamo, ci scambiavamo gli auguri a fine anno. Peccato, perché poteva essere un buon testimone”.

Il 21 novembre del 1995 Priebke, finalmente estradato, arriva in Italia, dove viene recluso nel carcere militare di Forte Boccea, a Roma, e interrogato dal procuratore militare Antonino Intelisano. Il lungo iter processuale e giudiziario si conclude il 16 novembre 1998, quando la Corte di Cassazione si pronuncia per la conferma definitiva della condanna all’ergastolo. Pochi mesi dopo, anche a causa della sua età avanzata, a Priebke vengono concessi gli arresti domiciliari in un appartamento di 100 metri quadrati a Roma, di proprietà dell’avvocato Paolo Giachini, che lo assisterà  personalmente negli ultimi anni (foto sotto).

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Sulle sponde del Lago Maggiore, a Varese e nei dintorni di Salò (sede di quella tetra Repubblica che rappresentò l’ultimo atto della vicenda”mussoliniana”, il colpo di coda decadente e violento del nazifascismo) trovarono protezione ed accoglienza molti ex gerarchi delle SS, tra cui lo stesso Priebke. Ancora oggi in quei territori lombardi, avamposti dell’Internazionale Nera, si danno appuntamento nostalgici in camicia nera, cultori del nazismo, seguaci dell’estrema destra. Qui, ogni 20 aprile, nel giorno del compleanno di Hitler, si organizzano festosi raduni, si promuovono iniziative culturali e convegni per fare proseliti tra le nuove generazioni; si diffondono concetti folli e dannati, come la superiorità della pura razza bianca o si affermano posizioni tra loro vigliaccamente contrapposte come la negazione dell’Olocausto o la rivendicazione dello stesso “per sterminare gli ebrei padroni della finanza mondiale e origine di tutti i Mali del mondo…”

Aspetti indagati nel corso di una sconvolgente inchiesta giornalistica intitolata il LAGO NERO, trasmessa da La7 il 22 aprile 2024



Priebke muore all’età di 100 anni l’11 ottobre 2013. Viene trovato privo di vita, all’ora di pranzo, sul divano della sua abitazione di via Cardinal Sanfelice a Roma. In un video, registrato qualche giorno prima, rivendica con orgoglio il suo passato, nega l’evidenza dell’Olocausto e ribadisce le sue linee di difesa abituali: aver ucciso personalmente “solo” due ostaggi in ossequio alle leggi di rappresaglia e per obbedienza militare agli ordini del Führer. Quella delle Fosse Ardeatine, conclude, “é stata una tragedia che mi ha ossessionato a vita“.



BOHNE, LO STERMINATORE DEI DISABILI

Tra gli altri salvataggi eccellenti spicca quello di Gerhard Bohne, l’ufficiale delle SS che ebbe un ruolo di punta nel programma di eutanasia di Hitler, il tristemente noto Aktion T4 il piano di sterminio dei disabili. Nel suo saggio, il giornalista Uki Goni scrive: Circa due milioni di persone risultano essere state sterilizzate durante il Terzo Reich dietro ordine di Hitler. La stampa nazista aveva lanciato una grande campagna propagandistica in cui mostrava quanto costasse allo Stato mantenere le persone mentalmente e fisicamente handicappate e tentava di indurre la popolazione a credere che le risorse statali potessero essere meglio impiegate altrove. La soluzione più rapida ed economica? Lo sterminio. Nell’agosto 1941, quando Aktion T4 fu cancellato, un totale di 62.237 tedeschi con malattie incurabili, malati mentali e altre persone handicappate erano finiti nelle camere a gas, una prova di collaudo per i campi di sterminio di massa delle SS, il cui personale era spesso composto da veterani del T4″.

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Dunque, anche Bohne, il raffinato stratega di questo piano abominevole, venne protetto, assistito e salvato. Per sua stessa ammissione, ricevette denaro e documenti dagli agenti salvanazisti del Presidente argentino Peròn. Personaggio-chiave, anche in questo caso, Krunoslav Draganovic, il prete ungherese specializzato nell’accoglienza dei fuggiaschi arrivati a Genova. Il 7 gennaio 1949 Bohne e sua sorella Gisele furono ricevuti dal consolato argentino del capoluogo ligure. Espletate le formalità si imbarcarono sul transatlantico Ana C. con un biglietto di prima classe, giungendo a Buenos Aires il 29 gennaio 1949.

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Quando nel 1955 il Presidente Peròn venne spodestato, molti nazisti fecero ritorno in Germania per paura di restare senza protezione. Tra questi Bohne che tuttavia al suo rientro fu processato per il genocidio legato al programma T4. Rilasciato su cauzione, fuggì nuovamente in Argentina nel 1963. A Buenos Aires condivise un piccolo appartamento con la sorella che nel frattempo era diventata infermiera nell’ospedale tedesco della città. Arrestato nel 1964 fu rispedito in Germania dove però venne dichiarato incapace di affrontare un processo per motivi di salute.

UNA STORIA A PARTE: JOSEF MENGELE

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Con il nome di copertura di Helmut Gregor la Croce Rossa fu costretta ad ammettere che aveva rilasciato un passaporto a Josef Mengele (foto sotto), l’angelo della morte, il medico aguzzino di Auschwitz, la personalità luciferina che ha incarnato tutte le peculiarità del maligno insite nel nazismo. Pura crudeltà criminale. Le sue tetre sperimentazioni su gemelli, zoppi e nani compiute nel campo di sterminio sono la prova tangibile dell’esistenza di Satana.

da “Operazione Odessa” di Uki Goni

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A differenza di altri medici delle SS che per svolgere il loro compito disumano dovevano ubriacarsi, Mengele era sempre sobrio, freddo e cinico, sempre impeccabile nella sua uniforme di SS. Spesso fischiettava arie liriche mentre divideva la fila di vittime indicando col suo bastone da passeggio: a destra, a sinistra, la morte o l’inferno in terra. A volte correva su e giù lungo le file di detenuti urlando: “Gemelli! Gemelli! Gemelli!”, selezionando cavie umane per i suoi efferati esperimenti pseudoscientifici.

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Mengele tentò di ottenere un aumento manipolato del numero di parti gemellari per raddoppiare il tasso di nascite di bambini ariani per Hitler. «Ogni madre ariana, con un parto gemellare, potrà fornire un individuo in più alla razza la cui vocazione è quella di dominare le altre» era solito ripetere. Un altro dei suoi esperimenti consistette nell’iniettare dei coloranti negli occhi di bambini per vedere se poteva trasformarli in colore blu ariano. Dopo i test i bambini venivano inviati alle camere a gas. Mengele teneva appesi al muro campioni di occhi, dal giallo pallido al blu vivace. “Erano attaccati con degli spilli, come farfalle” disse un sopravvissuto di Auschwitz. “Pensai che fossi morto e che mi trovavo già all’inferno”.

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Qualcuno da quell’inferno è uscito vivo. I membri della famiglia di artisti Ovitz, conosciuti come i sette nani di Auschwitz, originari di un piccolo paesino della Transilvania, Rozavlea, hanno potuto raccontare la loro allucinante esperienza. Deportati nel campo di concentramento la sera del 19 maggio 1944, furono accolti da un eccitatissimo dottor Mengele. Appena li vide esclamò: “Ho lavoro per i prossimi vent’anni!”. Diventarono cavie umane, sopportando esperimenti bizzarri e crudeli. Furono fatti sfilare nudi per gli ufficiali e un film fu inviato a Hitler per il suo divertimento. Fu proprio questa loro caratteristica fisica a metterli in salvo. Prima dello scoppio della guerra, gli Ovitz girarono l’Europa esibendosi come “Lilliput” nei più grandi teatri. Nel 1937, quando Disney fece uscire il film “Biancaneve e i sette nani”, la popolarità delle persone di bassissima statura raggiunse l’apice: nel 1939, circa 1.500 nani lavoravano nel mondo dello spettacolo. Alla fine della guerra, sopravvissuti ad Auschwitz, i sette fratelli emigrarono in Israele, dove ripresero ad esibirsi. Ma, come racconta Perla, il trucco di scena riusciva a fare apparire il volto sorridente, ma il cuore dei sette fratelli ha continuato a sanguinare. “Siamo saliti su un treno con 40 carri bestiame, ognuno con 80 persone. Le finestre erano sbarrate, non capivamo dove stavamo andando. Ci portammo dietro gli attrezzi del mestiere… Eravamo confusi, e quando chiedemmo a un soldato dove ci portavano ci disse: “Non importa, nessuno fa ritorno…” Eravamo arrivati ad Auschwitz”. Scesi dal treno, uno dei fratelli iniziò a distribuire biglietti da visita. “Non venimmo disinfettati, Mengele collezionava tipi di persone con deformità, teste a punta e altro… Prelevava sangue, estraeva denti, strappava ciglia e capelli. Ci versarono acqua fredda nelle orecchie, poi subito bollente. Credevamo di impazzire. Mia sorella grande chiese per quanto sarebbe durato, e le venne detto che fino a quando eravamo di qui non saremmo finiti di là. Insomma, non ci uccidevano”. Erano ebrei, ma guadagnarono tempo per il loro aspetto.  “Non dovrei dirlo – confessa – ma non odio Mengele. Ci ha lasciato vivere”.

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Il dottor Mengele si occupava di tutto il ciclo dell’orrore: dalle selezioni dei nuovi arrivati al loro stato di salute, con la piena facoltà di decretarne la vita o la morte. Era soggetto a continui sbalzi di umore. Talvolta si sentiva particolarmente ben disposto verso gli altri e in quelle occasioni manifestava sentimenti umani. Lo testimonia un episodio avvenuto sulla rampa di selezione del campo di sterminio: accortosi di una giovane e bella ebrea che disperandosi voleva raggiungere il “gruppo di sinistra” dove c’era la madre, la rimproverò duramente e con un cenno le ordinò di spostarsi nel “gruppo di destra”. Poche ore dopo la ragazza capì che Mengele le aveva salvato la vita. Si tratta di un episodio raro. Solitamente il dottore non si lasciava impietosire. Block 14 del campo B. Lì si effettuavano tutti gli esami praticabili su una persona vivente. Analisi del sangue, punture lombari, trasfusioni e scambio totale di sangue tra gemelli. Un numero indeterminato di altri esami, tutti dolorosi ed estenuanti. Quelli che lui definiva studi ed esperimenti erano in realtà torture su migliaia di detenuti ebrei, zingari e persone affette da nanismo considerate subumane. Tremila bambini e adolescenti furono torturati sino alla morte. Mengele divenne così “il principale fornitore di materiale per le camere a gas e i forni“.

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Nell’aprile del 1948 Mengele iniziò ad organizzare la propria fuga. I suoi crimini orrendi erano ormai di pubblico dominio grazie alle sconvolgenti testimonianze dei sopravvissuti e alle inchieste condotte nell’ambito del Processo di Norimberga. Si fece crescere i baffi e approdò in Italia cammuffato da altoatesino di lingua tedesca. Divenne così il Signor Helmut Gregor, uomo d’affari ed aspirante viaggiatore. Con questo pseudonimo Mengele ottenne un permesso di sbarco in Argentina rilasciato dall’ufficio della DIAE di Genova. Nella città medaglia d’oro della Resistenza, capitale dell’antifascismo, l’angelo della morte di Auschwitz trascorse diversi giorni in una casa privata al numero 3 di via Vincenzo Ricci, nel cuore di San Vincenzo quartiere nel pieno centro di Genova.

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Sicuramente, il 16 maggio 1949, si recò negli uffici della Croce Rossa dove ottenne un passaporto valido. Nei giorni immediatamente successivi ritirò un visto d’ingresso presso il consolato argentino e si sottopose alle visite mediche obbligatorie nell’ambulatorio della DIAE in via Albaro 38, luogo di passaggio obbligato per tutti i nazisti in fuga. Più complicata si rivelò la pratica per il visto d’uscita dall’Italia. Mengele, accortosi che il funzionario corrotto di riferimento era in vacanza, cercò di “ungere” con 20.000 lire quello in servizio, che però lo fece immediatamente arrestare. Dopo qualche giorno passato al fresco, il Signor Helmut Gregor venne salvato dal funzionario al soldo dell’organizzazione Odessa tornato finalmente dalla vacanza. Mengele riuscì così ad imbarcarsi il 25 maggio 1949 sulla North King. Destinazione Buenos Aires.

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In Argentina Mengele divenne uno degli animatori più vivaci della comunità nazista. Un punto di riferimento per i camerati di tutto il mondo. Dopo qualche anno si trasferì provvidenzialmente in Paraguay, prima di essere raggiunto da una richiesta di estradizione presentata dalla Germania. Non mostrò mai segni di rimorso. Rimase un fedelissimo profeta del Führer. Disse di non aver inventato lui Auschwitz…che esisteva già. Aggiunse che il suo lavoro era consistito semplicemente nel classificare gli abili al lavoro dai disabili e spiegò che i gemelli del campo di sterminio dovevano a lui la vita. Morì il 7 febbraio 1979 a Bertioga, in Brasile, colpito da un ictus mentre nuotava nelle acque dell’Oceano Atlantico, a pochi metri dalla riva. Aveva 67 anni. Le sue ossa sono a disposizione degli studenti di Medicina per i loro studi.

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Alla figura di Mengele sono ispirati due film che anticiparono alcuni scenari poi confermati dalle ricerche sull’Operazione Odessa: “I ragazzi venuti dal Brasile” del 1978, girato da Franklin J. Schaffner e interpretato, tra gli altri, da Gregory Peck e Laurence Olivier. Racconta la storia di un gruppo di gerarchi nazisti rifugiati in Sudamerica che negli anni Settanta progettano un piano per rifondare il Reich cercando di far nascere un nuovo Hitler. Peck interpreta Josef Mengele, mentre Olivier l’ebreo Ezra Liebermann, un cacciatore di nazisti che scopre il piano.



L’altro film è “Il maratoneta” del 1976, diretto da John Schlesinger e interpretato da Dustin Hoffman, Marthe Keller e Laurence Olivier. Un giovane ebreo, studente universitario di Storia e aspirante maratoneta, s’imbatte in un criminale di guerra nazista che torna dall’Uruguay a New York per entrare in possesso di una partita di diamanti.



Questa è dunque la trama dell’Operazione Odessa, un piano che ha consentito a decine di criminali nazisti (ne abbiamo descritto i pensieri e le opere) di vivere da uomini liberi. Priebke per mezzo secolo, Mengele per 34 anni, Eichmann per 15. Aiuti che qualcuno, ancora oggi, si ostina a rappresentare come sublimi esempi di carità cristiana. Nulla di più lontano. Quelle coperture fornite dall’ortodossia cattolica furono un cinico atto politico in chiave anti-comunista. Si trattò di uno sfregio all’etica, un secondo oltraggio a milioni di vittime. Sicuramente, il capillare sistema di protezioni offerto dall’Operazione Odessa, inibendo la ricerca della verità e il compimento della giustizia terrena, ha contribuito a generare altre dittature e negazionismi.  

OMBRE FINALI 

E pensare che tutto ebbe origine da una folle ricostruzione della storia umana orientata dai Protocolli dei Savi di Sion, un clamoroso falso documentale che tuttavia ha rappresentato il testo base della Shoah, lo sterminio degli ebrei. Secondo questa teoria, rielaborata e rafforzata dal Führer (foto sotto), gli ebrei intendevano impadronirsi delle finanze mondiali e sottomettere le genti a una schiavitù ispirata dalla legge del loro Dio. Sull’intero popolo ebraico, inoltre, doveva ricadere la colpa perenne dell’uccisione di Gesù. In altri termini gli ebrei dovevano essere puniti e annientati in quanto mandanti della condanna a morte del Cristo. Tale aberrante congettura trovava una sponda nelle teorie della razza e del superuomo, nell’esoterismo e nel culto della personalità, pietre angolari del nazismo che conferivano ai tedeschi/ariani, popolo dominante e predestinato, la sacra missione di elevare l’umanità.

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Forse sarebbero bastati due minuti e una pacca sulla spalla di Hitler per disporne il ricovero coatto in un manicomio (oggi diremmo TSO, trattamento sanitario obbligatorio) e invece, sull’onda di quelle strampalate panzane, che ancora oggi vantano un numero preoccupante di seguaci, un movimento politico (il nazionalsocialismo) e uno Stato europeo (la civile Germania) toccarono l’abisso del disumano e le vette del sadismo. Ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio si sentiva spesso ripetere la frase: “Durch den Kamin”, da qui si esce solo attraverso il camino. Per molti anni gli scampati a quell’apoteosi dell’abominio non sono riusciti a testimoniare nel timore di non essere creduti o nell’impossibilità di descrivere il male assoluto. Resi muti dalla glaciazione del dolore. “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario” scriveva Primo Levi.

NON HO MAI PERDONATO, MA HO IMPARATO A NON ODIARE

Nell’inverno 1944 Liliana Segre aveva 13 anni e fu costretta a salire su un camion che attraversava Milano per raggiungere i sotterranei della Stazione Centrale e il binario 21, da dove partivano i treni per Auschwitz-Birkenau. Suo padre Alberto (foto sotto) era con lei, ma non lo vedrà più.

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“Imparai in fretta che lager significava morte, fame, freddo, umiliazioni, torture, esperimenti. Partimmo in 605, tornammo in 22. Entrando ad Auschwitz pensai di essere impazzita. Forse, solo la visione dell’Inferno di Dante, che avrei letto qualche anno più tardi, poteva assomigliare a quel posto pensato ed organizzato a tavolino. Una distesa di baracche, la neve per terra, decine di donne rasate, scheletrite, vestite a righe, che scavavano buche, che portavano pietre sulle spalle con un’aria da dannate. Entrammo nella prima baracca con i nostri vestiti, e lì cominciammo a capire che dovevamo dimenticare il nostro nome. “Dimenticate il vostro nome, non interessa a nessuno. Da adesso in poi sarete un numero!”. Mi venne tatuato un numero sul braccio, così ben fatto che dopo tanti anni si legge ancora perfettamente: 75190. “E imparatelo subito quel numero, imparatelo in tedesco”. Perchè era questione di vita o di morte rispondere immediatamente al comando, perchè ci fu veramente chi morì nei primi giorni per essere stato sordo e muto alla lingua nazista e non seppe obbedire al richiamo del proprio numero. Fummo spogliate, rasate, rivestite con le divise a righe tirate su da un mucchio, zoccoli ai piedi, fazzoletto in testa, mentre passavano i soldati che sghignazzavano. Non ci lasciarono neppure un libro, un fazzoletto, una fotografia. Della nostra vita precedente non rimase nulla.

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Ci guardavamo, eravamo un gruppo di trenta ragazze italiane. “Ma perchè ci capita questo? Ma dove siamo finite?”. In fondo al vialone centrale dell’enorme campo di Birkenau, capace di contenere 60mila donne di tutte le nazionalità…in fondo si vedeva un edificio con una ciminiera dalla quale usciva del fumo. Le prime prigioniere che incontrammo nella baracca erano ragazze francesi arrivate da qualche giorno. Ci dissero: “Vedete laggiù in fondo quel fumo che esce dalla ciminiera? Beh, quelli che hanno viaggiato con voi e che avete salutato pochi minuti fa, sono già passati per il camino”. “In che senso?” chiedemmo noi, ancora calde di quell’abbraccio. E loro: “Dovete sapere che quelli considerati non adatti al lavoro, vanno alla camera a gas e poi vengono bruciati nei forni!”. Noi guardavamo queste ragazze francesi e ci dicevamo: “Queste sono completamente pazze…ci hanno messo in un manicomio”. Per una mente normale non era credibile che esistesse un luogo simile. Eppure, da quel momento, cominciò la mia vita di prigioniera-schiava”.

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Liliana Segre (foto sopra) ha anche descritto più volte la cosiddetta “marcia della morte”, durante la quale i prigionieri furono costretti a seguire i nazisti in fuga, fino a quando questi ultimi si tolsero la divisa per nascondersi tra la popolazione civile. Una SS gettò a terra la sua pistola. Liliana pensò: “Prendo l’arma e la uccido”. Poi si bloccò. “No, non la prendo”. E in quel momento, dice la Segre, “ha vinto la vita. Non ho mai perdonato, ma ho imparato a non odiare”

di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io, reporter

L’UOMO CHE UCCISE 17 VOLTE

di Fabio Tiraboschi & Patrice MersaultGenoa News Chronicle / Io, reporter

PROLOGO

Gli omicidi in Italia sono circa mille ogni anno, mediamente tre al giorno. In alcuni casi l’assassino decide di uccidere una persona o più persone a lui anonime. Sono omicidi nei quali ci specchiamo con orrore perchè parlano di noi, perchè ognuno di noi può diventare bersaglio e vittima.

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Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. Io vidi gente sotto infino al ciglio

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Se fosse vissuto al tempo di Dante sarebbe un infelice dannato dell’Inferno, confinato dal Poeta nel primo girone del VII cerchio, quello dei violenti contro il prossimo, gli assassini e i predoni. Immerso fino agli occhi nel sangue bollente del fiume Flegetonte, trafitto dalle frecce dei centauri appostati sulle sponde ogni volta che tenta di uscire da quell’orrendo fiume rosso. Una pena atroce per chi ha provocato cruente sofferenze agli altri. Ma Donato “Walter” Bilancia non è vissuto al tempo di Dante e non sappiamo se la sua anima sia intrappolata in una prigione di castigo eterno. Sappiamo, tuttavia, che il suo nome, qui sulla Terra, sarà per sempre legato alla damnatio memoriae: i suoi crimini, inchiodati alla cronaca e alla storia, perpetueranno la sua fama immonda di “mostro” e inibiranno il perdono, la pietà e la compassione terrena.

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Ma chi era Donato Bilancia? Una misera persona che ha fatto un macello, secondo Filippo Ricciarelli, il carabiniere che coordinò la sua cattura. Altri particolari che delineano il suo profilo emergono dalla moltitudine di persone che lo hanno incrociato nel corso della vita. Per quasi tutti era la classica “legera” un termine genovese per indicare lo sfaccendato che tira avanti con espedienti che sconfinano spesso nell’illegalità. Nel suo curriculum compare una sola attività presentabile, quella di commerciante, grazie a un negozio di biancheria intima aperto per un breve periodo in Piazza Marsala, nel centro di Genova; alcune commesse e collaboratrici e diverse clienti, costrette a subire pesanti avances e in qualche caso abusi sessuali, non conserveranno, di quell’esperienza, un buon ricordo. Donato Bilancia nasce a Potenza, ma è genovese di adozione. Colleziona furti, donne vistose e guai con la giustizia. E’ un guascone. Nel corso della sua vita diventa ludopatico: ai tavoli da gioco vince tanto (arriva ad accumulare 1 miliardo di lire in contanti) e perde tanto (in alcuni periodi è assediato dai debiti). Chiede spesso soldi in prestito e sempre li restituisce. Sa essere elegante e cortese, ma anche maleducato e triviale. E’ fondamentalmente un uomo solo, incapace di instaurare legami profondi. E’ misogino: va sempre a caccia di donne, ma non le ama, anche perchè non riesce a soddisfarle sessualmente. Nella sua fase di killer seriale ne ucciderà otto e tenterà di ammazzarne altre due. 

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Bilancia è anche un incallito puttaniere, insegue i vizi, non si pone limiti e si nutre di perversioni oscene. Due episodi su tutti: durante un soggiorno in Polonia assiste, per caso, alle prove di un balletto nel teatro di un casinò. Osserva le acrobatiche evoluzioni delle ballerine di danza classica e ne rimane folgorato. Tornato in albergo distribuisce mance da capogiro al personale della reception per garantirsi la compagnìa di una ballerina disposta a prostituirsi. Viene accontentato: nella sua camera si presenta una ragazza che – parole sue – “inizia una danza esibendosi in vertiginose spaccate…“. Latitudini diverse, stesso copione. In un quartiere poverissimo della periferia di Caracas, prova un’attrazione irresistibile per una donna non particolarmente bella che sta allattando il suo bambino in pubblico. Il bambino attaccato al seno. Quella provocazione erotica sovrastata dalla funzione nobile della maternità alimenta in lui il desiderio perverso. Attraverso un intermediario le offre una somma di denaro per una prestazione sessuale. La trattativa è breve e la donna accetta. E’ il lato oscuro del killer tracciato dallo psichiatra Vittorino Andreoli.

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E’ lo stesso Bilancia che si racconta. Si scopre, così, che la sua infanzia è segnata negativamente dalla figura del padre (“l’ho sempre considerato una cacca” confiderà più volte). Durante le vacanze estive in Lucania, l’uomo costringe l’allora bambino Donato ad abbassarsi gli slip davanti alle cuginette. I sorrisi ironici delle ragazzine lo offendono, si rende conto che quel divertimento è provocato dalle misure ridottissime dei suoi organi genitali. Soffre anche di enuresi notturna, bagna il letto di pipì fino all’adolescenza e patisce le pene dell’inferno quando i genitori espongono sul balcone di casa il materasso bagnato. Traumi pesanti che nel corso dell’adolescenza si accompagnano a un altro problema fisico: l’atrofia delle gambe. Al mare, Donato, prova vergogna, così cerca di immergersi in acqua il più possibile per nascondere quel difetto; quando invece si sdraia sull’arenile posiziona grossi sassi sotto le cosce e i polpacci per far sembrare le gambe più toniche. Il nome Donato, poi, lo fa infuriare, lo trova orribile. Mette una pezza assumendo il soprannome di marca anglosassone Walter con il quale sarà conosciuto da tutti. E’ il Bilancia segreto, devastato dai complessi, dalle nevrosi, dai traumi angoscianti. La vita gli riserva altre batoste. Nel novembre del 1972 è vittima di un terribile incidente stradale mentre è al volante di un’autobotte. Finisce in rianimazione, ma si riprende. Nel 1987 il fratello – tradito dalla moglie – si suicida gettandosi sotto un treno con il figlioletto in braccio (l’odio di Bilancia per le donne si rafforza probabilmente dopo quell’episodio). Nel 1990 è a bordo di un’auto guidata da un’amica; la donna esce di strada e si schianta contro un palo. Lei rimane illesa, lui finisce massacrato in ospedale. Qualche anno dopo si trasforma in serial killer, ma questa è la storia dei prossimi capitoli…

DONATO BILANCIA

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Se si escludono i killer della mafia e i bombaroli delle stragi, Donato Bilancia – per numero di vittime e modalità efferate degli omicidi commessi – è considerato il più feroce serial killer italiano. Tra il 1997 e il 1998, in Liguria e nel basso Piemonte, uccide 17 persone, per rendere l’idea, lo stesso numero di morti provocati – il 12 dicembre 1969 – dalla bomba piazzata nell’atrio della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, nel cuore di Milano, la madre di tutte le stragi, il primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra, l’attentato che ha dato il via alla strategia della tensione. Bilancia predatore onnivoro, personificazione della banalità del Male. Tra i 47 e i 48 anni, all’apice della sua carriera di ladro e giocatore d’azzardo compulsivo, la sua unica ragione di vita è stata quella di generare morte, dispensare dolore, seminare terrore. Bilancia ha ucciso per rivalsa, per rapina, per odio, per vendetta o per il solo gusto di uccidere, spesso senza neppure l’ombra di un movente. Ha ucciso perchè ha trovato facile farlo. Delle sue 17 vittime ne conosceva solo 3. Nella sua rete sono caduti tre metronotte, due compagni di bisca e la moglie di uno di loro, una coppia di orefici, due donne scelte a caso sui treni, un benzinaio, due cambiavalute e quattro prostitute.

Mi sedevo sul divano alla sera, mi mettevo il cappello in testa, mi scattava qualcosa, uscivo e andavo a uccidere

Azioni criminali casuali e disordinate. Bilancia è un camaleonte, cambia sempre schema, uccide senza una logica apparente, confonde. Per settimane la Squadra Mobile di Genova, titolare delle indagini sui primi delitti, segue una pista diversa per ogni omicidio. Non esistono correlazioni tra luoghi, ambienti e storie individuali delle vittime. L’unico filo rosso che sembra collegare un omicidio all’altro è rappresentato da due fattori: l’arma, una Smith&Wesson calibro 38, e una ritualità ricorrente: l’assassino, prima di premere il grilletto per il colpo di grazia, copre la testa delle vittime con un indumento. Alcuni omicidi sono vere e proprie esecuzioni, ma sembra comunque impossibile che a colpire sia sempre la stessa mano. Si arriva addirittura ad ipotizzare l’azione congiunta di un killer dei treni che emula un killer delle prostitute, mentre per i delitti dei metronotte e dei cambiavalute si materializza lo spettro di una banda albanese o di una nuova organizzazione criminale sul modello della famigerata Uno bianca. Appaiono invece più chiari i collegamenti tra gli omicidi delle due coppie, gli sposini e gli orefici, ma si indaga (col senno di poi, sbagliando) su malavita, mondo dei ricettatori e clan mafiosi attivi nel business dei videopoker. Nessuno, insomma, crede a un serial killer nostrano, malgrado l’Italia figuri ai primi posti per numero di omicidi seriali nel mondo. Per gli investigatori è un puzzle incomprensibile.

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Qualcosa di inaspettato, tuttavia, getta nuova luce sulle indagini. Bilancia, infatti, inizia a commettere i primi errori, tradito dalla sua spocchia o dal desiderio inconscio di farsi catturare. Le prime informazioni utili fioriscono il 20 marzo 1998. Bilancia ha appena ucciso e rapinato il cambiavalute Enzo Gorni, 46 anni, padre di due bambine. E’ il suo decimo omicidio, ma nessuno ancora lo immagina. Tuttavia, per la prima volta, appare un testimone-chiave: è il cognato della vittima che a pochi metri dal negozio assiste terrorizzato al delitto e vede l’assassino. Descrive un uomo di mezza età, corporatura media, capelli brizzolati che dopo aver ucciso a freddo, sale a bordo di una Mercedes nera. E’ il primo forte indizio da cui partire. Il killer, quel killer, non è più un’ombra.

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Sempre in quei giorni un certo Pino Monello, perseguitato dalle multe per pedaggi non pagati in autostrada, riferisce alla polizia che alcune settimane prima aveva venduto la sua auto, una Mercedes nera, senza redigere alcun passaggio di proprietà. L’acquirente è un suo amico al momento irreperibile. Ovviamente ne comunica le generalità: si chiama Donato Bilancia. E’ lui, spiega Monello, che non paga i pedaggi, accodandosi probabilmente alle auto che lo precedono al casello. E’ un’informazione preziosissima che tuttavia non verrà incrociata subito. Si scoprirà, solo più avanti, che le multe corrispondevano ai luoghi in prossimità dei quali erano stati commessi alcuni omicidi. La svolta decisiva arriva il 24 marzo 1998. A Novi Ligure, nel viale di villa “Minerva” in località Barbellotta, vengono uccisi due metronotte, Candido Randò e Massimiliano Gualillo, ma anche questa volta c’è un supertestimone oculare che per puro miracolo sfiora la morte, scampa alla mattanza e vede tutto: si chiama John Zambrano Castro, alias Lorena, ed è un transessuale venezuelano di 28 anni che si era appartato proprio con il killer a bordo di una Mercedes nera.

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Sconvolta, seminuda e ferita da colpi di arma da fuoco, Lorena, pietrificata dal terrore, attende che il killer si allontani, poi chiama i soccorsi con la radiolina di uno dei metronotte uccisi. All’inizio non viene creduta, dalla centrale pensano a uno scherzo. Eppure quelle urla ripetute trasmettono una disperazione autentica e potente. Si comprende, purtroppo, che alla Barbellotta è accaduto qualcosa di terrificante. Alle due di notte, finalmente arrivano i carabinieri e i colleghi delle due povere vittime. La scena che si presenta ai loro occhi è quella di un massacro. Lorena, la sopravvissuta, racconta agli investigatori che il cliente, un uomo di mezza età, ha sparato a tutti: ai due metronotte che erano intervenuti per un controllo all’interno della proprietà privata, e a lei, scomoda testimone, che raggiunta dai proiettili si è aggrappata all’unica possibilità di salvezza: fingersi morta. Il viado Lorena – sotto protezione – rimarrà in ospedale 40 giorni, segnata per sempre dall’atroce esperienza; la sua descrizione consentirà, però, di tracciare l’identikit dell’assassino (foto sotto) che riconoscerà senza la minima esitazione anche dopo l’arresto, durante un drammatico confronto all’americana nel carcere di Alessandria. A John Zambrano Castro, alias Lorena, l’Italia deve dire grazie.

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E se Bilancia verrà arrestato lo si deve anche alla testmonianza di un’altra vittima designata, Luisa Ciminiello, una escort scampata alla morte il 3 aprile 1998, a Sanremo. Bilancia, pistola in pugno, è sul punto di ucciderla, ma si blocca e rinuncia, colpito dalle parole della donna che in lacrime gli mostra la foto di un bambino: è il suo nipotino, ma in realtà – nel disperato tentativo di impietosire il più possibile l’aggressore – racconta una bugia, una bugia che le salverà la vita: gli dice che è una mamma e che quel bimbo della foto è suo figlio.

“Che cosa vuoi fare? Perchè mi vuoi fare del male? Ho un bambino, un bambino piccolo”

“Non ce l’ho fatta e me ne sono andato – racconterà Bilancia ai Carabinieri dopo l’arresto. Ha avuto solo un minuto per potermi parlare e per farmi presente una storia che mi ha fatto smontare, mi ha fatto rientrare nella realtà. Di solito se io parto per fare una cosa la faccio, non mi può fermare nulla. Invece con quella storia, quella donna mi ha fulminato e sono rimasto lì come un deficiente”.

Il cerchio si stringe, ma Bilancia cambia ancora i suoi piani e si trasforma nel killer dei treni. Nel mese di aprile del 1998 l’opinione pubblica è scossa dagli omicidi abominevoli di due giovani donne: Elisabetta Zoppetti e Maria Angela Rubino. L’Italia precipita nella psicosi. Le autorità invitano le giovani donne a servirsi del treno solo in caso di necessità. La Polfer moltiplica la sorveglianza. Adesso, solo adesso, dopo i delitti dei treni, si parla apertamente di serial killer. A parlare è la pistola P38, firma di tutti gli omicidi commessi tra Liguria e basso Piemonte.

 I DELITTI DEI TRENI

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Pasqua 1998. E’ il 12 aprile. Elisabetta Zoppetti è a bordo dell’intercity La Spezia – Venezia con un biglietto di prima classe regalatole dal marito. Ha 33 anni, è sposata e madre di una bambina di 4. Ha trascorso qualche giorno di vacanza a Lavagna con la famiglia e sta rientrando a Milano per riprendere il lavoro di operatrice sanitaria presso l’Istituto Tumori. Sono le tre del pomeriggio ed Elisabetta si alza per andare nella toilette. Bilancia la segue. Il treno arriva a Verona, fine corsa. Alcuni passeggeri segnalano ai controllori un bagaglio lasciato incustodito. A chi appartiene? Scattano le ricerche. La porticina di una toilette è chiusa. I controllori la aprono e vengono investiti dall’immagine angosciante di un corpo rannicchiato. Si pensa ad un malore, ma Elisabetta Zoppetti – così recitano i documenti – è stata colpita da un colpo di pistola alla nuca, dopo che l’assassino le ha coperto la testa con una giacca.

18 aprile 1998: sono le 22 e 40 quando due addetti alle pulizie della stazione di Ventimiglia aprono la toilette della seconda carrozza di prima classe. Il treno regionale proveniente da Genova è arrivato da pochi minuti. A terra, senza vita, c’è una giovane donna, i capelli biondi, una chiazza di sangue. I primi rilievi della Scientifica accertano che Maria Angela Rubino è stata uccisa da un colpo di pistola calibro 38. E’ l’orribile fotocopia dell’omicidio commesso sei giorni prima, ma questa volta c’è un particolare in più: l’assassino ha compiuto un atto oltraggioso e ripugnante che, tuttavia, permetterà agli investigatori di isolare il suo DNA. Maria Angela aveva 32 anni. Quella maledetta sera tornava da Albenga dove si era recata per la morte di un parente. Era fidanzata con un poliziotto e lavorava come colf in Riviera e nella vicina Costa Azzurra.

L’ARRESTO

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La Mercedes nera, le testimonianze oculari di Lorena e Luisa, i dettagli importanti riferiti da alcune amiche delle quattro “lucciole” uccise, le pallottole del revolver P38 (una Smith&Wesson, si saprà in seguito, che Bilancia acquistò da un giocatore rimasto a secco di soldi al casinò di Sanremo), più persone che parlano di un uomo di mezza età, brizzolato, avvistato nei pressi dei luoghi di alcuni delitti. Incrociando questi elementi i Carabinieri del nucleo operativo di Genova guidati da Filippo Ricciarelli e il Ris di Parma (il reparto di analisi scientifica diventato famoso proprio per quell’indagine-capolavoro)  arrivano all’identificazione e alla cattura del killer.

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Per settimane vengono controllate tutte le Mercedes di colore nero, iniziano i pedinamenti nei confronti di quell’uomo sempre solitario così somigliante all’identikit fornito da Lorena, poi l’intuizione “da film” che segna la svolta: la tazzina del caffè, appena consumato dal sospettato in un bar, viene prelevata da un carabiniere per ricavarne il DNA da confrontare con quello trovato sulla scena del delitto di Maria Angela Rubino. E’ il momento decisivo. Mentre un gruppo di carabinieri in borghese non perde mai di vista il presunto “mostro”, dai laboratori di Parma arriva la notizia tanto sperata: i DNA coincidono. Il serial killer è Donato Bilancia. Il 6 maggio 1998 scatta la trappola. Davanti all’ospedale genovese di San Martino, dove si era recato per sottoporsi ad una radiografia ai polmoni (accanito fumatore, soffriva d’asma), Bilancia viene bloccato mentre sta per montare sulla sua Vespa. E’ la fine di un incubo durato sei mesi.

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Il processo lungo e drammatico viene celebrato in un’aula bunker del Tribunale di Genova. Bilancia non si presenta a nessuna udienza “per non incrociare – spiega – gli sguardi dei familiari delle vittime“, ma dalla sua cella segue in tv ogni fase del dibattimento, sintonizzato sulle dirette di Primocanale, emittente privata genovese. Il 12 aprile 2000 la pronuncia della sentenza: 13 ergastoli per 17 omicidi, 28 anni per tentato omicidio, rapina, porto d’armi abusivo più 6 anni per vilipendio di cadavere. Pena poi confermata in Corte d’appello e in Corte di Cassazione. Bilancia conclude, così, la sua esistenza in galera dove cerca visibilità e a volte la ottiene. Famose le sue interviste televisive con Ilaria Cavo e Paolo Bonolis.

CONFESSIONI

Le confessioni del serial killer sono narrazioni di agghiacciante freddezza. Nessun pentimento, nessuna pietà per le vittime. 

IL PRIMO OMICIDIO DEI TRENI

Quella mattina mi sono alzato dal letto e sono andato in stazione per prendere visione di una donna sul treno e ucciderla. Ho preso il treno a Genova, il pendolino che andava a Venezia. In uno scompartimento c’era una donna che io chiaramente non avevo mai visto. Sono rimasto in piedi, in fondo al corridoio. Ho aspettato che lei si recasse in bagno e allora ho aperto la porta con una chiave falsa, una normalissima chiave a quattro. Questa ha iniziato a urlare, io le ho messo la giacca sulla testa e le ho sparato. L’unica cosa che le ho preso è il biglietto, perchè spuntava dalla sua borsa e io non ce l’avevo, avendo preso il treno così, senza niente. Il fatto è accaduto tra Serravalle e Tortona, dove pensavo che quel treno fermasse e invece non ferma. Quindi sono rimasto una ventina di minuti con la signora in bagno. Non l’ho toccata dal punto di vista sessuale. A Voghera sono sceso e ho aspettato un altro treno che andava a Genova. Ho strappato il biglietto e l’ho buttato via.

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IL SECONDO OMICIDIO DEI TRENI

Sono montato sul treno a Sanremo. Io ero nel corridoio e ho visto la signora andare verso il bagno. Ho aspettato qualche minuto, poi sono entrato con la solita chiave. Ho preso la sua giacca (generalmente, quando una donna va in bagno, se ha una giacca se la leva e la lascia appesa da qualche parte), gliel’ho messa sulla testa e ho sparato. A questo punto Bilancia descrive un oltraggio raccapricciante, un vilipendio che abbiamo deciso di omettere. Il tutto è stato una cosa rapidissima, perchè sono montato sul treno a Sanremo e sono sceso a Bordighera. Come si è fermato il treno sono sceso dalla parte sbagliata e difatti sono finito sui binari. Allora, immediatamente, è arrivato uno dei controllori e mi ha detto qualcosa. Uscito dalla stazione, ho preso un taxi e ho chiesto al tassista se mi poteva portare fino a Sanremo, dove avevo la macchina.

IL DUBBIO

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Mai nessuno in Italia ha ucciso così tanto in così poco tempo. Ma Donato Bilancia ha sempre agito da solo? Nella prima lunghissima confessione dopo la cattura ha spiegato di sì. Tuttavia, per il duplice omicidio di Maurizio Parenti e della moglie Carla Scotto, passato alla cronaca come l’omicidio degli sposini o il massacro della Casa del Boia (il delitto avvenne nel palazzo attiguo alla lugubre casa del boia che eseguiva le pene capitali nella Repubblica di Genova), i dubbi rimangono e difficilmente si dissolveranno. Lo stesso Bilancia, nel corso degli anni, ha cambiato versione, insinuando a più riprese la presenza di complici sulla scena del crimine. Dalla sua bocca, tuttavia, non è mai uscito un nome. E’ opportuno, a questo punto, ripercorrere quei primi delitti. Donato Bilancia inizia ad uccidere per vendetta. Il suo odio è rivolto soprattutto contro Giorgio Centenaro e Maurizio Parenti, due compari di gioco d’azzardo che in modo poco limpido, a suo dire, gli avevano svuotato il conto in una bisca clandestina di Bogliasco, località del Golfo Paradiso, vicino a Genova. Quattrocento milioni delle vecchie lire persi in un baleno. Bilancia è convinto di aver subìto uno sgarro. Per Giorgio Centenaro, incrociato mille volte al tavolo verde, nutre da tempo un’avversione viscerale; al contrario considera Maurizio Parenti un amico fraterno e quindi vive la sua combutta con l’odiato Giorgio come un tradimento insanabile. Per lui sono il “gatto” e la “volpe” e decide di eliminarli. Il 14 ottobre 1997 va a trovare Giorgio Centenaro, ma chiaramente non è una visita di cortesia. E’ lo stesso Bilancia a raccontare: 

Quando ha acceso la luce all’interno dell’appartamento, sul suo viso non c’era più quella smorfia di sfida che aveva quasi sempre. Mi sono chiuso la porta alle spalle. L’ho fatto spogliare in maniera che rimanesse solo in mutande e canottiera. Io gli avrei anche sparato, ma se lo uccidevo con la pistola succedeva un casino, perchè lui abitava in una mansarda e per il rumore sarebbe successo un macello. Quindi l’ho legato come un salame dalla testa ai piedi con del nastro adesivo che avevo portato con me. E poi col nastro ho coperto anche la bocca e il naso. Gli ho messo una mano sulla bocca e con l’altra gli ho chiuso il naso, in modo che non potesse respirare. L’ho fatto soffrire molto, perchè più volte ho simulato il soffocamento. Intanto gli spiegavo perchè lo stavo facendo. Ho ultimato il soffocamento sentendo la sua vita fuggire con un’ultima tensione del corpo. Poi gli ho levato tutto il nastro e sono andato via. L’ho lasciato con le mani rivolte al soffitto. Prima di andarmene, gli ho dato un colpo nei testicoli per rendermi conto che fosse realmente morto, e mi sono accorto che si era urinato addosso.

La morte di Giorgio Centenaro viene archiviata come decesso per cause naturali. Sarà lo stesso Bilancia, dopo l’arresto, a “rivendicare” l’omicidio. Dopo otto giorni è la volta di Maurizio Parenti, rappresentante e installatore di videopoker, e della moglie Carla, commessa in un negozio di abbigliamento. E’ sicuramente l’omicidio più controverso. La coppia era appena tornata dal viaggio di nozze (foto sotto).

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Maurizio Parenti era giovane, atletico, alto quasi due metri, molto sveglio. Difficile pensare – come hanno sempre sostenuto i suoi familiari – che non abbia reagito di fronte a un uomo come Bilancia, per età e fisico, indubbiamente più fragile. Eppure il killer, dopo l’arresto, confessa freddamente di aver fatto tutto da solo: 

Siamo entrati nel portone insieme e a quel punto ho spianato la pistola e ho detto: “Non fare casino, perchè altrimenti mi costringi a farti del male”. Gli ho messo le manette e gli ho detto: “Guarda che su in casa ci sono dei miei amici che se sentono partire un colpo fanno del male a tua moglie”. Non era vero niente. L’ho imbavagliato con un giro di nastro perchè non gridasse. Siamo saliti con l’ascensore all’ultimo piano, mi sono fatto dire dove teneva le chiavi e ho aperto. Appena sono entrato ho visto che in camera c’era la moglie che dormiva. L’ho portato in cucina e l’ho fatto sedere vicino alla finestra rinforzandogli il giro del nastro. Gli ho detto: “Dimmi dov’è il denaro” e lui ha risposto: “Di sopra, nella cassaforte”. Intanto la moglie si è svegliata ed è venuta in cucina. Quando ha capito che cosa stava succedendo è tornata in camera da letto. Io l’ho seguita e lì le ho passato due giri di nastro perchè fosse impedita nei movimenti. Allora io e il Parenti siamo saliti di sopra. Poi sono tornato giù a prendere anche lei, perchè lui era preoccupato, la voleva vicino. Allora gliel’ho portata su. Li ho fatti sedere, e mi sono fatto dare la combinazione. Ho aperto la cassaforte. Ho tirato fuori una scatoletta rosa e dentro c’erano degli orologi, del denaro in contanti, esattamente 13 milioni e 500mila lire, e degli assegni. Il furto è stata solo un’operazione per fuorviare le indagini. A questo punto siamo scesi tutti e tre di sotto. In camera li ho fatti sistemare sul letto, gli ho levato il nastro, quindi mi sono messo a passeggiare e gli ho spiegato perchè stava succedendo tutta questa storia. Lui si deve essere reso conto che stava per arrivare il suo momento, perchè ha incominciato ad agitarsi, allora gli ho dato qualche botta nella mascella con il calcio della pistola. La moglie era terrorizzata, non capiva che cosa stava succedendo. Lui, intanto, le si era avvicinato appoggiandole la testa sulla pancia. A quel punto gli ho coperto la testa con il copriletto e gli ho sparato. Dopo il primo colpo ho sentito che si lamentava e allora gliene ho tirato un altro perchè ho pensato che stesse soffrendo. Dopodichè ho sparato nel petto alla donna. Ho preso la borsa con dentro la scatolina e me ne sono andato. Alla fine mi sono disfatto di tutto, ma il denaro l’ho tenuto.

E’ credibile questo orrendo racconto? Secondo gli accertamenti investigativi e le risultanze processuali sì. Luca Parenti, nipote della vittima, all’epoca del fatto, aveva 12 anni. Oggi dice: “L’unica cosa che avrebbe dovuto fare Bilancia sarebbe stata quella di dire la verità, se avesse voluto provare a pulirsi un po’ la coscienza. Invece i nomi dei suoi complici non li ha mai fatti. E si è portato nella tomba quei segreti“.

I MIEI RICORDI

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Ho seguito da giornalista l’intera vicenda criminale di Donato Bilancia. Di seguito i frammenti che non dimenticherò mai: lo strazio muto dei parenti delle vittime durante il processo; il pianto collettivo delle donne nigeriane al funerale di Tessy Adodo; l’impegno civile del Pubblico Ministero Enrico Zucca (si occuperà anche dello sciagurato G8 del 2001); lo sgomento dopo gli omicidi sui treni; il volto di Elisabetta Zoppetti giovane mamma strappata alla figlia; il luogo sfigurato dal sangue di Ljudmyla Zuskova appena assassinata sulle alture di Pietra Ligure; le agghiaccianti testimonianze, al processo, di Lorena Castro e Luisa Ciminiello scampate alla ferocia di Bilancia e decisive per la sua cattura; il malessere di un poliziotto dopo il sopralluogo sulla scena del duplice omicidio degli sposini.

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Infine un aneddoto a margine del processo. Notai tra il pubblico, confusa tra i familiari delle vittime, una ragazza intenta a prendere appunti. Non mancava mai alle udienze. Si sedeva in fondo all’aula bunker e trascriveva i passaggi cruciali del drammatico dibattimento. Incuriosito mi avvicinai per chiederle il motivo di quell’interesse. Lei mi spiegò che era una studiosa di criminologia e per questo voleva analizzare il caso Bilancia, capire la storia del serial killer. Aggiunse che era di Finale Ligure. La intervistai perchè ritenevo che fosse una storia interessante. Alla fine le chiesi il nome per inserirlo nel pezzo. “Mi chiamo Roberta Bruzzone“, mi disse. Diventerà, come noto, la più nota criminologa e psicologa forense italiana. 

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Donato Bilancia è stato stroncato dal Covid il 17 dicembre 2020. Aveva 69 anni. Prima di morire si è rivolto al cappellano del carcere di Padova dove stava scontando i 13 ergastoli e ha pronunciato le sue ultime parole:

Andrò all’inferno, ma chiederò a Dio un attimo per chiedere scusa alle vittime.

di Fabio Tiraboschi & Patrice MersaultGenoa News Chronicle / Io, reporter

LA CRICCA DEI VELENI

di Colette Miano – Genoa News Chronicle / Io, reporter

CARICHI MISTERIOSI

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Nelle notti senza luna i fanali dei Tir rischiaravano i tornanti dell’Aspromonte o gli itinerari impervi della profonda Lucania. Le comunità locali – fedeli per cultura e per paura al principio fondativo dell’omertà – “fatti gli affari tuoi e camperai cent’anni” – assistevano silenziose a quel viavai di mezzi pesanti, anomalo e misterioso, che raggiunse il suo culmine tra la fine degli anni ’70 e l’inizio dei ’90.

Dov’erano diretti quei Tir a pieno carico? Perchè viaggiavano di notte in luoghi così remoti e sperduti? E soprattutto, cosa trasportavano?

Quasi tutti sapevano, ma non parlavano…solo sussurri, voci di paese. Per scardinare quell’impenetrabile muro di gomma bisognava confidare in qualche circostanza straordinaria che tempestivamente si presentò al tramonto degli anni ’80. Tre fatti, all’apparenza scollegati, determinarono le condizioni propizie per indagare su quello strano traffico che da tempo rompeva l’isolamento e la tranquillità immota delle montagne meridionali: 1986, il disastro della centrale nucleare di Chernobyl; 1987, il referendum che segnò l’uscita dell’Italia dal nucleare; 1989, la caduta del Muro di Berlino e il conseguente dissolvimento dell’impero socialista sovietico. Le conseguenze potenzialmente delicatissime per la sicurezza degli Stati e una rinnovata coscienza ambientale, civile ed ecologica, costrinsero a monitorare il traffico clandestino di armi e di rifiuti tossici e radioattivi, affari che oltretutto solleticavano gli appetiti delle mafie.

Armi dalle caserme (ormai fuori controllo) dell’Est europeo e smaltimento illegale di veleni altrettanto redditizio e meno rischioso del narcotraffico: su questi due fronti le organizzazioni criminali italiane e balcaniche svilupparono la loro metamorfosi. Nacquero così, alla fine degli anni ’80, le ecomafie.

In un primo esposto di Legambiente, datato 2 marzo 1994, si denunciava l’esistenza, in Aspromonte e in Basilicata, di discariche abusive riempite di materiale tossico e radioattivo, trasportato con navi presso i porti del Sud e successivamente in montagna a bordo di furgoni, camion e tir. Nella denuncia si evidenziava come i territori calabrese e lucano si prestassero particolarmente alla realizzazione dei piani criminali di smaltimento, sia perchè i porti erano scarsamente controllati, sia perchè l’Aspromonte con le sue caverne naturali e la Basilicata con i siroi – cavità del IV secolo a.C. scavate nella roccia – apparivano i luoghi ideali dove occultare i rifiuti velenosi.

NAVI A PERDERE

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Sulla scorta di quell’esposto ambientalista, un pugno di uomini – coordinati da Francesco Neri, magistrato della Procura di Reggio Calabria, e guidati da Natale De Grazia, 39 anni, capitano di fregata della Marina Militare – iniziarono a raccogliere prove sulle pratiche di smaltimento illegale. Osservazioni, confidenze di pentiti, sequestri, perquisizioni, notti insonni e una scoperta che lasciava sgomenti: i veleni non venivano solo interrati, ma anche inabissati in mare con il sistema delle “navi a perdere“, carrette cariche di veleni affondate volontariamente con la complicità di armatori che sarebbe più appropriato definire pirati. Il vantaggio era duplice: i criminali incassavano sia l’indebito risarcimento ottenuto dalle compagnie assicurative, sia le tangenti per l’illecito smaltimento dei rifiuti pericolosi. Truffare ed inquinare rendeva ricchi. Secondo un dossier di Legambiente, trasmesso alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sui rifiuti istituita nel 2009, nel giro di 20 anni, tra il 1979 e il 2000, gli affondamenti dolosi e i naufragi simulati sono stati almeno 88.

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Nel disegno criminoso – oltre a servizi segreti ed apparati di diversi Stati – risultavano coinvolti faccendieri, massonerie e industriali corrotti e spregiudicati che potevano contare su granitiche coperture politiche e sulla manovalanza della ‘ndrangheta.

LA LOBBY DEI VELENI

Durante le indagini sugli “affondamenti pilotati” De Grazia scoprì che solo a Genova, dal 1985 al 1992, 131 navi effettuarono “normali” carichi e scarichi di materiale radioattivo sulle banchine del porto, quindi ben oltre il 1987, anno in cui l’Italia aveva scelto la moratoria sul nucleare. Proprio in Liguria, il tenace pool di investigatori trovò un prezioso alleato nella Procura di Savona che stava indagando sul ritrovamento di 6mila fusti di scorie tossiche in una cava di Borghetto Santo Spirito gestita da personaggi legati alla ‘ndrangheta. La procura di Locri accerterà in seguito che quei veleni stavano per essere inviati in Aspromonte dove sarebbero stati interrati negli anfratti naturali controllati dalle cosche.

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De Grazia e i suoi uomini acquisirono altre importanti informazioni da Carlo Giglio, stimato ingegnere dell’Enea, l’Agenzia Nazionale per l’Energia e per le nuove tecnologie che già nel 1985 aveva pubblicato un opuscolo nel quale si ipotizzava la possibilità di smaltire rifiuti radioattivi nelle profondità marine. L’ingegner Giglio, classificato dagli investigatori come il supertestimone “Billy“, riferì di essere riuscito a scoprire che nel centro Enea di Rotondella, nei pressi di Matera, la registrazione degli scarti nucleari era truccata per alterare il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo. Informazioni che hanno permesso di accertare l’esistenza di un traffico illegale di componenti chimiche e nucleari tra Italia e Paesi del terzo mondo (in particolare Irak, Pakistan e Libia) dove venivano utilizzate per la produzione di armamenti atomici. “In quella centrale dell’Enea – confidarono altri testimoni – tecnici iracheni e pachistani andavano e venivano”.

DE GRAZIA, IL CAPITANO EROICO

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Le indagini sulla lobby dei veleni toccavano nervi scoperti, interessi occulti ed affari miliardari. De Grazia e i suoi uomini si accorsero di essere pedinati, intercettati e filmati. Bersagliati, a più riprese, da condotte intimidatorie. Con il procedere delle indagini il clima attorno al pool si fece più pesante. De Grazia (foto sotto) era certo che tra i suoi collaboratori si annidasse una “talpa“, un informatore che riferiva le mosse delle indagini a personaggi legati ai servizi segreti deviati; é sembrato che forze occulte controllassero passo passo gli investigatori. Evidentemente De Grazia stava pestando piedi importanti.

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Sempre più angosciato confidò questo sospetto ai familiari, senza, tuttavia, allentare la dedizione e l’impegno. E’ stato scritto che De Grazia ha combattuto a mani nude contro i carri armati, ed è vero.

COMERIO, IL RE DEI VELENI

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Nella primavera del 1995, grazie all’apporto della Guardia Forestale di Brescia guidata dal colonnello Rino Martini, gli investigatori puntarono l’attenzione su una misterosa holding denominata O.D.M (Oceanic Disposal Management) che si occupava dell’inabissamento in mare di rifiuti radioattivi. Agli inizi del 1994, ad esempio, la O.D.M. risultava in trattativa con quattro ministri dell’Ucraina, paese che aveva una disperata necessità di smaltire enormi quantitativi di scorie radioattive. Si scoprì che il capo dell’organizzazione, Manfred Convalexius, era in ottimi rapporti con un imprenditore italiano, un certo Giorgio Comerio di Busto Arsizio (foto sotto), titolare della Comerio Industry con sede legale a La Valletta (Malta). Comerio vantava amici influenti; da loro otteneva favori e coperture e appena poteva ricambiava. Le cronache ci ricordano ad esempio che nella sua casa di Montecarlo ospitò per una breve, ma dorata latitanza, l’amico stragista Licio Gelli,  maestro Venerabile della Loggia P2 e anima nera dei misteri italiani.

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Il pool di De Grazia strinse il cerchio sul re dei veleni. La perquisizione effettuata il 12 e 13 maggio 1995 nell’abitazione dell’intraprendente Comerio, a Garlasco, fornì agli investigatori dell’epoca uno spaccato decisamente inquietante: fotografie e prove di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l’autorizzazione a smaltire nel mare africano rifiuti radioattivi; documenti sul progetto Dodos (finanziato dalla CEE e poi abbandonato) che consisteva nel lancio, sui fondali marini di Africa e Nord Europa, di scorie radioattive attraverso speciali penetratori (roba da fantascienza, eppure maledettamente reale); prove di contatti con paesi arabi e indiani; transazioni in dollari su banche svizzere; atti di vendita di telemine; elenchi di navi da caricare e inabissare. Un verminaio di misfatti, le prove tangibili della follia umana. La ciliegina sulla torta nell’agenda personale di Comerio: nella pagina corrispondente al 21 settembre 1987 l’annotazione “lost the ship” (nave perduta), guardacaso proprio la data dell’affondamento, a largo Spartivento in Calabria, della motonave Rigel carica di uranio additivato, un metallo tossico e radioattivo.

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Da un successivo accertamento presso la sede genovese dei Lloyds di Londra emerse che dal 1987 al 1993 ben 23 navi erano colate a picco nel mare blu della Calabria. Tutti affondamenti volontari per riscuotere il premio assicurativo e nel contempo gettare a mare ogni sorta di rifiuti. Molte di quelle navi erano passate o addirittura partite dal molo 7 del Porto della Spezia conosciuto per anni, in tutto il mondo, come “the toxic berth” il molo dei veleni, punto di carico dei rifiuti diretti soprattutto verso la Calabria e l’Africa.

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Illuminante la confessione resa il 14 luglio 1995 da Marino Ganzerla, uno dei soci di Giorgio Comerio:

Circa 10 anni fa venni a conoscenza di progetti di affondamenti di navi cariche di rifiuti chimici, il cosiddetto sistema delle “navi a perdere”, la grande truffa alle assicurazioni. Se ricordo bene il porto più sospetto per i traffici di rifiuti era quello di La Spezia, mentre per gli affondamenti dolosi le coste dello Ionio erano preferite, sia perché erano gestite dalla ’ndrangheta, sia perchè lo Ionio è molto profondo. Aggiungo che i marinai delle navi colate a picco potevano essere recuperati anche da navi amiche che transitavano appositamente vicino al punto di affondamento. Gli stessi marinai venivano poi trasportati in paesi esteri anche perché erano sempre stranieri, anche se a volte il comandante o il direttore di macchina erano italiani o comunque gente fidata degli spedizionieri”.

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Secondo l’ipotesi avanzata all’epoca dalla Procura di Reggio Calabria, l’ingegner Comerio, riusciva, grazie a coperture di altissimo livello, a stringere affari con signori della guerra e trafficanti, tutti interessati ad entrare nel gigantesco business dei rifiuti più nocivi e indesiderati.

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TRASPORTI PERICOLOSI

Una storia sciagurata quella del trasporto di veleni. Per regolamentare questi traffici le autorità internazionali stabilirono nuove regole con la Convenzione di Basilea, firmata dal nostro governo solo nei primi anni ’90. Prima di allora (e con modalità più occulte anche in seguito) buona parte delle scorie industriali italiane e delle forniture di armi venivano esportate – spesso al limite della legalità – verso i paesi africani, latinoamericani e del Medio Oriente. Decine di navi RO RO (dotate di portellone posteriore in grado di caricare direttamente container e mezzi dalla banchina), o nel peggiore dei casi navi simili a bagnarole, solcavano i mari con le stive piene di veleni: plutonio, torio, uranio, cesio, algofrene (gas considerato uno dei principali killer dell’ozono), scorie, armi varie da Guerra Fredda ed altre sostanze chimiche o componenti nucleari vendute chissà a chi o smaltite chissà dove. Le cronache marittime e i rapporti delle Capitanerie degli anni ’70 e ’80 documentano navigazioni simili a odissee. Tra le disavventure più folli quella della nave Zanoobia che dopo un periplo di un anno e mezzo, tra quarantene, divieti di autorità straniere e malori a bordo per le esalazioni, scaricò fusti di scorie chimiche su un molo del porto di Genova. Era il giugno del 1988 e la sorte di quei bidoni colmi di veleni resta ancora oggi ignota. “Come siano stati smaltiti non mi è dato sapere ammetterà nel 2010 il supertestimone Renato Pent, a.d. della Jelly Wax, davanti alla Commissione parlamentare sui rifiuti.

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Oltretutto a bordo della Zanoobia non c’erano ‘solo’ scarti chimici. Da una nota riservata del Sismi, datata 5 dicembre 1989, emerge un retroscena inquietante. Secondo l’informatore Fallaha Abdulsalam “la presenza di scorie radioattive a bordo della motonave siriana Zanoobia era stata originariamente rilevata da un’unità della Marina militare sovietica, che incrociava nel mare antistante i porti di Latakia e Tartous. I sensori impazzirono, scattò l’allarme perché “la radioattività rilevata era stata inizialmente attribuita ad un’offensiva israeliana“. Nel Mediterraneo si rischiò addirittura l’escalation militare. Poi i russi capirono che si trattava del carico della Zanoobia e l’allarme militare cessò.

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Tra i documenti sequestrati a Comerio emersero, inoltre, costanti riferimenti alla società di navigazione Ignazio Messina & C. alla ribalta della cronaca, più volte, per la collezione spaventosa di morti sul lavoro, incidenti navali, naufragi sospetti e condotte marittime disinvolte. Tra i fatti più gravi – facciamo un salto temporale al 7 maggio 2013 – è impossibile dimenticare la sciagurata manovra della motonave Jolly Nero andata a schiantarsi, dopo una retromarcia di quasi 4 miglia, contro la Torre piloti del Porto di Genova (costruita improvvidamente a fil di banchina). Bilancio del crollo: 9 morti, una strage. Ma torniamo alle navi dei veleni. All’epoca delle indagini sull’affaire Comerio, la Messina venne “attenzionata” per il controverso e impressionante naufragio della Rosso (ex Jolly Rosso). Era il 14 dicembre 1990. La nave, adibita al trasporto di rifiuti tossici e merci pericolose, si arenò come un gigante malato sulla spiaggia di Formiciche, nel Comune calabrese di Amantea, dopo aver navigato per alcune ore alla deriva in seguito all’abbandono dell’equipaggio.

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Le diverse inchieste sullo strano incidente e sulle possibili connessioni con i traffici internazionali di armi e rifiuti sono state archiviate all’inizio degli anni 2000, con il completo proscioglimento della compagnia.

ILARIA ALPI

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Dall’esame dei documenti sequestrati a Comerio gli investigatori trovarono riscontri e collegamenti con la Somalia che già da tempo figurava tra i luoghi di destinazione e smaltimento di rifiuti tossici. In una cartellina con l’etichetta “Somalia” gli investigatori scovarono un documento relativo a Ilaria Alpi, la giornalista del TG3 uccisa a Mogadiscio il 20 marzo 1994 insieme al suo cameraman Mira Hrovatin. Secondo il procuratore Francesco Neri si trattava del certificato di morte di Ilaria, secondo altri della notizia Ansa sulla sua uccisione. Chiarire non è stato più possibile. Quel documento è sparito, una “manina” lo ha trafugato dai faldoni dell’inchiesta.

Resta in ogni caso significativo che all’interno di una cartella intitolata “Somalia“, nella quale erano contenuti documenti relativi allo smaltimento di rifiuti tossici e a contatti con esponenti somali, vi fosse un atto riguardante la morte di Ilaria Alpi, in un’epoca in cui nessun potenziale collegamento era stato ancora ipotizzato tra la morte della giornalista e il traffico di rifiuti.

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Già dal 1993 Ilaria Alpi indagava su un apocalittico traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici che avrebbe visto, tra l’altro, il coinvolgimento della Comerio e la complicità di servizi segreti e istituzioni italiane di primo livello. Una gigantesca “connection” i cui segreti più indicibili e occulti erano protetti dalla generica facciata della cooperazione. Armi e rifiuti anzichè cibo e medicine. La giovane inviata aveva accertato che i rifiuti velenosi prodotti nei paesi industrializzati venivano dislocati in diversi siti africani, in cambio di armi e tangenti scambiate con clan politici e bande locali.

Flashback: negli anni ’90 la Somalia è sicuramente uno dei luoghi più pericolosi del mondo. Ilaria Alpi è lì, sulla linea del fronte, impegnata a documentare gli sporchi retroscena di una cruenta guerra civile che ha come principali antagonisti il presidente ad interim Ali Mahdi e il generale Aidid.

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La cronologia scandisce il precipitare degli eventi. Il clima intorno alla giornalista diventa sempre più ostile. Le sue inchieste rigorose, efficaci, oneste e deontologicamente inappuntabili non piacciono, non sono gradite. Ilaria Alpi è una cacciatrice intelligente di verità occulte. Evidentemente le sue domande e i suoi pezzi toccano nervi scoperti e interessi che non devono essere svelati. Il 12 novembre 1993, sempre in Somalia e in circostanze misteriose, viene ucciso il sottufficiale del Sismi Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano. Nei primi mesi del ’94 la giornalista approda a un punto cruciale della sua inchiesta. Segue una pista che la porta a Bosaaso, distretto nel nord della Somalia che sta per essere trasformato (sotto la discreta sorveglianza di uomini dei servizi segreti italiani legati a Gladio) in una discarica di veleni. Qui raccoglie informazioni scottanti sulle dinamiche del malaffare, segue le rotte sospette e i carichi di armi di alcune navi della compagnìa Shifco (il suo chiodo fisso), sente o vede qualcosa di orribile, ma non avrà il tempo di approfondire. Il 20 marzo, tornata a Mogadiscio, Ilaria Alpi viene trucidata assieme al suo operatore Mira Hrovatin. Uccisa su commissione, a colpi di kalashnikov, perchè sapeva troppo.

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Ma non basta. Attorno ai cadaveri dei due reporter si consumano oltraggi e bieche manovre. Durante il rimpatrio delle salme qualcuno apre i sigilli dei loro bagagli e fa sparire alcune cassette delle registrazioni – video e alcuni preziosi taccuini della giornalista. Probabilmente Ilaria Alpi aveva scoperto i risvolti clamorosi (mandanti, organizzatori, ammontare delle tangenti?) di un traffico criminoso di armi e rifiuti (ormai incombente) che non a caso si radicherà progressivamente dopo la sua eliminazione. Una parziale conferma arriva l’11 novembre 1995: Alì Islam Haji Yusuf, membro dell’Autorità per i diritti umani di Bosaaso, segnala che al largo della città di Tohin, due navi sconosciute stavano effettuando un’operazione insolita: mentre una scavava sui fondali marini, l’altra seppelliva in quelle buche dei container dal contenuto misterioso. L’operazione stava creando tensione tra la popolazione locale“. Una denuncia da brividi che rappresenta, di fatto, la chiusura del cerchio.

Riassumendo: Ilaria Alpi e Mira Hrovatin – diventati testimoni ingombranti – cadono nella mortale imboscata il 20 marzo 1994. Pochi mesi dopo, nella regione di Bosaaso, dilagano, alla luce del sole, le operazioni di occultamento dei veleni: davanti alla popolazione allibita, container dal contenuto misterioso vengono scaricati nei fondali marini.

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dal blog “La Torre di Babele” di Pino Scaccia

In un appunto ritrovato dai genitori sul taccuino di Ilaria Alpi c’era scritto “sei navi”. Le navi dei veleni. La giornalista del TG3, prima di essere uccisa, intervistò il sultano del Bosaaso che gestisce quel tratto di costa somala individuato come uno dei dodici siti preferenziali per lo scarico di rifiuti tossici della ditta Comerio. Grandi misteri che s’intrecciano con il traffico di armi che segue spesso le stesse vie.

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LA MORTE DEL CAPITANO DE GRAZIA

Il 12 dicembre 1995 è stato l’ultimo giorno di vita di Natale De Grazia. Nei primi minuti del 13 dicembre, a pochi giorni dal suo 39esimo compleanno, il capitano muore improvvisamente per cause che a molti appariranno quanto meno sospette. De Grazia – recita la traballante ricostruzione ufficiale – era in viaggio con due colleghi. Accanto a sè l’inseparabile valigetta nera con le deleghe d’indagine sulle “navi a perdere”. Terminata la cena in un ristorante, il malore nel sonno, mentre si trovava in auto, e la morte istantanea certificata dal medico di guardia dell’ospedale di Nocera Inferiore. Sulla base dell’autopsia, effettuata dalla dottoressa Simona Del Vecchio, si concluse che Natale De Grazia (giovane, sano e atletico) era morto improvvisamente per insufficienza miocardica. Eppure, coloro che all’epoca videro la salma dell’ufficiale stentarono a credere a quel referto. Francesco Postorino, cognato di De Grazia, ricorda, ancora oggi, un corpo martoriato:

“Quando ho visto il corpo di mio cognato sono rimasto scioccato, era quasi irriconoscibile, aveva il volto gonfio, il naso gonfio come se avesse preso una testata, era tutto pieno di lividi, come se qualcosa gli fosse esploso dentro. Sotto il costato, all’altezza dell’ascella aveva una ferita a forma di triangolo, sembravano bruciature fatte con un ferro incandescente, una cosa strana. Il dubbio che mi viene è che potessero essere dei segnali di tortura”.

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I lividi e i segni sul volto e sul corpo del capitano De Grazia potevano essere compatibili con una morte improvvisa?

 I familiari di Natale De Grazia, per nulla convinti dalle conclusioni dell’autopsia, chiesero ed ottennero la riesumazione del cadavere per un secondo esame che però venne affidato ancora una volta, con una procedura assai discutibile, a Simona Del Vecchio (foto sotto).

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Eventuali tracce di sostanze velenose, mai cercate nella prima autopsia, non furono più trovate nella seconda a causa dei 16 mesi trascorsi e della putrefazione in atto. L’esame, nel confermare la morte improvvisa dell’adulto, seppellì l’inchiesta sul decesso sotto la pietra tombale dell’archiviazione, lasciando tuttavia inalterati i tremendi sospetti. Da allora, sulla morte di Natale De Grazia aleggiano almeno tre cause: quella ufficiale di morte naturale, come sancito nei referti delle due autopsie effettuate dalla dottoressa Simona Del Vecchio; morte per avvelenamento, come supposto nel 2012 dal dottor Giovanni Arcudi per conto della Commissione parlamentare d’inchiesta; morte violenta per pestaggio e tortura, come ipotizzato in alcune inchieste giornalistiche corroborate da testimonianze inedite.

Di seguito il prezioso reportage pubblicato il 12 dicembre 2019 dalla testata Fanpage:



QUELLE AUTOPSIE FANTASMA…

Altri fatti significativi accaduti nel corso degli anni alimentano i dubbi sulla morte del capitano De Grazia. E’ opportuno, a questo punto, soffermare l’attenzione sulla dottoressa Del Vecchio la cui storia è lastricata di “gialli”. Oltre al caso De Grazia c’è il suo nome sui referti delle autopsie che hanno deciso le sorti delle inchieste giudiziarie su alcuni dei casi più scottanti degli anni ’90: dalla morte del colonnello del Sismi Mario Ferraro, trovato impiccato a un portasciugamani nella sua casa a Roma, alla sparatoria in cui rimase colpito a morte l’ispettore dei Nocs Samuele Donatoni, durante un blitz fallito nel corso del sequestro dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini. Ma non è tutto. Nel 2017 la coroner Del Vecchio è finita nel mirino di un’indagine della Procura di Imperia, città nella quale ricopriva l’incarico di responsabile della Medicina legale. Secondo l’accusa Simona Del Vecchio firmava i certificati di morte senza ispezionare i corpi. In altre parole quelle certificate dalla dottoressa erano autopsie fantasma.

DELVVIl 25 febbraio 2020, dopo un processo per falso, truffa e peculato, la II Sezione penale della Corte di Appello di Genova – per effetto del concordato in Appello – ha abbassato la condanna nei confronti di Simona Del Vecchio, da 6 anni e 6 mesi di reclusione, a 2 anni e 11 mesi.

LA FINE DI TUTTO

Certamente, dopo la morte di Natale De Grazia, l’inchiesta sulle navi a perdere e sui traffici di veleni si arenò. Da allora i paesi industrializzati hanno continuato ad utilizzare il Terzo Mondo e i paesi balcanici dell’Est (vedi Bulgaria) come pattumiere, rendendo legale il traffico di rifiuti tossici attraverso accordi bilaterali o, preferibilmente, sfruttando scorciatoie illegali gestite dal crimine o da apparati politici corrotti. Alcune delle indagini che il capitano stava conducendo non proseguirono e si disperse un patrimonio di informazioni e conoscenze che evidentemente faceva paura a molti. Il 5 novembre 2009, il pentito Francesco Fonti, ex affiliato alla ‘ndrangheta, nel corso dell’audizione davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti, riferì che secondo ambienti ‘ndranghetisti il capitano Natale De Grazia era stato ucciso. Aggiunse che i servizi segreti facevano sparire sia i rifiuti, sia le persone che potevano rappresentare un concreto ostacolo alla prosecuzione dei traffici illeciti. L’ipotesi era quindi che il capitano fosse stato eliminato perchè stava scoprendo cose che avrebbero dovuto rimanere segrete.

Dopo la morte del capitano De Grazia fu commesso l’ultimo oltraggio: alcuni atti investigativi riservati sparirono. Diversi plichi furono violati, lo scatolone sigillato che li conteneva risultò danneggiato da un lato. Mani ignote trafugarono documenti da undici cartelle.

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La tragica scomparsa di Natale De Grazia, vero motore dell’inchiesta sui rifiuti, fu seguita dal rapidissimo smembramento del suo pool: il maresciallo dei carabinieri Niccolò Moschitta andò in pensione all’età di 44 anni. L’altro carabiniere Rosario Francaviglia chiese il trasferimento a Catania. E anche l’ispettore superiore del Corpo Forestale dello Stato, Claudio Tassi, non si occupò più dell’indagine: a suo dire non per sua iniziativa. La disgregazione di quella squadra è una lunga ombra sull’intera vicenda. Un altro mistero italiano irrisolto.


di Colette Miano – Genoa News Chronicle / Io, reporter

Fonti:

  • Atti Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo di rifiuti.
  • Maree online: “Rigel: 25 anni di veleni in fondo al mare“.
  • La Torre di Babele | il blog di Pino Scaccia: “Tutte le navi dei veleni“.
  • Fanpage.it: “La morte del capitano De Grazia“.
  • il Fatto Quotidiano: “Autopsie fantasma. Guai per la dottoressa che certificò la morte naturale per il capitano De Grazia” di Andrea Tornago.

 

 

IL KILLER DELLE FIDANZATE

di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io, reporter

La vita è fatta di incontri. Nel corso di un’esistenza si intrecciano rapporti con migliaia di persone. Incontriamo tipi speciali, simpatici, odiosi, originali, interessanti, attraenti, superficiali, stupidi, solidali…Tutti con le loro sfumature e inclinazioni più o meno definite. Con alcune di queste persone stabiliamo rapporti profondi e duraturi. Molte altre ci lasciano indifferenti. E’ un incastro infinito di relazioni, un gioco di ombre, una dimensione metafisica di aperture e chiusure. Ebbene, nel corso della nostra vita, tra queste infinite e variegate tipologie umane, quante probabilità abbiamo di incontrare un assassino? Pochissime, ci dicono le statistiche. Eppure può accadere. La storia che sto per raccontare è tutta imperniata su questa rarissima probabilità. Una vincita alla Lotteria al contrario. Una porta, tra milioni di porte, che si apre sull’abisso del Male. Luciana e Antonella sono due giovani donne nel fiore degli anni. Vivono nella stessa regione, la Liguria, ma non si conoscono. Tuttavia il filo imperscrutabile del destino le legherà per sempre: Luciana e Antonella incontreranno un uomo che diventerà il loro carnefice. Quest’uomo si chiama Luca Delfino, classe 1977, ribattezzato dai cronisti di nera “il killer delle fidanzate”. Ma chi è Luca Delfino? Orfano di madre (la donna si toglie la vita quando lui è piccolo), è una personalità borderline. Egocentrico, astuto, istrionico, camaleontico: lo si poteva incontrare a Genova con il look da bravo ragazzo, capello corto e giubbino di marca, o in versione demoniaca, come replicante di Charles Manson. Bugiardo cronico, manipolatore raffinato, perdigiorno, frequentatore assiduo di locali o presenza fissa tra gli sbandati della stazione Brignole. La sua casa è la strada. Ama bere e stordirsi ed è soggetto a vampe colleriche. Ma il suo lato fragile è anche un formidabile lasciapassare per conquistare la fiducia delle donne.

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Protettivo, gentile, affabile corteggiatore, Luca colleziona storie ottenendo accoglienza, aiuti ed ospitalità. Vive continuamente sulle spalle di amiche (fidanzate infatuate, sinceramente innamorate o compiacenti) e si nutre di espedienti. “Il valore di una persona diceva Einsteinrisiede in ciò che è capace di dare e non in ciò che è capace di prendere“. Delfino sembra solo capace di prendere. Ben presto le sue relazioni subiscono mutazioni repentine: da dolci storie d’amore a convivenze infernali dominate da violenze, minacce e soprusi e scandite da estemporanee e inconsistenti riappacificazioni. La sua relazione con Luciana Biggi rispecchia questo andamento. All’inizio la coppia si isola, la ragazza – su invito di Luca – taglia i ponti con tutti, anche con la gemella Bruna alla quale è legatissima (nella foto sotto Bruna e Luciana in un momento felice).

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E’ l’affermazione di un amore malato connotato da una gelosia patologica. L’idea di Luca dell’amore è aberrante: cannibalesca, schiavistica, connotata da reazioni estreme ed opposte: dalla carezza al pugno, dal bacio allo schiaffo. Per uomini innamorati alla maniera di Delfino, il sentimento verso la compagna si identifica col possesso più brutale: sei mia e io faccio di te quello che voglio. E se l’amata risponde con un gesto di indipendenza, l’amante ritiene, in termini primitivi, che quello sia un affronto inaccettabile da punire con la più crudele delle vendette. Nella notte tra il 27 e il 28 aprile 2006 Luciana Biggi viene trovata agonizzante, con la gola recisa da un coccio di bottiglia, in Vico San Bernardo, nel centro storico di Genova. I soccorsi si rivelano inutili. Gli investigatori della Squadra Mobile, guidati da Claudio Sanfilippo, nel giro di poche ore, risalgono al fidanzato. In questura, nel corso di un lunghissimo interrogatorio, Luca Delfino non cede, non confessa, si dimostra affranto. Eppure contro di lui fioriscono indizi pesanti: testimoni riferiscono di aver visto Luca e Luciana litigare di brutto prima del delitto. Si scopre che Luca, rincasato al mattino, si era fatto lavare dalla matrigna la camicia e le scarpe “perchè erano sporche di vino”. Si scava nel rapporto tra i due fidanzati. Dal passato emergono i risvolti di una convivenza difficile. La sorella della vittima, Bruna, racconta che tempo prima l’appartamento di Luciana rischiò di saltare in aria per la manomissione di una conduttura del gas e aggiunge che i suoi sospetti ricaddero immediatamente su Luca…quel fidanzato della sorella così opprimente e manesco.

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Sembrano elementi più che sufficienti per un’incriminazione. In quelle ore, nella mia veste di giornalista, raggiungo Delfino di fronte allo studio del suo avvocato, il penalista Riccardo Lamonaca. Durante l’intervista assisto alla recita scadente di un guitto. Simula sorpresa per i sospetti che si addensano su di lui, finge costernazione alla notizia che il giorno dopo si sarebbe celebrato il funerale di Luciana: “Ah davvero?… Non so se riuscirò a partecipare…“. A fine intervista sono certo di aver stretto la mano dell’assassino. Eppure Luca Delfino riuscirà a farla franca. Manca la “pistola fumante”, la “prova regina”. A complicare le indagini, la scoperta che la telecamera puntata sul vicolo – teatro della mattanza – era fuori uso. Nessuna immagine, nessun testimone diretto. La richiesta di 25 anni di reclusione per omicidio volontario pluriaggravato e rapina, avanzata dal magistrato Enrico Zucca, si sgretola contro le garanzie dello stato di diritto: il timore di chiudere in galera un “presunto colpevole” prevale sugli indizi raccolti. Delfino è libero, tecnicamente “per insufficienza di prove”. Qualche mese dopo è di nuovo a caccia, impegnato a riavvicinare e sedurre la sua seconda, inconsapevole, vittima: la ragazza si chiama Antonella Multari (foto sotto), creatura solare di Dolceacqua, incantevole borgo dell’entroterra di Imperia.

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Si erano incontrati un anno prima alla macchinetta del caffè di un ospedale e si erano scambiati i numeri di telefono…la vita è fatta di incontri. Lei non abbina Delfino al presunto assassino la cui immagine – eppure – è stata replicata decine di volte sui giornali e in tv. Non conosce nulla del suo passato oscuro e non collega quel ragazzo, all’apparenza così educato, alla morte violenta di una donna, avvenuta qualche mese prima in un caruggio di Genova. L’amicizia sfocia rapidamente in una storia d’amore incardinata sulle stesse arcaiche modalità delle relazioni precedenti: dolcezza, passione, gelosia, violenza. Luca si accasa, cerca di isolare Antonella, la picchia. Durante un litigio lancia una terribile minaccia che la fidanzata subito non coglie: Ti faccio fare la fine di quell’altra!. La famiglia della ragazza si informa, serpeggia la paura, sale l’angoscia. Antonella, sostenuta da mamma Rosa, si rivolge ai Carabinieri, fioccano le segnalazioni e le denunce. Luca Delfino viene cacciato fuori di casa. Si arriva così al 10 agosto 2007. Antonella passeggia a Sanremo in compagnìa di un’amica. E’ la vigilia del suo compleanno. Ci piace pensarla serena, libera, ormai, dall’incubo di quella presenza soffocante. Non sospetta che Luca la sta pedinando armato di coltello (la prima volta un coccio di bottiglia, adesso un coltello…). La raggiunge, e in preda a una furia demoniaca la trafigge con decine di fendenti in mezzo alla strada.

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La ragazza muore dissanguata, nel fiore degli anni…Il killer viene bloccato dalla Polizia: è a pochi metri ricoperto di sangue (foto sotto). A Genova, dalla questura, il capo della Squadra Mobile Claudio Sanfilippo, da sempre convinto della colpevolezza e della pericolosità sociale di Delfino, non riesce a trattenere la rabbia: “Questo secondo omicidio si poteva evitare…non lo avessero lasciato libero“. I rapporti tra Polizia e Magistratura, già compromessi dalle vicende del G8, si incrinano ulteriormente. L’opinione pubblica è sgomenta, l’Italia inizia a familiarizzare con un termine nuovo e terrificante: femminicidio. Sull’onda del caso, nell’aprile del 2009, viene varata la Legge a tutela delle vittime di stalking.

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Il processo che segue è un tormento. Nel corso di una drammatica udienza Delfino, nella veste di provocatore, si dipinge vittima. La madre di Antonella, seduta a pochi metri, è colta da malore. Ma non è tutto. La ragazza viene uccisa una seconda volta quando la Corte pronuncia la sentenza: 16 anni e 8 mesi. Si prova sgomento, rabbia, incredulità. Il killer delle fidanzate potrebbe uscire da un momento all’altro, usufruire di permessi, tornare libero. Libero di uccidere ancora…

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Nel link sottostante la puntata de “IL TERZO INDIZIO” dedicata al caso Delfino, con la mia corrispondenza da Genova sul delitto di Luciana Biggi:


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https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/ilterzoindizio/prima-puntata_F311203801000101


di Fabio Tiraboschi – Genoa News Chronicle / Io, reporter

LA LEZIONE DELLA PESTE

di Rudy Carpegiani e Sveva Siniscalchi – Genoa News Chronicle / Io, reporter

Oh tragedia funestissima sopra quante da’ furori dell’ira divina ne sia state celebrate al mondo! Vedrai qui il ritratto dell’inferno stesso, ne saprai immaginarti, che l’inferno abbia horrori simili

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Arnold Bocklin – Die Pest (1898)

“Inesorabile, allucinante, mostruosa, la peste ha crocifisso l’umanità per millenni, su di un incomprensibile Golgota. Flagello per eccellenza, la peste esprime quel potere che le aveva riconosciuto l’Apocalisse, di sterminare un quarto della Terra. Nessun altra malattia, nessuna catastrofe ha altrettanto profondamente segnato l’umanità quanto la peste. Con i suoi milioni di morti, con le conseguenze di un simile salasso, con gli sconvolgimenti provocati, la peste ha modellato il mondo”

Il trionfo della morte

Con queste parole Henry Mollaret, il massimo esperto di peste scomparso nel 2008, descrive la natura sinistra del morbo che per secoli ha terrorizzato il genere umano uccidendo più che tutte le guerre messe insieme.

Maledizione ancestrale, castigo assoluto, prima contaminazione letale tra uomo e animale. Infinitamente più letale della febbre spagnola di ieri e del coronavirus del nostro tempo.

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Sin dall’antichità la peste, boia dell’umanità, colpisce a ondate raggiungendo la sua massima potenza sterminatrice nel Medioevo. Emblematico il caso di Genova che dopo il Mille viene assalita dalla peste ben nove volte: negli anni 1348, 1383, 1481, 1493, 1528 e ancora più tardi nei maledetti bienni 1579-80 e 1656-57 quando un’epidemia particolarmente aggressiva, finisce per spopolare la Superba rendendola simile a una città di spettri e di pazzi.

E’ vero, la peste ha modellato il mondo e lo ha fortificato: ha cancellato generazioni di uomini, bloccato le economie, interrotto le guerre, fermato le nascite; ha svelato eroismi e miserie umane. Ha prodotto perfino ricchezze inaspettate: pensiamo alle eredità piovute sui fortunati sopravvissuti o sui risanati (quei pochi guariti diventati immuni), la categoria più invidiata della terra.

Ma quando si interrompe la peste? In che modo viene dominata? Per comprendere il morbo occorre partire da una data. Nel 1727 la circolazione della peste bubbonica in Europa si blocca grazie ad una guerra insolita e atroce, combattuta non da uomini armati, ma da orde scatenate di topi.

L’INFERNALE BATTAGLIA DI ASTRAKAN E LA FINE DELLA PESTE

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Breve premessa: oggi sappiamo che a generare la peste è un batterio, il Pasteurella pestis, che viene trasmesso dalle pulci annidate nella pelliccia dei ratti neri. I roditori sono dunque i primi ad essere infettati, ma sono le pulci a trasferire il bacillo nel sangue dell’uomo dove prolifica rapidamente e attacca le ghiandole linfatiche, provocando i caratteristici bubboni.

In un periodo lunghissimo, compreso tra la peste di Giustiniano del 542-544 e il 1727, l’agile ratto nero, dal muso appuntito, dalle ampie orecchie e dalla lunga coda, domina, senza rivali, l’Europa. Si è moltiplicato e ha diffuso il morbo. Il suo sangue è stato serbatoio e terreno di coltura dell’infezione e si può affermare che la storia della peste è la storia del topo nero.

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Ma attenzione, allo scadere del Seicento il predominio del topo nero giunge al tramonto. In Asia, a partire dalla fine del secolo, si impone, infatti, un altro tipo di roditore, il “rattus norvegicus” o ratto delle chiaviche, una pantegana di colore grigio scuro, dal muso tozzo e dalle orecchie minute. Con i suoi 400-500 grammi è grosso il doppio rispetto al ratto nero ed è in grado di combattere alla pari anche contro i gatti più audaci; sempre alla ricerca di spazio vitale è un implacabile conquistatore. Nelle steppe si riproduce ad una velocità spaventosa e colonizza l’immensa regione compresa fra il Tibet e la Mongolia.


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La sua avanzata verso ovest è inarrestabile. I testimoni del tempo descrivono una migrazione di proporzioni eccezionali: milioni di massicci topi grigi norvegesi premono ai confini orientali dell’Europa. Nell’estate del 1727 l’immondo esercito passa a nord del Mar Caspio, raggiunge il fiume Volga e lo valica nei pressi di Astrakan, subendo però enormi perdite. Migliaia di pantegane trascinate dalla corrente, annegano, ma la stragrande maggioranza, forte e resistente, riesce a nuotare fino all’argine opposto. E’ un’offensiva davvero drammatica e ostinata: oltrepassato il Volga, i topi grigi invadono l’Ucraina e attraversano vaste distese di ghiaccio.

Di fronte a me– annota un cronista russo dell’epoca, Alexis Turgai, – apparve all’improvviso un immenso campo in movimento, un campo di cadaveri di topi, che la corrente portava verso sud…”. Un altro studioso, Robert Delors, riferisce:

Nel 1727 le popolazioni residenti presso Astrakan, alla foce del Volga, vedono, sotto i loro occhi terrorizzati, milioni di ratti grigi, provenienti dall’Asia Centrale, attraversare a ondate successive il fiume Volga; il loro pellame ricopre le acque di un immenso mantello grigio, ondeggiante al ritmo dei flutti.

L’approdo in Europa della moltitudine di topi grigi norvegesi è l’ultimo atto prima dello scontro. I ratti neri, da secoli padroni del continente, si trovano improvvisamente a dover fronteggiare orde di grandi pantegane. La battaglia è tremenda, la più lunga e feroce che la storia ricordi.

I ratti neri e i ratti grigi sono divisi, peraltro, da profonde differenze comportamentali. Il ratto nero, particolarmente invasivo, familiare e domestico, vive da secoli a stretto contatto con l’uomo. Una condizione di naturale promiscuità che favorisce, inevitabilmente, la rapida trasmissione della peste. Il ratto grigio, al contrario, essendo più solitario, diffidente e fognaiolo, non trasmette il male. Proprio la sua innata predisposizione all’isolamento e la sua connaturata ritrosia lo renderanno l’inconsapevole alleato dell’umanità.

L’esito del conflitto epocale tra topi così diversi è segnato.

Sul fronte europeo si attestano i due schieramenti mossi da strategie opposte: i ratti grigi all’attacco per la conquista del territorio, i ratti neri schierati a difesa del loro habitat. Sul campo di battaglia, simile a una bolgia, si consumano micidiali duelli. I due “eserciti” rivali ingaggiano lotte sanguinose, senza esclusione di colpi. I topi più aggressivi mordono l’avversario alla carotide, facendolo morire, quasi sempre, per emorragia interna.


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Alla fine le grigie pantegane norvegesi non solo sconfiggono i ratti neri, ma con manovre avvolgenti li annientano. L’avanzata dei vincitori è poderosa: nel 1740 i topi grigi dilagano in Russia. Annidati nelle stive delle navi sbarcano persino in Inghilterra. Nel 1753 entrano a Parigi. Nel 1803 colonizzano la Svizzera. In Italia, secondo il naturalista francese Georges Louis Buffon, i topi grigi approdano sul finire del Settecento attraverso i valichi della Savoia. Nel volgere di pochi anni conquistano tutta la penisola. All’inizio dell’Ottocento, in Europa, non si trova quasi più un solo ratto nero. I topi grigi norvegesi, nuovi padroni del continente, si insediano nelle fogne (ampliate e rinnovate dovunque, proprio in quegli anni, in un clima di fervore edilizio) e praticamente allontanano dall’uomo l’insidia della peste. Per questa ragione, la battaglia di Astrakan dovrebbe essere annoverata tra le più importanti della Storia. Le statistiche ci dicono che da quel fatidico 1727 non si sono più propagate grandi epidemie in Europa, almeno nelle aree invase dai ratti grigi. Le ultime residue pestilenze, infatti, colpiranno Malmoe in Svezia nel 1712, l’Austria nel 1713 e Marsiglia nel 1720.

La peste arretra e scompare dall’Europa perchè con la battaglia di Astrakan sono scomparsi i ratti neri che erano i primi portatori della peste. Il fatale anello della catena ratto nero + bacillo di Yersin + pulce|pidocchio + uomo = peste si è finalmente spezzato.

LA VITTORIA DELLA MEDICINA

La cruenta selezione naturale tra topi non è stata l’unica arma contro la peste. La scienza medica, impotente di fronte al morbo, solo alla fine dell’Ottocento esce dalla sua lunghissima cecità alimentata da miti dottrinali a da un rigido empirismo. Dopo secoli di stallo e di ipotesi anche curiose, la medicina e la ricerca riescono a violare il segreto che aveva angosciato l’umanità dall’apparire della peste. Nel 1894 il batteriologo svizzero-francese Alessandro Yersin (quasi contemporaneamente al suo collega giapponese Shibasaburo Kitasato) scopre il bacillo, chiamato in suo onore Yersinia Pestis, causa prima della terribile malattia.

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Nel 1896 alcuni scienziati francesi e inglesi intuiscono che le portatrici della peste, in grado di pungere sia il ratto che l’uomo, sono le cosiddette “pulci libere“, sensibilissime alle variazioni di temperatura. Malgrado queste scoperte sull’origine della peste, bisognerà attendere ancora molti anni per la messa a punto di terapie efficaci. Nel 1935 si individuano nei sulfamidici i primi farmaci capaci di limitare la mortalità (molti focolai erano ancora attivi al di fuori dell’Europa). Nel 1944, finalmente, con la scoperta di un potente antibiotico, la streptomicina, si trova il rimedio eroico e più efficace contro il morbo. Si precisano così gli aspetti clinici dell’infezione.

Sebbene le stragi del passato siano un lontano ricordo, focolai di peste sono ancora presenti nel nostro pianeta. Basti pensare che tra il 2010 e il 2015 hanno ucciso circa 600 persone su 3500 contagiati, principalmente in Madagascar, Namibia, Libia e India dove la peste persiste in “riserve” di roditori infetti (fonte: http://www.repubblica.it).

I TREMENDI TRE VOLTI DELLA PESTE

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La scienza medica moderna ha individuato tre forme diverse di peste: la bubbonica, la setticemica e la polmonare. Le descrizioni che seguono contengono particolari raccapriccianti, ma rappresentano la chiave per comprendere la sofferenza e il terrore che il flagello ha seminato tra gli uomini nel corso dei secoli. Ecco perché i lazzaretti, i tristi ricoveri degli appestati, vengono solitamente accostati alle immagini più consolidate dell’Inferno.

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La peste bubbonica è la più comune, la più nota. Il bubbone è il suo marchio caratteristico. Si tratta di una tumefazione di grandezza variabile (il volume massimo può raggiungere le dimensioni di un mandarino) che si annida nell’inguine, nel collo, nelle ascelle. Ogni bubbone è dolorosissimo. Quando si apre rilascia un pus di odore nauseante. La forma bubbonica – così tormentosa – è tuttavia la meno letale.

UN MEDICO INCIDE IL BUBBONE DI UN’APPESTATA

Nel Medioevo fino a tutto il Seicento, si incidono i bubboni, si praticano i salassi e si applicano impiastri vegetali.

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Affresco anonimo, fine XV secolo – Cappella di S. Sébastien, Lanslevillard (Francia)

La peste setticemica è classificata come la forma più fulminante e tossica. Nessun bubbone, ma agitazione e delirio. La prognosi era infausta: si moriva in 24-48 ore.

Il bacillo della peste polmonare penetra attraverso le vie respiratorie. Il paziente, colpito da tosse, emette un espettorato di colore rosa o rosso vivo, ma non accusa dolori gravi. Eppure è questa la forma più micidiale e subdola. La peste polmonare portava alla morte nel 97% dei casi.

Le varie forme di peste sono spesso accompagnate da carboni (pustole piene di siero) e complicazioni nervose che portano a manifestazioni deliranti e maniacali. I malati colpiti alla psiche, i cosiddetti frenetici, venivano spesso legati ai loro letti per evitare suicidi, omicidi e atti di autolesionismo.

LA MORTE NERA DEL 1348

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A metà del Trecento, dopo un periodo di relativo benessere, la vita delle popolazioni di tutta Europa viene sconvolta da una catastrofe epidemica di proporzioni inaudite, che avrà profonde ricadute, non solo a livello demografico, economico e sociale, ma anche sul pensiero, l’arte e la letteratura, e naturalmente sul sapere e sulla pratica medica. Nel XIV secolo la peste è una malattia relativamente nuova e misteriosa, ma poichè si è persa memoria delle ultime epidemie risalenti alla tarda Antichità, l’effetto che provoca è enormemente impressionante per coloro che vi assistono.


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Negli ultimi secoli dell’Impero Romano scoppiano diverse epidemie: dal flagello sotto l’impero di Marco Aurelio (161-180 d.C.) alla famigerata “febbre antonina“, di cui è testimone il famoso medico Galeno. La peste non è certamente l’unica malattia letale. A partire dal VI secolo divampano periodici attacchi di lebbra, vaiolo, malaria e di un’altra malattia particolarmente sconvolgente per i suoi effetti allucinogeni: l’ergotismo, trasmesso attraverso un fungo presente nella segale, cereale largamente utilizzato nella preparazione del pane. E’ sempre la peste, tuttavia, a scatenare le paure più ancestrali e profonde. Nell’alto Medioevo, nel 542, una grave epidemia colpisce duramente Costantinopoli (l’attuale Istanbul), da cui il nome “peste di Giustiniano“. In seguito, dopo circa mille anni di latenza, il castigo torna ad infierire negli anni ’40 del Trecento. Più spietato che mai.

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Nel 1333 il morbo ricompare nel cuore dell’Asia per poi diffondersi in larga parte dell’Oriente attraverso le rotte commerciali e i movimenti degli eserciti. Secondo un cospicuo numero di fonti si propaga, soprattutto, attraverso l’esercito mongolo che nel 1347 irrompe in Crimea per depredare la colonia genovese di Caffa. L’attacco fallisce, ma la peste si diffonde comunque tra gli assediati, anche perchè i guerrieri Mongoli, con una strategia di bio-terrorismo militare, contaminano i genovesi catapultando decine di cadaveri infetti al di là delle mura. | VIDEO |



Attraverso le navi della Superba il contagio segue le rotte del commercio marittimo. In questo senso, la peste del Trecento è anche una malattia “del benessere”, connessa – come accade quasi sempre per le malattie infettive – allo spostamento massiccio di popolazioni e di merci e a fenomeni come l’urbanizzazione, normalmente considerati uno specchio del miglioramento delle condizioni di vita. La peste, dunque, arriva in Sicilia, a Messina, attraverso navi genovesi provenienti proprio da Caffa, la roccaforte sul Mar Nero contaminata dalle forze mongole. Navi cariche di grano, ma anche di topi, pulci, pidocchi e ciurme in agonia.

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Il morbo avvelena i porti italiani, in particolare, oltre alla Sicilia, Genova e Venezia e in seguito lo scalo di Marsiglia. Risalendo via mare e via terra verso Nord, la peste giunge in Inghilterra, attraversa la Germania e si propaga fino al Baltico, estendendo la sua venefica malombra in Russia. Inizialmente limitata alle città di mare, il morbo si dimostra feroce anche nell’entroterra, come nei casi di Firenze e Siena. In Francia e in Renania l’epidemia risale i fiumi. Di fronte al contagio, le autorità civili si sforzano di prendere misure adeguate, ma tutte risultano sostanzialmente inefficaci. Venezia, con la nomina di tre tutori della salute pubblica, è la prima ad emanare provvedimenti per arginare la diffusione del male, ma solo nel 1377, nella città di Ragusa, l’attuale Dubrovnik, si procederà alla prima organizzazione di una reale quarantena.

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Ad accelerare la diffusione della peste nera le scarsissime condizioni igieniche dell’epoca: pulci e pidocchi infestano gli esseri umani. Le interazioni sociali  e i “salti” incessanti di pulci e pidocchi tra i topi infetti e l’uomo sono i principali motori della pandemia.

Sul fronte terapeutico i rimedi sono scarsi. Consistono nella flebotomia e nei cauteri applicati ai bubboni. Sul piano collettivo, invece, si tentano, (soprattutto a Venezia) forme di isolamento dei malati e delle merci provenienti da zone sospette.

In varie città si adottano misure di pulizia volte alla purificazione delle “arie” corrotte, l’unico intervento che presenta una minima possibilità di successo. Ne parleremo diffusamente più avanti, nella trattazione della grande peste di Genova del 1656-57.

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Solo quella prima ondata di contagi pestiferi cancella un terzo della popolazione europea e paralizza le attività produttive. Il bilancio finale della strage provocata dalla grande peste di metà Trecento si attesta verosimilmente tra i 25 e i 30 milioni di morti. Per offrire un raffronto statistico, basti pensare che le vittime della Prima Guerra Mondiale, uno dei conflitti più sanguinosi della storia umana, si stimano in 16 milioni di caduti e più di 20 milioni tra feriti e mutilati.


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Il crollo demografico che segue la Peste del 1348 sarà colmato solo un secolo più tardi. I dati della sciagura sono impressionanti:

In 100 anni l’Europa passa dai 73 milioni di abitanti del 1300, ai 45 milioni del 1400. Nello stesso periodo l’Italia crolla da 11 a 8 milioni di abitanti!

L’Europa sarà sconvolta da altre incursioni della pandemia. Dopo quella devastante del 1348-51, la peste tornerà a colpire con cadenza decennale fino al 1400. Per il genere umano la peste non sarà più spaventosa sorpresa, ma dolorosa ricorrenza.

CHI  POTEVA, FUGGIVA

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Nella rete del morbo cadono persone di ogni estrazione sociale e di ogni età e generalmente non è possibile trovare scampo: i sistemi sanitari e di pubblica igiene non sono in grado di arrestare il contagio ed evitare la morte. Fuggire al primo manifestarsi dell’epidemia e non tornare indietro è la forma più ricorrente di prevenzione. I medici del tempo suggeriscono le sole tre azioni efficaci contro la peste: “cito, longe, tarde“, fuggire subito, andare il più lontano possibile e tornare il più tardi che si può…Chi può, quindi, fugge; terrore, spavento e diffuso senso di morte mettono a dura prova il tessuto sociale. I malati vengono abbandonati a loro stessi.

Tra le più alte e celebri descrizioni delle ricadute sociali della peste, alcuni passi della cornice introduttiva del Decameron, il capolavoro di Giovanni Boccaccio:

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Uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi ed i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio, a punire l’iniquità degli uomini, con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della loro città si trovassero, commossa intendesse…E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse, e quasi niun vicino avesse dell’altro cura, ed i parenti insieme rade volte non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, ed il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volta la donna il suo marito, e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri e’ figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.

Il terrore provocato dal morbo porta spesso alla ricerca di capri espiatori, ritenuti dalla collettività i responsabili del contagio. Si scatenano, così, le persecuzioni e i linciaggi contro fantomatici avvelenatori (gli untori di manzoniana memoria) individuati negli elementi più deboli della società. Durante le pestilenze si rafforzano pregiudizi e discriminazioni. Nelle società medievali i “diversi” – malati, donne erboriste sospettate di stregoneria, eretici, disabili, ebrei, attori, prostitute, girovaghi, folli – sprofondano spesso nell’emarginazione fomentata dalla pubblica condanna. Non di rado il malato o il deforme sono considerati i bersagli di una meritata punizione divina per i peccati commessi. Le comunità li ritengono individui segnati da Dio e quindi esseri impuri da biasimare ed evitare.

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Nonostante l’emergere di questo lato oscuro, nella maggior parte dei casi documentati, la “vita civile” prosegue ostinatamente. I fenomeni di allentamento e disgregazione dei vincoli familiari, denunciati nel corso del Trecento da numerosi testimoni (tra cui Boccaccio), sono episodici e di breve durata. Di fronte al male il tessuto sociale e civile mostra, generalmente, una sufficiente coesione. In effetti l’Europa, seppur tra enormi difficoltà, riesce a riscattarsi rapidamente dalla tragica crisi e dal caos del 1348, ricomponendo un nuovo ordine che darà vita alla Rinascita dei 150 anni successivi.

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La peste rappresenta per ogni società una durissima prova. Le fonti cristallizzano scenari spaventosi. Lo spettacolo offerto dalle città appestate è straziante. Distese di cadaveri insepolti, disordine, fetore, sporcizia. Le lacrime, lo sgomento e l’afflizione si mischiano alla cupa rassegnazione, all’indifferenza; gli appestati, ormai prossimi alla morte, urlano i loro peccati o supplicano una benedizione, mentre i risanati e i beccamorti festeggiano la guarigione o sfidano la sorte con balli, canti, orge e banchetti.

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Werner Herzog, nel film “Nosferatu, il principe della notte”, realizzato nel 1979, restituisce il clima e le atmosfere della peste. In una scena diventata iconica, la protagonista Lucy Harker – interpretata da una lunare Isabelle Adjani – si aggira attonita nella piazza di Wismar, città sul Mar Baltico sconvolta dalla pestilenza. Nelle strade la presenza della morte si intreccia con l’anelito disperato di un palpito dionisiaco. Attorno alle bare si consumano le danze macabre dei superstiti. Edonismo e dolore compongono un quadro maestoso e grottesco. | VIDEO |



NEL SEICENTO LA PESTE TORNA A COLPIRE

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Siamo nel cuore del Seicento, secolo di contraddizioni, restaurazioni autoritarie, nuove teorie politiche e invenzioni. Galileo Galilei ha lasciato il segno: sulla scia del suo metodo inizia a diffondersi una nuova cultura basata sulla ragione come unico strumento di conoscenza. Nasce il moderno metodo scientifico. L’Europa è scossa dalla Guerra dei Trent’anni, ultima spietata espressione delle guerre di religione. Il baricentro dello sviluppo economico si sposta nel nord Europa grazie all’ascesa di Olanda e Inghilterra. L’Olanda, in particolare, incardina la sua formidabile crescita su due fronti: in Europa diventa il faro della tolleranza religiosa e della libertà di pensiero, mentre nel mondo rafforza i suoi possedimenti coloniali. Di segno opposto il cammino della presuntuosa Spagna, avviata verso un irreversibile declino per non aver saputo trarre vantaggio dall’afflusso dell’oro americano; una crisi lacerante, i cui contraccolpi si avvertono soprattutto in Italia dove la Corona Spagnola malgoverna tra corruzione, inefficienze, oppressione fiscale e ripristino del sistema feudale. Ad aggravare il quadro italico, il ritorno della peste.

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Tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Seicento, due epidemie di peste devastano il ducato di Milano: la prima epidemia, nota come “peste di San Carlo“, imperversa nell’estate del 1576, nonostante le rigorose misure precauzionali prese dalle autorità. Ben più grave la seconda ondata che nel 1630 provoca un numero di vittime enorme, suscitando profondo sgomento tra i contemporanei e ispirando alcune tra le più significative pagine dei Promessi Sposi di Manzoni. Ancora più spaventosa la strage che nel 1655 si compie nel Regno di Napoli dove il veleno batterico uccide 400mila persone. Un lugubre annuncio dell’epidemia che spopolerà Genova l’anno dopo.

GENOVA AL TEMPO DELLA GRANDE PESTE  DEL  1656-1657

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Quando la peste abbatte la sua scure, Genova è ancora una potenza marittima che sta affrontando con determinazione una congiuntura sfavorevole. Nel corso del Cinquecento la città vive il suo periodo d’oro e si guadagna i gradi di principale finanziatore della Spagna. Le banche genovesi si arricchiscono prestando soldi alla Monarchia spagnola in cambio dei metalli preziosi provenienti dalle miniere delle colonie mesoamericane, ricchezze che rendono l’aristocratica Genova uno dei centri finanziari, commerciali ed artistici più importanti del mondo. Tuttavia, lo stretto legame con la Spagna è anche la causa della lenta decadenza della città. Quando all’inizio del Seicento l’economia spagnola entra in crisi ed è costretta a dichiarare bancarrotta per l’impossibilità di restituire i propri debiti, l’intero sistema finanziario genovese subisce un contraccolpo. Ulteriormente indebolita dalla concorrenza olandese, sia nel settore bancario, sia nei commerci, Genova affronta le prime avvisaglie del declino intensificando gli scambi commerciali con i porti spagnoli delle Fiandre e del Mediterraneo.

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Genova nel 1650 ca.

Il governo genovese, pur fedele all’amicizia spagnola, non è un esecutore timoroso, nè un alleato succube. Questa fiera intraprendenza alimenta il malcelato rancore della Spagna che accusa i genovesi di arricchirsi alle sue spalle; non a caso, quando l’epidemia investirà Genova, l’amministrazione spagnola negherà ogni aiuto.

Genova, forte della sua indipendenza economica e politica, affronta la peste da sola. Grazie agli scudi e alle lire depositate nei forzieri del Banco di San Giorgio e nelle casseforti delle ricchissime famiglie genovesi, la città può salvarsi dal collasso definitivo. Per Genova è un’esperienza estrema. Più di una guerra, più di una catastrofe naturale. Senza dubbio, la peste di metà Seicento rappresenta per la Superba il momento più tetro della sua storia millenaria.

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Dunque, nella prima metà del XVII secolo, Genova è una città ancora potente popolata da 80mila abitanti e attraversa una fase di grande fervore edilizio e sviluppo urbanistico. Tra il 1630 e il 1632 ottomila operai si prodigano nella realizzazione della nuova cinta muraria: dieci miglia di fortificazioni per un investimento di oltre 10 milioni di lire; in città si costruiscono nuove strade per adeguare le comunicazioni alla circolazione crescente delle carrozze e si procede speditamente all’ampliamento del porto. Nel 1656, anno della peste, il solo traffico di cereali aumenta del 30% rispetto al 1652. Ma quando l’epidemia esplode i cantieri diventano recipienti mortuari: tra le grandi opere pubbliche in corso di costruzione, l’Albergo dei Poveri viene utilizzato come gigantesca fossa comune per supplire all’esaurimento di posti nei cimiteri. Durante il picco dell’epidemia le fondamenta dell’edificio accolgono il numero impressionante di 9mila salme.

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Maria Francesca Raggi è una suora e in quei tristi giorni, come tanti altri testimoni della peste, scrive quello che vede. Il 25 giugno 1657, in una lettera al padre, rappresenta alcuni scorci della città appestata. Sono righe toccanti, di straordinaria potenza descrittiva:

E’ miracolo che io possa ancora scrivere essendo morte tutte quelle persone. Quali poi siano le miserie della povera città di Genova è impossibile il ridirlo, il numero dei morti non si può contare, restano i cadaveri dappertutto insepolti per le strade, non trovandosi chi li possa dare sepoltura. Non ci sono più medici, nè  chirurghi, non speziali, non beccamorti, non sacerdoti. Nelle strade pubbliche si trovano monti di cadaveri, anche pascolo degli stessi porci, muoiono le case intere in un giorno due al più, con tanta miseria che ognuno ha per felicità l’essere il primo per non vedere quell’orrore di restare in compagnia di tanti morti senza haver che li sovenga. Tutto va in ruina, con horrore sì grande.

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Lettere come questa rappresentano la memoria della peste. Oggi è possibile ripercorrere con straordinaria precisione l’evolversi, quasi giornaliero, dell’epidemia grazie al corpus consistente di fonti. Epistolari, documenti, cronache, annali, atti ufficiali e ricerche storiche sono le formidabili lenti di ingrandimento per “vedere” la Genova del tempo.

CRONACHE  DI  UNA  PESTILENZA

Felicemente ri­sparmiata dalla peste manzoniana del 1630, la Repubblica di Genova, nel biennio 1656-57, viene colpita e decimata dalla “coda” letale della stessa epidemia. All’inizio del 1656 la peste aggredisce la Sardegna e in rapida successione Napoli e Roma. A Genova, nella tarda primavera, scatta un primo allarme. I frequenti rapporti commerciali con le aree colpite rendono la città particolarmente vulnerabile. L’esperienza aveva insegnato che il contatto con persone o merci infette era pericolosissimo; per questo il governo della repubblica genovese decide di proibire i collegamenti con le “zone-focolaio”.

∼ I PRIMI CONTAGI ∼

Purtroppo, malgrado la severa vigilanza, qualche piccola imbarcazione di contrabbandieri, proveniente dalla Sardegna, riesce ad approdare clandestinamente sul litorale genovese e a scaricare “robbe infette“, merci e lane di riciclaggio infestate dalle pulci, terribili vettori del male allora sconosciuti. Contemporaneamente, alcuni profughi in fuga dall’appestata Napoli, riparano a Genova ormai contaminati. Il morbo si insinua, così, all’ombra della Lanterna. Nel quartiere di Sturla, a fine giugno, vengono scoperti i segni inequivocabili della peste nei cadaveri consunti e nerastri di una donna e del chirurgo che l’aveva curata. Nel volgere di qualche ora il morbo colpisce in rapida successione un camallo del porto, alcune famiglie e il commissario del Lazzaretto Foce, un certo Armirotto; l’uomo, padre di sedici figli, viene accusato pubblicamente di diffondere il contagio perchè si ostina a fare la spola tra il lazzaretto e la sua casa. L’epidemia di peste dilaga in un crescendo pauroso e penetra in tutti i quartieri. Nel giro di una settimana dieci, venti, trenta morti. Le prime voci delle disgrazie passano di casa in casa, alimentando panico e diffidenza. Ad aggravare la situazione, l’incertezza dei medici, che per non allarmare la popolazione o per non pregiudicare interessi economici, tardano a dichiarare la città infetta. Il timore di una rovina generale per le enormi perdite che, in caso di prescrizioni, avrebbero minacciato alberghi, locande, industrie e commerci, si mostra più potente dell’amore per la verità e della tutela della salute pubblica. Così le autorità, per un periodo maledettamente prolungato, si adagiano, ostinate, nella politica del silenzio e della smentita. Filippo Casoni, annalista della Repubblica, scrive:

“I pochi medici, che più amanti della verità che dell’applauso, assicuravano che il morbo contagioso andava prendendo piede, venivano derisi o sgridati e da molti indiscreti chiamati nemici della patria e desiderosi della pubblica rovina”


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∼ PADRE ANTERO, L’EROE DELLA PESTE ∼

In quella Genova dolente emerge, eroica e sovrumana, la figura di Padre Antero Micone, un frate Agostiniano Scalzo di 36 anni che si dedicherà anima e corpo agli appestati. Sa che entrare in un lazzaretto “è come entrare in una tana di bestie feroci; se uno non è divorato dalla bestia è almeno lacerato“. Padre Antero è ritenuto il testimone più informato e attendibile. E’ impegnato, ogni giorno, sulla linea del fronte dei lazzaretti e prova sulle sue carni la via crucis dell’appestato: le febbri, i vomiti, le dissenterie, il tormento dei bubboni, il marciume delle piaghe. Colpito dalla peste, riesce a guarire, e ad immolarsi – da risanato – nell’incessante opera di assistenza ai malati. Precipita all’inferno per poi uscirne. Con i suoi occhi assiste, ogni giorno, a scenari di morte. Quando più di ventimila cadaveri insepolti affollano i lazzaretti e le strade, deve adeguarsi all’ordine delle autorità più estremo ed intollerabile per il sentimento cristiano dell’epoca: fare cataste di salme, irrorarle di pece e catrame e appiccare il fuoco. Nel luglio del 1656, assieme alla popolazione attonita, affronta persino un’alluvione, che nel pieno dell’epidemia, violenta Genova.

Padre Antero ha lasciato una documentazione straordinaria per la sua completezza e può essere considerato, a pieno titolo, il più autorevole “cronista storico” della pestilenza.

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Forse, proprio in seguito al citato nubifragio e ad un inaspettato peggioramento del clima, a partire dal 18 luglio 1656 l’epidemia comincia a declinare. Le anomale forti piogge estive potrebbero aver determinato una riduzione delle temibili pulci, responsabili del contagio.

Nella città inorridita, tuttavia, prende corpo un’altra tragica spiegazione: la peste – sostengono alcuni contemporanei – sembra rallentare perchè ormai ha ucciso quasi tutti… “piuttosto da mancamento di gente da morire che da vero miglioramento…non perchè il morbo mancasse della solita malignità, ma perchè non trovò più pascolo per poterla esercitare“.

In settembre i casi di peste regrediscono, ma sono ancora micidiali, tanto che alcuni lungimiranti testimoni, per nulla rassicurati dalla tanto decantata diminuzione dei contagi, affidano alle lettere i loro sospetti: “Il male fa con noi triegua e non pace. Dicono che il male sii in declinazione, però chi s’ammala non dura più di ventiquattro hore“.

Il 1656 si conclude con il tragico bilancio di 2357 morti, ma con la certezza piuttosto diffusa che la peste sia ormai estinta. Di fronte alla diminuzione dei contagi, i medici pubblicano una relazione in cui si dichiara Genova finalmente guarita dalla pestilenza. Con il conseguente via libera del governo le attività cittadine riprendono, tra ringraziamenti solenni alla SS. Vergine e manifestazioni di gioia. Pie illusioni. Con il passare delle settimane si comprende, purtroppo, che le autorità civili e sanitarie hanno agito con eccessiva leggerezza. Su Genova sta per scatenarsi la grande peste, quella nefasta, che lascerà un segno indelebile nella storia della città.

1657: LA PESTE NEFASTA IRROMPE

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Primavera – estate del 1657: Complice il gran caldo e le pessime condizioni igieniche dei vicoli del centro storico (i caratteristici caruggi), pulci, pidocchi e ratti, cominciano a moltiplicarsi e a diffondere il male. Il 18 maggio 1657 la nostra testimone Suor Maria Francesca Raggi, in una lettera al fratello, scrive:

“Il male va continuamente rafforzandosi, non solo per il numero di ammalati che cresce sempre di più, ma anche per la qualità dello stesso, essendo così maligno e violento che dove mette piede atterra tutti egualmente”

I malati – si legge in altre lettere – muoiono in due giorni. L’epidemia del 1657 è sicuramente implacabile. La tesi più accreditata dagli storici della medicina è che a Genova la peste mostrò il suo volto più feroce: quello della forma setticemica, un ceppo virulento che non lasciava scampo: mortalità oltre il 90% e sempre entro le 24-48 ore dalla sua insorgenza. Segni particolari: la comparsa dei carboni (pustole scure piene di siero) e le complicazioni nervose.

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La città agonizzante è sull’orlo dell’abisso: dolore, pazzia e disordine si materializzano in uno scenario apocalittico. La peste divampa come un incendio, l’orrore si vede e si tocca. Nonostante smentite ed occultamenti, la morte vagabonda dappertutto, seminando cadaveri negli angusti caruggi e nei quartieri patrizi. La città soffoca nell’odore di marcio, alimentato dal caldo estivo esploso prematuramente. Sembra addirittura che l’epidemia si sia rinvigorita di forze, armata di un potenziale doppiamente virulento. I casi di guarigione sono rarissimi, quasi tutti i contagiati muoiono in modo orrendo. I morti crescono, migliaia di cadaveri neri come carbone, gonfi quasi come barili, che brulicano vermi e stillano per ogni parte putredine ingombrano le strade, i lazzaretti e le piazze. Romano da Calice nel suo libro “La grande peste Genova 1656 – 1657“, preziosissima fonte per la ricostruzione di quella catastrofe, scrive:

Noi sappiamo che quando un cadavere entra in decomposizione le pulci lo abbandonano e si diffondono fameliche in cerca di altri corpi viventi dai quali succhiare il sangue vivo e nei quali rigurgitare migliaia di bacilli. Ora chi potrà immaginare il numero enorme di pulci libere disseminate dai più di ventimila cadaveri insepolti? Impossibile per noi fare dei calcoli ma anche questo spiega la valanga di appestati e di morti di questa che noi chiameremmo seconda ondata dell’infezione e che l’annalista Filippo Casoni chiama con un nome crudo “la grande strage”.

Per arginare la grande peste, le autorità genovesi, il clero e la nobiltà cercano di reagire e si compattano per provvedere ai bisogni più urgenti. La città viene divisa in quattro zone, ogni zona in quartieri, ogni casa numerata (è dalla peste che deriva, probabilmente, il sistema della numerazione degli edifici). A capo di ogni quartiere viene nominato un Commissario che ha il compito di far rispettare tutte le decisioni del governo. Accanto a lui operano un medico, un chirurgo, uno speziale e un sacerdote. Si aprono nuovi lazzaretti (alla fine i ricoveri aperti in città saranno una decina), si prendono decisioni senza precedenti e vengono emanate leggi speciali. Per provvedere alla rimozione dei mucchi di cadaveri vengono reclutati, come beccamorti o becchini, cinquecento tra carcerati, forzati e delinquenti. Avanzi di galera e monatti che – come vedremo – nel corso della loro rischiosissima attività, saranno le sguaiate avanguardie di atti e misfatti moralmente deprecabili.

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Il numero dei morti è così alto, che in città non si trova neppure il terreno per dignitose sepolture. Se la diffusione “egualitaria” e trasversale del morbo azzera le differenze sociali, il censo torna a giocare un ruolo importante nelle onoranze funebri.

∼ QUEI  CADAVERI  DATI  IN  PASTO  AGLI  SQUALI ∼

I ricchi vengono sepolti nelle chiese, per tutti gli altri si aprono le voragini dei cantieri (come quello del costruendo Albergo dei Poveri) o le fauci degli squali. L’orribile sistema di smaltimento delle salme funzionava così: alla foce del fiume Bisagno, in riva al mare, era situato un enorme cimitero dei poveri (il monumentale cimitero di Staglieno ancora non esisteva). La triste necropoli era formata da fosse comuni dotate di grate subacquee. Quando le buche erano sature di cadaveri si procedeva all’apertura delle cancellate per consentire l’ingresso alle verdesche, squali voraci, che banchettando su quegli anonimi resti, svuotavano il cimitero.

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Genova è assediata dai morti. Un’altra sepoltura di massa particolarmente repellente viene praticata nelle viscere della collina dell’Acquasola dove i magazzini di viveri si traformano in depositi di cadaveri infetti. Le conseguenze, sotto il profilo igienico, sono disastrose: il continuo rilascio di umori putrescenti forma un rivo dal fetore insopportabile.

I segni di quella inumazione di massa sono visibili ancora oggi. Nel 1988 gli esperti della Società Speleologica Italiana, esplorando il sottosuolo dell’Acquasola, hanno riportato all’attenzione della cronaca non solo i cumuli di scheletri, teschi e ossa, ma anche il ricordo ormai sbiadito di quella tragedia collettiva. La ri-scoperta delle sepolture della peste, documentata da articoli e inchieste giornalistiche, ha rinnovato gli studi sulla maggior sciagura che abbia mai patito Genova.

Nel 2017, a 360 anni esatti dalla pestilenza, un nuovo sopralluogo ha confermato l’importanza storica del sito dell’Acquasola. |VIDEO |



I genovesi del 1657 sono testimoni di scene sconvolgenti: quando gli spazi non sono più in grado di contenere le vittime del morbo, vecchie imbarcazioni colme di cadaveri vengono trainate in mare aperto e affondate con il loro carico di morte. La peste è ormai padrona della città, i beccamorti sono i suoi lacchè. Romano da Calice restituisce l’immagine della città soggiogata dal morbo:

Ovunque stupore e sgomento. Genova è muta, Genova è morta, non si vede in giro nessuno né si ode voce umana. Un silenzio infinito, traumatizzante, sembra incombere come una coltre nera sulla grande città, sino a ieri palpitante di folla, di voci, di vita.

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∼ BECCAMORTI, SCIACALLI  E  FESTINI ∼

Il silenzio è interrotto dal via vai di carri ricolmi di cadaveri infetti, ammassati uno sull’altro, teste e gambe ciondolanti, occhi spalancati, corpi esposti senza dignità. Figli di Genova accompagnati, nel loro ultimo viaggio, dalle oscenità e dalle bestemmie dei beccamorti che si aggirano euforici nelle strade con i loro cappelli piumati e i pugnali alla cintola. Dissolutezze e dileggio rappresentano il volto mefistofelico della disfatta, gli ultimi esorcismi prima della morte. Nella Genova appestata non è raro assistere a baccanali, orge, congressi carnali. L’imminenza della morte genera depravazione e incoraggia gli impulsi antisociali che si manifestano con sfrenatezza, impudicizia e criminalità crescente.

I suoi passi seguivano gli ordini del demonio che ha la libidine di calpestare sotto i piedi ragione e dignità dell’uomo.

Thomas Mann – La morte a Venezia

La città malata è percorsa da torme di ubriachi e losche figure; gentaglia malvagia – si dice – rende le strade pericolose. Si moltiplicano gli agguati, i casi di rapina e sciaccallaggio e persino gli omicidi. In qualche caso si scopre che alcune persone, presunte vittime dell’epidemia, sono state assassinate. Si perpetuano le nefandezze in uso nel Carnevale di Genova, occasione propizia per regolare i conti, abbandonarsi ad avventure scellerate o liberare i più brutali istinti.

Non occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questa ragione erano decaduti in vizio e follia. Una razza svuotata di ogni logica e raziocinio s’era aggrappata a questo tumulto informe di sentimenti, e l’uomo era adesso ombra, debolezza, nevrastenia, rassegnata paura e impudente allegrezza. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale.

Anna Maria Ortese – Il mare non bagna Napoli

Agapito Centurione, commissario di quartiere e senatore della Repubblica di Genova, è l’autore di un drammatica lettera che rimane uno dei documenti più incisivi sulle degenerazioni di quei giorni. Genova viene immortalata come un’orribile mischia di vivi e morti. Il brano, incalzante, inizia con la descrizione di beccamorti e sciacalli:

Ho veduto in mezzo alle sciagure universali, beccamorti, vagar per la città, abbondanti d’oro, cantando, suonando, scherzando, mezzi nudi, mezzi vestiti, sempre ubriachi, con piume e fettucce al cappello, pugnale alla cintura sopra alla camisa, lusingati da tutti, senza timor di veruno, non della stessa morte, e questi andar, con gridi di giubilo, trionfando per la città sopra quei carri, nè quali poco dianzi avevano tirato il genere umano alla sepoltura. Ho veduto altresì uomini e donne, scampati alla peste, andar tripudianti per le vie, con gridi, visitar le case appestate, arricchirsi con le loro spoglie; ognuno avrebbe voluto impedirglielo, nessuno sapea come vietarglielo. Bollivano intanto i calderoni de lasagne nell’istesse piazze, dove pochi giorni prima esalavano vapori ferali i cadaveri”.

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Padre Antero, a proposito dei disordini morali, aggiunge:

Che havreste creduto? che le persone spaventate et inhorridite stessero sempre melanconiche, modeste e pacate? Voi siete in errore. Si canta, si suona, si salta, si fanno gli amori, né mai si vidde Genova tanto sfacciata, dissoluta e licentiosa.

Dalle cronache del tempo emerge un variegato campionario di miserie umane. La figlia di un orefice, violentata da un beccamorto, è costretta a sposarlo per riparare l’infamia; i suoi parenti la cedono in moglie allo stupratore con una dote di 36mila lire in contanti, una cifra che consente di vivere di rendita, anche con una famiglia numerosa a carico. Altri matrimoni riparatori vengono celebrati in quei giorni…Non di rado i magnifici abiti indossati dalle spose dei becchini sono stati rubati a ricche signore uccise dalla peste. Per ammonire i beccamorti ed interrompere le loro malefatte, il governo installa nelle piazze numerose forche, ma senza risultato. Le autorità sono impotenti e spesso chiudono gli occhi. Genova, del resto, ha un disperato bisogno di becchini e proprio questa condizione di necessità garantisce loro una diffusa impunità. Indispensabili e per questo intoccabili. Il destino della triste categoria è comunque segnato. Su 500 beccamorti reclutati, solo in 20 scamperanno alla morte.

Così odiati, eppure così richiesti, questi inservienti, pagati a peso d’oro, sono i più esposti al contagio. Solitamente ritirano i corpi nudi delle vittime e servendosi di pertiche uncinate o forconi, li trascinano fino ai carri. In tal modo evitano di toccare il cadavere infetto, ma non si fanno scrupoli nel rubare collane, orecchini e gioielli, riservando alle donne decedute un’umiliazione ancora più penosa della morte.

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Si consumano così gli ultimi oltraggi prima della lugubre sfilata lungo le strade cittadine, con il groviglio di membra esposte sui pianali dei carri. Per migliaia di genovesi nessuna sepoltura decente, ma solo fosse comuni, ricettacoli di corpi ricoperti di calce e terra nuda.

∼ I  PROFUMIERI  DELLE  ARIE  CORROTTE ∼

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Contro la peste si tenta di tutto. Esperti cabalisti, con evocazioni talismaniche, cercano – inutilmente – di frenare l’avanzata del morbo. Preghiere e rituali di magia bianca, esoterismo e religione, pratiche irrazionali, ma non solo…

Nella Genova dilaniata dall’ecatombe giunge la notizia che alcuni frati Cappuccini di Marsiglia hanno messo a punto dei profumi molto efficaci per disinfettare edifici e strade. Il governo chiede, forse tardivamente, il loro aiuto. I frati profumieri, divisi in quattro squadre, si dedicano alla sanificazione della città, ammorbando con le loro miscele dalla forte carica insetticida, le case degli appestati, i palazzi del potere, i tuguri dei vicoli. Le misture, composte da minerali tossici e polveri di sostanze aromatiche, bruciate con paglia, sprigionano vapori velenosi e nauseabondi capaci di mandar via “anche li diavoli“. Questo rimedio, generalmente circondato da ilarità e scetticismo, è stato riabilitato, in epoche recenti, da alcuni studiosi. Si ritiene che le misture utilizzate (composte da zolfo, oropimento, antimonio, arsenico, assafetida, cinabro, cumino, litargirio, per citare alcuni ingredienti) siano state realmente efficaci contro le pulci e i ratti, vettori del morbo.

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La medicina tradizionale ed accademica si dimostra, al contrario, fallimentare e persino dannosa. Tra le pratiche adottate con maggiore frequenza la somministrazione di rinfreschi, acqua con succo di limone, zucchero e infusi, utili solo a dare sollievo ai malati febbricitanti e assetati. Un altro tentativo, particolarmente barbaro e ripugnante, consiste nell’incisione dei bubboni ad opera di chirurghi chiamati barbieri. Quando il bubbone è maturo i barbieri praticano l’incisione per espellere il pus; la ferita viene poi fasciata con stracci e bende imbevute di disinfettanti e lenitivi. Proprio la carenza di stracci e bendaggi rappresenta, nella Genova appestata, uno dei problemi più urgenti. Particolarmente calzante può risultare l’analogia – una delle tante – con l’insufficienza di mascherine all’inizio della pandemia di Covid del 2020. Sono i corsi e ricorsi della Storia che possono verificarsi anche a 363 anni di distanza. Scrive Padre Antero:

Molti lenzuoli erano necessarij giornalmente solo per stendere l’unguenti, ma quanti ce ne vogliono per nettare le piaghe e se a questo non si provvede le strapunte, e coperte necessariamente han da putrefarsi in breve. V’era tal infermo nel nostro lazzaretto che tanta tela di una camicia al giorno non bastava al suo bisogno. Per molti giorni continui, quando il chirurgo mi levava la tenta, v’apponeva una scudella per ricevere la putredine, ma questa cortesia la fanno a pochi perchè la moltitudine, se non ha stracci da riceverla, se li diffonde su li lenzuoli, e passa le strapunte; onde li poveri infermi natano, per dir così, nella putredine che più li affligge delle stesse piaghe”.

Se l’incisione del bubbone può favorire l’evacuazione dei bacilli, il fatto che venga praticata con rasoi o ferri infetti, provoca, molto spesso, letali setticemie o rinnovati contagi tra pazienti e medici.

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Anni 1656 – 57: nelle strade di Genova, si possono incontrare strani individui coperti da una cappa e con le fattezze alterate simili a corvi. Sono medici, nella tenuta, diventata iconica, utilizzata durante le epidemie di peste. I medici vestono solenni toghe, il volto è coperto da una maschera munita di un becco che contiene profumi ed erbe aromatiche per neutralizzare l’orribile fetore emanato dai bubboni. Questo abito protettivo, messo a punto agli inizi del 1600 dal medico francese Charles de Lormes, è interamente in pelle e viene universalmente adottato.

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∼ LAZZARETTI,  VISIONI  INFERNALI ∼

Durante la peste, i lazzaretti offrono gli spettacoli più atroci.

Piene le camere di sterco, la paglia si moveva per le pulci, pedocchi e cimici, il morire di quelli poveri con li vestiti marciti addosso et morivano per lo più nello sterco et orine loro. Qui è fetore intollerabile, qui è orrore continuo di morte, qui è un ritratto vero dell’inferno. Oh Dio, che piaghe spaventevoli si vedono in molti; a taluno manca la polpa di una gamba, un altro ha il petto squarciato, questo ha le vene della gola tutte scoperte, quello ha piaghe sì profonde sulle spalle che vi nasconderebbe un pane, chi ha la faccia tutta carboni che pare uscito da una fornace, nè vi mancano molti che paiano impiagati, no, bensì una sola piaga.

Odore stomachevole, lamenti, urla, sporcizia. Entrare in un lazzaretto provoca uno choc che investe sensi, sentimenti e stati d’animo. Il primo tormento da affrontare è il lezzo ributtante emanato dai bubboni e dalle diarree. Le cronache del tempo riferiscono di malori, svenimenti e attacchi di nausea che colgono i visitatori o gli eroici volontari. A rendere lo scenario ancora più orrendo, la presenza dei frenetici, malati che a causa di altissime febbri ed infezioni precipitano nel delirio maniacale o, ancor peggio, aggressivo. “Trattando con loro – scrive Romano da Calice – si può rischiare anche la vita. I lazzaretti sono, soprattutto, il luogo dell’addio, delle estreme unzioni, dell’ultima confessione prima della morte. L’assistenza spirituale acquisisce più importanza dell’assistenza medica. Ogni sera i sacerdoti attraversano le corsie e chiedono a gran voce se c’è qualcuno che desidera confessarsi. Ogni malato sa di essere prossimo al trapasso.

∼ CIO’ CHE CONTA NON E’ ESSERE STATI NELLA CASA DELLE TENEBRE, MA ESSERNE USCITI ∼

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Quante persone morirono a Genova? Le stime non sono univoche, tutte sono impressionanti. Quella di Genova fu una grande strage. Incrociando le fonti, si può ragionevolmente concludere che i 17 mesi di pestilenza provocarono 50mila vittime su 80mila abitanti. Un bilancio terribile che inchioda la percentuale di mortalità tra il 55 e il 60% della popolazione. All’indomani della peste, Genova si accorse di avere la sua forza-lavoro drammaticamente ridotta: non si trovavano più artigiani e commercianti. Padre Antero riferisce che su 2mila tessitori ne rimasero vivi solo 59; su 400 filatori i sopravvissuti furono 40, dei 2400 mendicanti si salvarono in 30. Le cronache del tempo documentano fedelmente le ferite lasciate dalla peste. Frammenti di una città smarrita.

Le strade piene di lordure mescolate col terreno e in molti luoghi cresciuta l’erba. Li condotti, che danno l’esito all’acqua piovana, quasi tutti guasti e ripieni. Alcune case desolate e cadute. Le chiese prive dei sacerdoti e senza il solito culto; le piazze e i mercati vuoti, le botteghe o serrate, o svaligiate.

♥ LAURA VIOLANTE  E  SOFIA ♥

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La reazione di Genova di fronte all’immane sciagura è straordinaria. Gli atti di coraggio, eroismo e religiosa dedizione offuscano le miserie umane che accompagnano, inevitabilmente, ogni tragedia collettiva. Nobili, religiosi, popolani si gettano nella tremenda mischia contro il flagello, incuranti della fatica e del possibile contagio. Lezioni commoventi di umanità e di appartenenza al bene comune che rimarranno incise nei libri di Storia e nella memoria della città. Moltissime le vicende esemplari, come quella di Laura Violante Pinelli e Sofia Lomellini, due bellissime ragazze, nobili e ricchissime, che lasciano il lusso e gli agi per dedicarsi agli incurabili e ai cronici. Educate, come tutte le ragazze di “buona famiglia”, alle virtù morali e cristiane, chiedono di entrare a tutti i costi in un lazzaretto come volontarie. Ricevuto l’assenso si tagliano i capelli, indossano abiti ruvidi e dimessi e si mettono a disposizione degli appestati col sorriso sulle labbra. Alla stregua di guerriere in trincea, lavorano con abnegazione per alcuni giorni, poi, ghermite dal male, vanno incontro a Dio. Creature angeliche, Laura Violante e Sofia rappresentano il sacrificio di una città che sfiorò davvero l’estinzione.

A loro ♣ ♣, fiori mai appassiti, è dedicato l’intero articolo. 

di Rudy Carpegiani e Sveva Siniscalchi – Genoa News Chronicle / Io, reporter


FONTI:
Romano da Calice – LA GRANDE PESTE GENOVA 1656-1657 – Bullesi, 1992
Federico Donaver – STORIA DI GENOVA – Editrice Libreria Lanterna, 1970
Antonio Brancati, Trebi Pagliarani – VOCI DELLA STORIA E DELL’ATTUALITA’. DAL MILLE ALLA META’ DEL SEICENTO – La Nuova Italia, 2012
Maria Conforti – LA PESTE NERA (in IL MEDIOEVO Vol. 8 a cura di Umberto Eco)  La Biblioteca di Repubblica – l’Espresso, 2009

VIAGGIO NELL’ ANNO MILLE

di Cora Richmond e Tania BrandoGenoa News Chronicle / Io, reporter

Intervista immaginaria a un uomo dell’anno Mille

Grazie a quella meravigliosa e potente macchina del tempo chiamata Storia, approdiamo nell’anno Mille e immaginiamo un incontro con un nostro simile. Ovviamente sarebbe quasi impossibile comprenderci….Ma liberando la fantasia possiamo annullare le differenze lessicali e temporali tra i nostri rispettivi idiomi ed abbattere le barriere culturali tra le mie concezioni moderne e le sue credenze medievali….io so qualcosa del passato grazie a qualche studio, lui sa abbastanza sul futuro dell’umanità grazie a misteriosi poteri divinatori…

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Così, il dialogo tra il mio italiano del 2018 e l’impasto di latino e dialetto locale – affascinante preludio di nobile lingua romanza – parlato dal mio interlocutore, non rappresenta più un ostacolo; tuttavia il tempo a mia disposizione è ridotto….solo 10 domande, non una di più…al termine della decima risposta l’incantesimo svanirà…

Come ti chiami?

Helgaldo Richer, sono cristiano e vivo nell’entroterra di Saint-Tropez, un luogo molto pericoloso infestato da bande di Mori saraceni specializzate in agguati a viandanti, studenti e  “giramondo”. I Saraceni si radunano nelle gole più strette delle montagne e attaccano i viaggiatori diretti o in arrivo dall’Italia…a volte li rapiscono e chiedono il riscatto…

Hai paura della fine del Mondo?

Nooo…! I nostri spaventi sono provocati dai fenomeni del cielo…quelli che voi chiamate eclissi e comete…Il terrore ci cattura quando un velo di sangue ricopre la luna o quando il sole diventa cupo: sono prodigi che fanno tremare parecchio la gente! Portano disgrazie alimentari e carestie. Quando si manifestano queste cose nel cielo significa che Dio è in collera e vuole punirci per i nostri peccati…Il sole nero e la luna rossa sono flagelli misteriosi della vendetta divina!

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Ma nel mio tempo abbiamo letto che voi uomini del Mille siete terrorizzati dalla fine del Mondo….

E’ una falsità…alcune letture dell’Apocalisse possono trarre in inganno…Chi ha messo in giro questa voce? Non sappiamo neppure se sono trascorsi esattamente mille anni dalla nascita di Gesù Cristo…Noi non calcoliamo il tempo come voi…L’inizio dell’anno cade in date diverse a seconda dei luoghi. Per esempio, presso la cancelleria del re di Francia il capodanno corrisponde al 1° marzo; nel Poitou coincide con il Natale, il 25 dicembre; all’abbazia di Saint-Benoit-sur-Loire cade il 25 marzo. In Germania e in Inghilterra l’anno comincia il 25 dicembre…

Ma scusa Helgaldo…come calcolate il tempo?

Con il tragitto del Sole e della sua luce nel cielo….Con il canto del gallo, con il suono delle campane di monasteri ed abbazie che annunciano preghiere e riti quotidiani…I monaci sono precisi, possiedono strumenti complicati…quadranti e clessidre a sabbia, mentre per misurare le durate più lunghe l’ora è indicata dal livello d’acqua di un recipiente che si va vuotando goccia a goccia…Di notte alcuni usano le  candele: la lunghezza  di una candela corrisponde a un tempo determinato… A noi non serve conoscere l’ora esatta, è un dettaglio superfluo. Come vedi, il calcolo del tempo per noi è piuttosto approssimativo e teorico, basato sullo scorrere delle stagioni.

Hai parlato di tragitto del sole…il sole quindi si muove?

Beh certo…il sole compie un tragitto, si leva e tramonta. I dotti dicono che l’Universo è una sfera con la Terra al centro. Attorno alla Terra ci sono altre sfere concentriche ciascuna delle quali corrisponde al cammino del sole, della luna o degli astri, mentre l’ultima sfera regge l’insieme delle stelle fisse.

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Come curate le malattie?

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Con pratiche magiche, uso di scongiuri ed esorcismi, salassi e cure di carattere naturale con erbe e pietre minerali. Ad esempio lo zaffiro ha natura fredda e, se ridotto in polvere e mescolato al latte, cura le ulcere e il mal di testa; inoltre vince il terrore e l’invidia. Magia, astrologia e medicina sono intrecciate, così come le piante, gli astri e le parti del corpo sono elementi tra loro collegati. Le varie membra sono associate a segni zodiacali. Ricorriamo spesso ai malefici: sono perpetrati soprattutto dalle donne e possono indurre impotenza e sterilità. Le donne lascive, se si accorgono che il loro amante vuole contrarre un matrimonio regolare, uccidono con arti magiche il suo desiderio, cosicchè egli non possa avere alcun rapporto con sua moglie.

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L’epilessia, invece, è il “mal sacro” perchè il demonio entra nel corpo del malato; in questo caso la cura contempla diete e farmaci, ma anche talismani ed esorcismi.

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Ma ricorda ci sono poteri taumaturgici trasmessi da Dio ai re. Alcuni sovrani del nostro tempo curano la scrofolosi con il tocco della mano.

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Cosa fai nella vita?

Sono un modesto gentiluomo, un castellano. Vivo nella Francia del sud e discendo da un antichissimo capovillaggio dell’epoca dei Galli.  Esercito la mia autorità su un piccolo territorio e sono occupato quasi sempre in contese e lotte contro altri castellani e signorotti. Con l’aiuto di gente robusta, fuggiaschi, figli di contadini e mercenari devo difendermi dalle ritorsioni, proteggermi dai nemici, trionfare sui miei pari e opprimere chi sta sotto. Chi attraversa la mia proprietà deve pagare il passaggio, altrimenti….

Altrimenti è guerra…

Noi del Mille viviamo sempre in guerra. Guerre contro i Saraceni invasori, contro le incursioni dei Normanni a nord della Loira, degli ungheresi a est. Guerre e scaramucce continue scoppiano tra noi signori, tra principi e vassalli. Ci si batte per il controllo di una posizione strategica, per prestigio e potere, per lavare un’offesa o per puntigli d’onore…

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Sì, in effetti ho letto che il Mille è stato un periodo immerso nell’anarchia feudale….Ma spiegami com’è la tua vita al castello?

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Modesta, buia e fredda…Preferisco la vita all’aria aperta. Al castello non posso riscaldare le stanze per paura di incendi; le finestre sono lunghe e strette, assomigliano a feritoie: non esistono quelle coperture che voi chiamate vetri. Vivo con la moglie e tre figli ancora piccoli. Ogni tanto apro le porte a qualche ospite di passaggio, preferibilmente un giullare, che rallegra la casa cantando brani di qualche chansons de geste. Mi appassiono a quelle battaglie, a quei grandi duelli….E’ come rivivere le mie imprese.

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Per la tavola, cerco di provvedere con la caccia: cervi e cerbiatte, daini, cinghiali, qualche orso e selvaggina da penna, carne che arrostiamo alla brace con l’aggiunta di erbe aromatiche; pesce il venerdì e nei periodi di quaresima e poi formaggio di capra e frutta; dolci di rado e a base di miele.

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Ovviamente mangiamo con le mani, nel nostro tempo non esistono forchette. Qui, nella Francia del sud, inoltre, non manca il vino, una delizia. Per la mia igiene personale, infine, osservo la regola del bagno due volte l’anno.

Helgaldo, siamo all’ultima domanda. Come sanate le colpe? Come regolate ingiustizie, peccati e delitti?

Innanzitutto con la vendetta, la vendetta è ammessa: il primo che uccide è esposto alle minacce dei parenti della vittima. Poi si può riparare la colpa con il sistema della penitenza a tariffa: a ogni tipo di peccato corrisponde una pena stabilita dai cosiddetti penitenziali. Ad esempio se uccido mia moglie devo espiare la colpa richiudendomi in un convento a pane e acqua. Dopo l’omicidio i peccati maggiormente puniti sono quelli carnali: grandissimo peccato è “dormire” con la sorella della moglie: il colpevole non potrà più riavvicinare la propria moglie, mentre quest’ultima potrà risposarsi con chi vorrà. Quanto al colpevole e alla sua cognata-amante, saranno condannati al celibato e, per tutta la vita, si infliggeranno mortificazioni.

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Adulterio gravissimo è quello commesso da un uomo sposato con una donna sposata poiché si sommano due tradimenti: per quindici anni il peccatore dovrà rispettare due quaresime ogni anno e continuerà a fare penitenza tutta la vita. Venti giorni a pane e acqua è anche la pena che sconta un celibe che abbia fornicato con una donna libera o con la propria domestica. Pene severissime per i sodomiti: l’uomo sposato che si sia smarrito in tal modo farà penitenza per dieci anni, il primo anno a pane ed acqua. Sette anni di penitenza per la donna lussuriosa che abbia ingoiato lo sperma dell’uomo. Alcune donne nel silenzio della notte in compagnìa di altre seguaci del diavolo credono di poter salire in aria fino alle nuvole: per questa pratica del sabba tre anni di digiuno. Altri provvedimenti riguardano il furto: ad esempio, un mercante che imbrogli sul peso deve fare penitenza per venti giorni a pane ed acqua.

(Come sottolineato da Edmond Pognon nel suo mirabile testo La vita quotidiana nell’anno Mille: “Uccidere un uomo intorno al Mille, costituiva un atto assai meno eccezionale e molto meno riprovevole che non oggi”).

Nuova luce sul Medioevo

L’idea di Medioevo si affacciò per la prima volta durante il Rinascimento, quando l’entusiasmo per la riscoperta del mondo antico, diffusa in tutta Europa, portò a considerare il lunghissimo “periodo intermedio” come un’epoca caratterizzata da una complessiva decadenza della civiltà: per la cultura rinascimentale i secoli successivi al crollo del mondo antico apparivano come una notte dell’umanità, durante la quale si erano spente la bellezza e la sapienza di fonte greco-romana.

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Si affermò l’immagine di un mondo in rovina paralizzato dal terrore della fine del mondo: le città disabitate; i servi prigionieri nei campi, all’ombra delle odiose torri dei loro signori-carcerieri; i monaci, in attesa del compimento dell’apocalittica profezia, radunati in astinenza nei chiostri, con i cuori in battaglia contro le tentazioni, assaliti da rimorsi e terrificanti visioni. Lo scoccare dell’anno Mille sarebbe stato foriero di avvenimenti definitivi e terminali segnati dal ritorno di Cristo sulla terra.

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Questa interpretazione negativa del Medioevo dominò sino agli inizi dell’Ottocento, quando il Romanticismo favorì una rivalutazione complessiva del periodo medievale, soprattutto perchè in esso erano maturate le radici delle varie culture europee moderne. Come il mondo romano era stato accentrato e unitario, così la società medievale fu articolata e complessa.

Si pensi in ordine sparso:

  • all’apporto culturale e demografico di nuove popolazioni come i Franchi, i Normanni, gli Arabi, gli Slavi, i Bizantini.
  • alla definizione del ruolo politico del Papato.
  • alla nascita delle lingue moderne.
  • all’affermazione del Cristianesimo come religione prevalente dell’Occidente europeo.
  • alla produzione di opere artistiche connotate da estrema originalità.

A partire dagli anni ’80 del Novecento la storiografia ha posto nettamente in dubbio le paure apocalittiche correlate al Mille.

Da La grande Storia “Il Medioevo” (volume 19) a cura di Pietro Corsi:

“I rappresentanti della Chiesa mettevano spesso in guardia contro i falsi profeti e i falsi annunciatori del Cristo, timorosi che il fervore escatologico fomentasse il diffondersi di eresie e desse vita a movimenti fuori dal controllo delle gerarchie – come in parte accadde. Sul piano delle conoscenze, il dibattito sull’anno Mille spingeva alcuni intellettuali ecclesiastici a rinnovare i propri sforzi per stabilire con esattezza il computo degli anni e stilare tavole cronologiche…Per alcuni storici della climatologia, le temperature medie più alte in assoluto degli ultimi duemila anni, sino almeno alla metà del Ventesimo secolo, si registrano proprio nell’XI e XII secolo. Non a caso, intorno alla metà del X secolo, i bellicosi Norvegesi si spingono a colonizzare la Groenlandia.

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Non si posseggono dati precisi per ogni regione geografica dell’Europa (il X secolo e la prima metà dell’XI costituiscono rispetto al problema delle fonti un buco nero: pochissimi contratti, testi scritti, testamenti, miniature. Nessun residuo delle abitazioni più umili e scarsi indizi; difficile ricostruire la vita quotidiana di quel tempo ndr). Tuttavia, l’incremento del prodotto agricolo è netto, tale certamente da permettere un consistente aumento della popolazione. Certo intorno all’anno Mille, Parigi non conta più di 20mila abitanti (ne avrà più di 200mila intorno al 1220) e Roma 35mila, ben poco rispetto a Bisanzio, che supera la soglia dei 300mila. L’aumento delle popolazioni urbane è un processo lento e non lineare. E’ tuttavia interessante notare che si assiste alla crescita del numero dei centri urbani di piccole e medie proporzioni, soprattutto in Paesi come l’attuale Francia, Germania, Inghilterra e Italia.

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L’anno Mille, insomma, non rappresentò la fine del mondo, ma l’agonia – tutta politica – di quella società sulla quale ancora aleggiava l’idea dell’unificazione dell’Impero d’Occidente, concretizzata per un breve periodo da Carlo Magno.

L’anno Mille non vuol dire la fine del mondo, ma un nuovo punto di partenza e di profondo rinnovamento.

Da La grande Storia “Il Medioevo” (volume 19) a cura di Umberto Eco:

“E’ luogo comune che l’Europa conosca una rifioritura in tutti i settori dopo il Mille e in effetti tra l’XI e il XIII secolo avvengono trasformazioni radicali nella vita politica, nell’arte, nell’economia e nella tecnologia, al punto che, per quei secoli, qualcuno ha parlato di “prima rivoluzione industrale”. Di questo rifiorire di energie fisiche e di idee se ne rendevano conto anche i contemporanei, e rimane celebre un brano del monaco Rodolfo il Glabro (985 ca. – 1050 ca.). Rodolfo racconta di una carestia del 1033 dove sono descritti atroci episodi di cannibalismo tra i contadini più poveri, ma in qualche modo avverte che con l’anno Mille qualcosa di nuovo è avvenuto nel mondo e le cose, che sino ad allora erano andate malissimo, incominciano a prendere una piega positiva:

Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi dalla vecchiaia, si rivestisse tutta di un candido mantello di chiese.

Il pensiero filosofico sembra partecipare di questa rinascita materiale e intellettuale. Non a caso è nel giro di un secolo dopo il Mille che nascono le prime università in una visione più ampia, più “europea” del sapere. Se nei secoli precedenti la conoscenza era stata vista soltanto come commento della saggezza tradizionale, in questi secoli si fa strada un’idea di cultura come innovazione: l’aforisma celeberrimo per cui i contemporanei si consideravano dei nani sulle spalle di giganti, e pertanto dotati di prospettive più ampie dei loro avi, dimostra l’idea che la ricerca sia sempre in qualche modo innovatrice”.

Certo, la gente dell’anno Mille ha vissuto in un’epoca durissima, ha patito i capricci della natura per l’incapacità di combatterli. Innegabile il decadimento del ruolo politico della penisola italica e, più in generale, la fine della centralità del Mediterraneo: si assiste, ben prima del Mille, allo spostamento dell’asse politico europeo verso nord: l’Italia non è più al centro degli scambi del mondo mediterraneo, ma ne diventa la frontiera meridionale, ai margini dei grandi processi storici che si verificheranno altrove, in quell’area che oggi definiremmo franco-germanica.

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I territori dell’Europa occidentale, che avevano fatto parte dell’Impero romano, conoscono, durante il VI e il VII secolo, una gravissima crisi demografica che determina l’inesorabile regresso della vita cittadina. E’ un mondo indubbiamente fiaccato da invasioni, guerre, carestie, pestilenze; un mondo diviso e frammentato dall’avanzata dei boschi che fagocitando le antiche vie di comunicazione ormai abbandonate,  riducono i commerci e alimentano la formazione del rigido microcosmo feudale.

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Attenzione però: il collegamento tra gli scenari critici appena descritti e la narrazione che si ostina a rappresentare gli uomini dell’anno Mille in preda ad una fobia collettiva, terrorizzati da una fine del mondo ormai imminente, è stato e continua ad essere un errore storico. Eppure, pur trattandosi di una teoria fallace, la paura della fine del mondo che avrebbe annichilito la società dell’anno Mille, si è radicata fino ai nostri giorni. Un’interpretazione ingannevole che contaminando centinaia di testi scolastici si è propagata tra le generazioni, perchè come ha sostenuto il grande medievalista Ferdinand Lot, “appena si smette di combattere un errore storico, rispunta immediatamente”.

L’anno Mille in pillole

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La società dell’anno Mille, pur declinante, non aveva la benché minima paura che il mondo sarebbe potuto terminare allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre. Lo dicono le fonti storiche, lo afferma la logica e lo ribadisce, in prima istanza, lo studio di una disciplina particolare: la cronologia.

La misurazione del tempo

In quel tempo l’Europa adottava ancora criteri di calendarizzazione inesatti e differenti tra regione e regione: al calendario giuliano si affiancavano spesso anche i cicli stagionali o addirittura gli anni di regno degli imperatori. Lo scorrere dei giorni procedeva secondo la luce del sole. Orologi e pendole, ovviamente, non esistevano. Ci si orientava, principalmente, secondo i ritmi e i suoni della natura: la luce nel cielo o il canto del gallo. Non mancava, tuttavia, un sistema più avanzato rappresentato dalle campane dei monasteri che annunciavano gli uffici quotidiani, suonando ogni giorno alle stesse ore. Ma come facevano i monaci a seguire lo scorrere quotidiano del tempo? Fino al XIII secolo esistevano soltanto le clessidre a sabbia (per misurare durate brevi) o i quadranti solari. Ma non è tutto: fino al volgere del Medioevo il tempo si misurava, spesso, con la durata delle candele.

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Gli uomini del Mille ignoravano la suddivisione in 24 ore del giorno, inoltre la reale durata di queste ore variava con il variare delle stagioni. A nessuno – se si escludono i monaci – serviva conoscere l’ora esatta. Le date si scrivevano secondo l’uso latino, per calende, idi e none. Addirittura l’inizio dell’anno cadeva in date diverse a seconda dei luoghi: in Germania e in Inghilterra l’usanza più diffusa era quella di far cominciare l’anno a Natale, mentre in Francia – in rapporto a certe zone – poteva corrispondere al primo marzo, al 25 marzo o al 25 dicembre. Il 31 dicembre, insomma, non era nemmeno considerato l’ultimo giorno dell’anno. Vista la precaria misurazione del tempo quanti avranno saputo che erano trascorsi esattamente mille anni dalla nascita di Gesù Cristo?

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La stessa precarietà connotava la misurazione dell’età del mondo. Nell’anno Mille, secondo l’interpretazione dell’epoca, il mondo aveva, più o meno, 4950 anni, un’età davvero brevissima.

Il tempo di vita

Stabilire sulla base di dati certi la durata media della vita intorno al Mille è impossibile. Non esiste stato civile, non esistono registri parrocchiali, non esistono fonti scritte. Si procede per intuizione considerando lo stato della medicina e della profilassi. Possiamo supporre che gli strati più umili della popolazione, malnutriti, esposti alle frustate del clima, costretti a fatiche durissime e ripetute non dovevano durare molto a lungo.

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Lo studio dei pollini fossili restituisce un quadro estremamente mutevole: dalle inondazioni in Lorena e in Renania del 987 alla canicola asfissiante del 988; dall’autunno pestilenziale del 992 alle intemperie che sconvolgono il nord della Germania nel 998; senza trascurare la tremenda piena della Loira del 1003 e la rapida alternanza di siccità e alluvioni che connotano il 1005. Altre catastrofi naturali si registrano nei primi anni ’30 del Mille: ne parlano i monaci francesi nelle loro cronache. Probabilmente le intemperie risultano devastanti perchè le popolazioni non dispongono di strumenti efficaci per fronteggiarle.

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La piena di un fiume significava regolarmente inondazione, mentre la siccità colpiva altrettanto duramente perchè non era mitigata da sistemi di irrigazione capillari. Un’ondata di maltempo diventava, così, la migliore alleata di un’implacabile carestia. Dallo studio dei pollini fossili emerge infine un altro dato: la temperatura media, in Europa occidentale, intorno all’anno Mille, era superiore di un grado a quella che si è manifestata a partire dal XIII secolo.

Carestie e cannibalismo

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910, carestia nella zona di Angouleme: “cosa mai vista prima di allora, le persone infierivano le une contro le altre, per mangiarsi” – Ademaro di Chabannes.

1002 – 1016, carestia nei paesi un tempo sottomessi a Roma: “non si è sentito di una sola regione che fosse risparmiata dalla miseria e dalla mancanza di pane; gran parte della popolazione morì di fame. Si mangiano gli animali immondi e i rettili. I figli ormai grandi divoravano le madri, mentre le stesse madri, dimentiche di qualsiasi tenerezza, facevano altrettanto con i bambini più piccoli” – Rodolfo il Glabro.

997, carestia in Francia: “si fa strada il mal degli ardenti. Una moltitudine di uomini e di donne si trovarono il corpo divorato da un male invisibile” – Ademaro di Chabannes. Tale malattia, che ricomparve a più riprese durante il Medioevo, va individuata in quella malattia che prende il nome di ergotismo provocata dalle farine avariate.

1030 – 1032, carestia in Francia: Viaggiatori che cercano di fuggire la carestia vengono colti per via, trucidati, fatti a pezzi e arrostiti; altri abbattuti e divorati da chi li ha ospitati per una notte; bambini che, attirati da un uovo o una mela mostrata loro di lontano, credendo di potere finalmente mangiare, vengono invece mangiati. Si comincia a prendre gusto alla carne umana. Si cerca persino tra cadaveri già seppelliti” – Rodolfo il Glabro.

Latino per pochi, dialetto per molti

Il latino svolgeva il ruolo di lingua franca, cioè di un idioma che permette a persone di diversa etnia di comprendersi. Con la diffusione del Cristianesimo, il latino e il greco furono adottati dalle due Chiese che si erano ben presto differenziate: quella cattolica a occidente e quella ortodossa a oriente. Il latino veniva normalmente parlato e scritto da tutti i ministri della Chiesa, inoltre rappresentava l’unica lingua colta.

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Peraltro, proprio la Chiesa potrebbe aver contribuito alla diffusione delle lingue volgari. Non si esclude che per diffondere il messaggio cristiano tra i ceti più umili e renderlo comprensibile alle folle di illetterati, i preti dell’Alto Medioevo potrebbero aver “imbastardito” il latino, accelerando la formazione dei dialetti e la loro codificazione letteraria. Non a caso, gli albori della storia della letteratura italiana saranno connotati da una fiorente produzione poetica di carattere religioso che troverà nella Lauda (o più precisamente lauda spirituale) la forma più importante di canzone sacra in volgare.

I contadini – servi

Benchè le città (ormai semideserte) esistessero ancora, il centro di gravità della società altomedievale si spostò dalla città alla campagna. Il nucleo di produzione diventò la curtis erede della villa romana di età tardoantica. I contadini, coloni o massari erano vincolati al terreno che dovevano coltivare e che non potevano abbandonare senza il consenso del proprietario o signore: perciò sono stati definiti “servi della gleba“, cioè servi della zolla di terra.

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Servi o villani che fossero, il signore li disprezzava e li sfruttava.  I contadini erano costretti a consegnare tributi in natura o in denaro, prestare la loro fatica, le loro braccia, i loro attrezzi e i loro animali da lavoro ai campi del padrone. Stremati dal regime delle corvées e dagli abusi dei potenti, i contadini – se disponevano di terreni – erano costretti a cederli per riceverli poi in uso in cambio di un affitto. Sfruttati, minacciati dalle bizze del clima, dai mercenari di un signore vicino o dalle bande di razziatori, i servi della gleba fornivano alimenti e denaro a tutti gli altri. Non c’era uomo libero che poteva sopravvivere senza di loro. Illuminanti le parole di Adalberone, vescovo di Laon: “Il padrone è alimentato dal servo. E il servo non riesce a vedere la fine delle sue lacrime e dei suoi sospiri”.

Anno Mille, deserto di uomini

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Con quale immagine finale e simbolica possiamo descrivere l’anno Mille? Tanti alberi, pochi uomini: così si presentava l’Europa in quel tempo. 25 milioni di abitanti negli anni cruciali dell’Impero Romano, crollati a 10 milioni durante il regno di Carlo Magno. Ed è però con l’anno Mille che si assiste ad una lenta ripresa demografica. Certamente gli uomini di allora abitavano le poche radure tra un bosco e l’altro. Mentre oggi le foreste sono piccole macchie sul territorio urbanizzato, in quel tempo il rapporto era esattamente l’opposto.

di Cora Richmond e Tania BrandoGenoa News Chronicle / Io, reporter

NOTE – Fonti e citazioni:

  • Geopolis 2 “Da Augusto al Mille” di E.Cantarella, G.Guidorizzi, E.Fedrizzi – Einaudi Scuola (2013).
  • La Grande Storia “Il Medioevo” a cura di Umberto Eco – Corriere della Sera (2011).
  • “La vita quotidiana nell’anno Mille” di Edmond Pognon – BUR / Corriere della Sera (2018).

HANNO MANGIATO IL PANE E SONO DIVENTATI PAZZI

di Virna VianiGenoa News Chronicle / Io, reporter

Che sensazione di angoscia… E’ come essere avvolti in un miasma, come se una pestilenza vaporosa aleggiasse su tutti noi, ancora sospesa ma incipiente e inesorabile. E’ come respirare una di quelle malattie dell’aria che ammorbavano le città maledette delle antiche tragedie greche o calarsi negli scenari terribilmente visionari, trascendenti e irrazionali delle opere di Hieronymus Bosch. 

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El misterio del pan maldito

Pont-Saint-Esprit, Francia|Estate del 1951. Una tempesta di follia collettiva soffia sulla Francia del sud. L’epicentro è a Pont-Saint-Esprit, tranquillo villaggio di 5mila anime nel cuore della Linguadoca – Rossiglione.  500 abitanti sono colpiti da allucinazioni, vertigini, demenza, convulsioni, deliri, isteria, ipotermia (malgrado la calura estiva), iperattività motoria, esplosioni di violenza. Il paese, sconvolto, è prigioniero della pazzia e del panico. Le crisi sono terrificanti.

In quei giorni un giornale francese scrive:

Non è né Shakespeare né Edgar Allan Poe. Si tratta, purtroppo, della triste realtà di Pont-Saint-Esprit, teatro di episodi terrificanti provocati da allucinazioni. Sono scene che sembrano affiorare dal Medio Evo, scene di orrore e di pathos, piene di ombre sinistre”.

Altri particolari da un articolo del ‘TIME’, prestigiosa testata degli Stati Uniti con legami molto stretti con la CIA:

Tra i colpiti, delirium rosa: i pazienti battono selvaggiamente sul letto, urlando che fiori rossi germogliano dai loro corpi”.

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La piccola comunità di Pont-Saint-Esprit è un microcosmo dominato dall’orrore, ormai privo di freni inibitori o leggi morali. Nei rapporti delle Autorità stilati in quei giorni si delinea la fotografia di un paese simile a un girone infernale segnato da follia, eccessi, violenza e morte: persone che si gettano dai tetti, donne e uomini che si strappano i vestiti e corrono nudi per le strade, bambini terrorizzati che sostengono di avere le pance infestate da serpenti. Nel corso dei deliri alcuni sostengono di essere minacciati dalle fiamme, altri sono annichiliti da visioni colorate o terrorizzati da apparizioni improvvise di orribili creature o belve. Il parossismo dilaga.

Tra le vittime  il garagista del paese, Marcel Sauvet. Lo vedono girare per le strade mentre, in preda al delirio, sferra calci e pugni al vento, urlando ingiurie irripetibili all’indirizzo di una vecchia compaesana morta da più di dieci anni. “Risse con i morti”, ma non solo. Gli effetti degli stati allucinatori generano esperienze sciamaniche. L’alterazione delle percezioni spalanca le porte di un “altrove” spaventoso; l’uomo “diventa” pianta, animale o mostro. C’è chi sente nascere sul proprio corpo germogli di fiori ignoti e prega i parenti di innaffiarli.

Ancora oggi, a 65 anni dai fatti, testimoni e vittime restituiscono, nei loro racconti, esperienze estreme che sembrano emergere dalla notte dell’Apocalisse. Bernard Lunel e Paul Pages – all’epoca poco più che ventenni – ricordano la follia di quei giorni:

Alcuni, in preda alle allucinazioni, si buttavano dalle finestre. Una persona, tra le più integre e rispettabili del paese, a cavalcioni sul balcone, urlava a tutti che era una libellula e che poteva volare.

Ad aggravare il bilancio 5 morti (persone che non si ripresero dal declino psico-fisico),  2 casi accertati di suicidio, 300 intossicati, decine di internati nei manicomi di Montpellier, Nimes, Avignone, Orange e Lione e un  tessuto sociale in frantumi, minato da un grumo persistente ed insanabile di odi, accuse e vendette.

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“Perché un dolore che si consuma nell’invisibilità, una sofferenza che strugge senza essere vista, è più di quanto l’essere umano possa sopportare… uno sparuto drappello di anime terrorizzate, attendate per cecità sull’orlo di un precipizio abissale”.

“Le ipotesi proliferavano, si agglutinavano, si addensavano, poi si liquefacevano sotto quel cielo affastellato di presagi e prodigi, ma dove si annunciavano solo assurdità. Dove tutto era, al tempo stesso, indefinito e sovradeterminato. Dove nessuna causa era abbastanza robusta per evitare che ogni singola cosa rimanesse senza la sua ragione”.

(Antonio Scurati – “Il Sopravvissuto”)



MA QUALI FURONO LE CAUSE DEL DELIRIO DI MASSA?

Una prima risposta arrivò dalla scienza. Alcuni medici, infatti, correlarono i sintomi descritti a Pont-Saint-Esprit con le terribili epidemie di ergotismo che tra il X e il XIX secolo avevano colpito l’Europa a ondate cicliche.

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L’ergotismo, nel corso dei secoli, ha profondamente agito sull’immaginario. Nel linguaggio popolare europeo, nel folklore e in moltissimi riti arcaici sospesi tra il sacro e il profano, l’ergot viene definito “grano pazzo” o “segale ubriaca”. Alcuni studiosi sostengono addirittura che abbia provocato più vittime della Peste.

Le epidemie di ergotismo erano molto comuni in Europa tra la fine del X e durante tutto il XIII secolo, diminuendo poi gradualmente, fino ai primi anni del XX secolo. Avvelenamenti collettivi relativamente recenti si sono verificati sul suolo francese nel 1819, mentre negli anni Venti del Novecento altri virulenti focolai hanno colpito migliaia di persone in Russia e in Inghilterra.

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La malattia colpiva soprattutto le comunità delle aree rurali povere, dove il pane rappresentava la parte più importante delle provvigioni giornaliere. La farina aveva prezzi differenti, a seconda del fatto che fosse non contaminata (farina bianca) o contaminata (farina scura); gli indigenti potevano permettersi solo quest’ultima, in quanto era il prodotto più economico. Gli intossicati, già debilitati da carenze alimentari, condizioni precarie di salute, inedia e miseria, non avevano scampo. Sempre grave il bilancio delle vittime proprio perchè i poveri rappresentavano in assoluto la fascia più numerosa della popolazione.

In epoca medioevale le descrizioni del “male” erano connotate da accenti apocalittici:

le carni cadevano a brani, come li bruciasse un fuoco sacro che divorava loro le viscere; le membra a poco a poco rose dal male, diventavano nere come il carbone. Morivano rapidamente tra atroci sofferenze oppure continuavano, privi dei piedi e delle mani, un’esistenza peggiore della morte; molti altri si contorcevano in convulsioni”.

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Ribattezzato, spesso erroneamente, fuoco sacro, fuoco di S.Antonio, ballo di San Vito, mal des ardents, l’ergotismo è una sindrome ancestrale associata al consumo di pane infettato dalla segale cornuta, la famigerata claviceps purpurea o ergot,  un fungo parassita – noto per i suoi effetti allucinogeniche attacca il grano.

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Nel caso di Pont-Saint-Esprit le conclusioni dei medici trovarono un’importante sponda nelle indagini di Polizia condotte sul campo. Elemento decisivo la confessione resa da un mugnaio, Maurice Maillet, il quale nel corso di un interrogatorio, ammise o fu costretto ad ammettere, di aver utilizzato farina di segale avariata, in aggiunta a quella di frumento, per risparmiare circa 2.000 franchi sulla fornitura. Nel 1951 l’intero paese precipitò in un clima da Inquisizione medioevale. Il pane prodotto dal fornaio incriminato venne subito bollato come pane del demonio o pane maledetto.

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Il suo negozio divenne bersaglio di improbabili esorcismi: l’ingresso fu sbarrato con una croce, mentre il panettiere, additato come untore, rischiò il linciaggio da parte della popolazione. Per placare la psicosi e l’angoscia collettiva le autorità arrestarono il mugnaio, più per proteggerlo che per la convinzione di ritenerlo realmente responsabile dell’intossicazione. L’inchiesta giudiziaria che seguì accertò l’inganno alimentare del mugnaio, ma non vi fu alcuna sentenza che riconobbe esplicitamente una relazione tra la truffa e l’avvelenamento di massa.



LA SVOLTA 

Nel volgere di pochi mesi la comunità di Pont-Saint-Esprit, seppure segnata per sempre dalla vicenda, tornò alla normalità. La storia del “pane infetto” tuttavia non fu mai completamente archiviata. Giornalisti, studiosi, antropologi  e ricercatori, nel corso dei decenni, non si sono accontentati della comoda versione ufficiale  (quella che indicava in un mugnaio – capro espiatorio l’autore del contagio)  e così hanno battuto altre piste, approdando a conclusioni sempre differenti, talvolta suggestive, ma non sempre convincenti. A tutt’oggi rimangono in piedi varie ipotesi: tra le spiegazioni prevalenti quella della contaminazione da micotossine, all’epoca ancora poco conosciute, oppure l’uso sconsiderato di un agente sbiancante per migliorare l’aspetto della farina.

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Tutto chiarito? Non proprio. Sui fatti di quella maledetta estate è affiorata, nel 2009, una tesi sconvolgente.  Ad aprire nuovi squarci sul mistero il giornalista statunitense Hank P. Albarelli, autore del libro “A Terrible Mistake: The Murder of Frank Olson and the CIA’s Secret Cold War Experiments”.

Albarelli, al termine di un’inchiesta durata sei anni, sostiene che gli abitanti di Pont-Saint-Esprit furono vittime di un esperimento segreto nel corso del quale la CIA avrebbe contaminato il pane con LSD per testarne gli effetti. Non si trattò, dunque, di un episodio accidentale, non fu l’ergotismo, ma una deliberata somministrazione di allucinogeni alla popolazione.

Punto di partenza dell’indagine la “strana” morte di Frank Olson, un biochimico al servizio della CIA, precipitato dal 13° piano di un edificio di New York nel 1953, due anni dopo i fatti francesi. Analizzando gli studi e le carte di Olson, Albarelli ipotizza che le allucinazioni di Pont-Saint-Esprit, furono causate dall’utilizzo di LSD, deliberatamente inserito nel pane prodotto dai forni del villaggio, o spruzzato nell’aria.

Sulla scorta delle confidenze di due ex colleghi di Olson, Albarelli conclude che la contaminazione di Pont-Saint-Esprit faceva parte di un esperimento di controllo mentale realizzato dalla CIA e dall’esercito americano, nell’ambito di un piano segreto più ampio, iniziato durante la Guerra di Corea e mirato a studiare l’efficacia di allucinogeni per scopi bellici. Il progetto della CIA noto come MKULTRA, si proponeva di testare un possibile utilizzo dell’LSD come arma segreta. L’operazione, peraltro,  fu oggetto di un’audizione davanti a una commissione al Senato nel 1977.  Tra il 1953 ed il 1965, aggiunge il giornalista, oltre 5700 soldati americani furono sottoposti a sperimentazioni con allucinogeni.

Ma non è tutto. Albarelli è riuscito anche a scovare un’intercettazione telefonica di una conversazione tra un agente della CIA ed una società farmaceutica svizzera, la Sandoz Pharmaceutical (oggi divisione della Novartis), nella quale viene citata l’operazione di Pont-Saint-Esprit e le cause che portarono all’epidemia di allucinazioni.

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La tesi complottista di Albarelli continua ad alimentare dubbi. Tra i critici più convinti l’accademico statunitense Steven Kaplan che sui fatti di Pont-Saint-Esprit ha pubblicato saggi ed articoli. Secondo Kaplan le teorie di Albarelli sono da rigettare, sia per la discordanza dei tempi, sia per le evidenze cliniche. Ripercorrendo quelle drammatiche giornate è possibile affermare che tra l’assunzione del pane avariato e la comparsa dei sintomi passarono circa 36 ore, mentre la somministrazione di Lsd accreditata da Albarelli avrebbe dovuto provocare effetti immediati: è noto, infatti, che l’acido lisergico agisce immediatamente. L’LSD, inoltre, non provoca i problemi gastro-intestinali e psichici descritti dagli abitanti del paese. Secondo Kaplan, insomma, credere che sia stato utilizzato come cavia un piccolo villaggio della Francia del sud per sperimentare l’uso di allucinogeni in campo bellico o come arma di controllo mentale è un esercizio assurdo e insensato.

Quale fu allora la vera causa della follia collettiva? Cosa accadde nell’estate del 1951 a Pont-Saint-Esprit, a pochi anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e in piena Guerra Fredda? Diverse ipotesi, nessuna certezza. Gli interrogativi si intrecciano, il mistero resta.


Virna VianiGenoa News Chronicle / Io, reporter

G8 2001, LA PRIMA CRONACA DA PIAZZA ALIMONDA

di Fabio TiraboschiGenoa News Chronicle / Io, reporter

Genova, 20 luglio 2001. La città è zona di guerra. Carlo Giuliani è stato appena ucciso in Piazza Alimonda. Le sue generalità non sono state ancora diffuse.

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Il giornalista Fabio Tiraboschi e il videoreporter Giuseppe Damonte, dal cuore degli scontri, documentano la  battaglia, raccolgono voci, intervistano testimoni oculari e ricostruiscono la dinamica dei fatti. Mentre in quei minuti circolano versioni ancora contradditorie sull’accaduto, questa è la prima cronaca, in presa diretta e a caldo, con la notizia di “un colpo d’arma da fuoco sparato ad altezza d’uomo“. Il servizio, trasmesso il 20 luglio 2001 dall’emittente Telegenova Eurotelevision’ (oggi non più attiva), è stato recuperato, dopo 14 anni, da un archivio dimenticato.



di Fabio TiraboschiGenoa News Chronicle / Io, reporter

CONTENUTI SPECIALI

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Dreamers, il podcast genovese e indipendente sui fatti di Genova del 2001. Il racconto audio si articola in dieci puntate, in uscita ogni due settimane, sempre di domenica, su tutte le piattaforme gratuite di podcasting. Gli autori sono quattro ragazzi e ragazze che vivono a Genova e che, all’epoca dei fatti, erano troppo giovani per partecipare. Nonostante ciò, quello che è successo a Genova ha profondamente segnato le loro scelte e le loro vite future. Per questo, a vent’anni di distanza, hanno deciso di raccontare quel periodo, con un obiettivo: rivolgersi ai giovani, affinché la memoria non vada persa e soprattutto, si possa vivere l’emozione di credere concretamente che “un altro mondo è possibile” anche oggi.

SCARFACE, ASCESA E CADUTA DI AL CAPONE

“Puoi ottenere molto con un sorriso, puoi ottenere molto di più con un sorriso e una pistola”

Alphonse Gabriel Capone

“Mi si accusa di tutte le morti violente nel mondo, mi meraviglio come non mi addossino anche le vittime della Grande Guerra”

di Patrice MersaultGenoa News Chronicle / Io, reporter

COSI’ DIVENTO’ SCARFACE

New York, inverno del 1917. L’Harvard Inn è un locale di Coney Island, quartiere di Brooklyn. Una bettola di moda frequentata da delinquenti irlandesi, prostitute, mafiosi italiani affiliati alla potente ‘Mano Nera’ e ragazzi della temuta ‘Five Points Gang. Tizi ben vestiti. Alcuni pieni di coca, altri intontiti da cocktails di pessima qualità e alta gradazione. Quasi tutti contaminati dal fango di una vita violenta e volgare. Da quelle parti e in quegli ambienti la Grande Guerra che stava dilaniando l’Europa era percepita come un fatto lontano. L’onda della tragedia bellica non arrivava neppure a lambire quel ritrovo malfamato di emigranti europei. L’Harvard, gestito dal boss Frankie Yale, fungeva da copertura ad un bordello e ad una bisca. In poche parole era un luogo di perdizione, vivamente sconsigliato alle signorine di buona famiglia. All’esterno rifiuti umani di ogni genere e una fossa dove era frequente assistere a zuffe tra cani, gatti e topi grossi come conigli. Quella notte nessuno era vigile, fatta eccezione per il barista e factotum del locale, un ragazzone diciottenne di origini italiane, dall’aria dura, mitigata solo in parte dalla precoce stempiatura e dal fare pacioso. Una maschera tragica da commedia dell’arte, un paffuto e malinconico Pulcinella che sembrava guardare con rabbia persino le tenebre di quel buco nero e sporco. In certe cerchie, si sa, uno sguardo storto o una parola azzardata potevano segnare il corso di un’esistenza. Lui, il barista, individuo scaltro e accorto, lo sapeva, ma una debolezza, di lì a poco, lo avrebbe tradito: la sua passione tellurica per le donne, la sua disordinata sete di sesso e piacere.

Il destino beffardo si materializzò sotto le spoglie di una sua vecchia conoscenza, un furfante “testa calda”, anch’egli di origine italiana. Frankie Galluccio, questo il suo nome, entrò in scena all’Harvard Inn trascinando a forza una vamp bruna e bizzosa, simile a una puledra recalcitrante. L’aspetto della ragazza era quello di una flapper, una maschietta, quel tipo di donna che usava la propria bellezza e femminilità come arma di emancipazione da una famiglia non sempre desiderata o da ruoli umilianti e secondari.

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Le flappers erano a tutti gli effetti proto-femministe che cercavano la parità e il riscatto anche di notte, fumando e bevendo nei nightclub come gli uomini. E lo facevano in modo talmente irriverente e snob, da essere viste con un misto di diffidenza e antipatia dalle coetanee suffragette.



Frankie Galluccio avanzò verso il bancone tenendo la ragazza per un braccio. Il barista concentrò l’attenzione solo su di lei. Se la divorò con occhi di brace. Posò lo sguardo sul viso truccatissimo, indugiò per un tempo infinito su quel corpo sexy fasciato da un lucido vestito di seta, squadrò le gambe scolpite, fece mille pensieri su quelle forme invitanti. Il sangue ribolliva. Rapito da quella visione non ebbe più la forza di resistere e decise di movimentare la serata con apprezzamenti non proprio da gentiluomo:

Lo sai che hai un bel culo – le disse – Lo dico per farti un complimento sai…”. Poi, rivolto all’accompagnatore: “Hey Frankie boy, dammela a me la guagliona con la faccia da puttana, che la faccio divertire io”.

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Fu il primo grave errore della sua vita. L’errore fu quello di non sapere che quella ragazza imbronciata e disinvolta era la sorella di Frankie, Frankie Galluccio!

Galluccio non rispose. Sfoderò dalla tasca un rasoio e con un rapido fendente vibrato dall’alto verso il basso incise la guancia sinistra di quel barista impudente che aveva osato apostrofare la sorella.  “Un taglio lungo pollici quattro (12 centimetri ndr) tra l’orecchio e il mento, reciteranno i futuri faldoni dell’FBI. Un taglio che avrebbe prodotto una scar, una cicatrice permanente.

Fu in quella sera del 1917, in una taverna di Brooklyn, che Alfonso Capone, figlio del barbiere Gabriele e di Teresina Capone da Angri, paesello nei pressi di Salerno, divenne per sempre ‘Scarface‘, faccia sfregiata.

Quella brutta ferita, che segnò il volto di quel ragazzo troppo svelto con le parole, non bastò certo a chiudere la faccenda. Il giovane Capone comprese subito a sue spese che la malavita organizzata era un mondo duro e spietato governato da logiche gerarchiche rispetto alle quali era inutile opporsi.

Frankie Yale, il boss dell’Harvard Inn, pretese che Capone si scusasse con Galluccio già il giorno dopo. Al non lo sapeva, ma Galluccio aveva amicizie importanti legate alla mafia siciliana. Con certa gente era meglio non scherzare. Per il momento Capone non era nessuno e non poteva certo permettersi di entrare in conflitto con le persone sbagliate. L’incidente, quindi, venne presto dimenticato…anzi. Pochi anni dopo Capone, ormai in piena ascesa, assumerà Galluccio addirittura come sua guardia del corpo. Una scelta tutt’altro che rara tra faccendieri, mafiosi e grandi criminali. In quei mondi non c’era (e non c’è) spazio per la vendetta personale o per il rancore fine a se stesso. “Gli affari sono affari” e  il peggior nemico di ieri può diventare il tuo fedelissimo di oggi e domani.

Alfonso Capone nasce a New York il 19 gennaio 1899. I genitori sono onesti emigranti campani; poveri eroi protagonisti di un’epopea segnata da lacerazioni, lacrime, fame, sofferenza, sogni americani e valigie di cartone. Il cognome originario del padre, in realtà, era Caponi, ma venne modificato in Capone dall’anagrafe statunitense quando la famiglia era sbarcata a Ellis Island.

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Le brutali storpiature dei cognomi erano errori molto frequenti dovuti all’incomunicabilità tra funzionari americani e analfabeti italiani allo sbando. L’episodio ispirò probabilmente la memorabile scena iniziale del film capolavoro ‘Il Padrino‘. Storie di identità cancellate, radici recise, strappi consumati: aspetti che il regista Francis Ford Coppola colse con maestria.



La famiglia Capone si sistema a Brooklyn. Il padre Gabriele riesce ad ingranare col lavoro. Dal matrimonio con Teresina nascono otto figli. Alfonso è il più irrequieto, una pentola a pressione pronta ad esplodere. In lui convivono due nature: la propensione al ragionamento e una primitiva attitudine alla violenza e al dominio. Studente dotato e intelligente, preferisce il richiamo della strada ai libri. Nel bene e nel male ama stare al centro dell’attenzione. E’ un bambino caratteriale, dalla personalità complessa e poliedrica, diremmo oggi; egocentrico e narcisista, non sopporta l’autorità, ovviamente quella esercitata dagli altri. In ‘sesta’, la prima media, dove aveva come compagno di scuola Lucky Luciano, prende a schiaffi una professoressa che aveva osato rimproverarlo e viene espulso definitivamente dall’istituto.

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La strada di Alfonso è tracciata. Dopo qualche anno, quel bambino turbolento e riflessivo, avrà scalato la vetta del crimine, ‘conquistando’ il poco invidiabile primato di nemico pubblico numero uno del governo americano.



George Johnson, il procuratore che riuscì a condannarlo, di Al Capone diceva:

Se avesse messo a frutto la sua energia, il suo talento, la sua intelligenza e il suo coraggio nell’economia legale sarebbe sicuramente diventato un magnate dell’industria. Su questo non c’è alcun dubbio. Capone aveva uno charme tutto suo, ma purtroppo sappiamo che non utilizzò i suoi talenti a fin di bene e il risultato di tutto questo sono stati morti ammazzati, sofferenza, e per la città di Chicago la perdita della sua reputazione“.

Lasciata la scuola, Capone brucia le tappe. Inizia a farsi le ossa nelle bande giovanili, gioca a fare il gangster e ci riesce benissimo. La criminalità, quella vera, lo osserva da lontano. Quel ragazzo irruento e sovrappeso ha stoffa e carisma. Soprattutto impara in fretta e sembra affidabile. Il 30 dicembre 1918 Alphonse Capone sposa Mae Josephine Caughlin, una ragazza di origine irlandese che solo un anno prima aveva dato alla luce un figlio maschio, Albert Francis, detto Sonny (nomignolo che lo scrittore Mario Puzo adotterà per il primogenito bello e violento di Vito Corleone/Marlon Brando, personificato nel film “Il padrino” da James Caan).

Sono gli anni del grande salto. Capone entra nelle grazie del boss Johnny Torrio e ne diventa il luogotenente. Siamo nel 1919, Al ha 20 anni e probabilmente uccide per la prima volta. La sua vittima – riferiscono le ricostruzioni postume – è un certo Tony Perrotta, un mafioso che si era rifiutato di pagare un debito di gioco. Capone, tuttavia, ondeggia tra gangsterismo e attività pulite. Fino al 1921, scrive più di un biografo, la sua condotta è regolare: come contabile, prima a Manhattan e poi a Baltimora, è ineccepibile; come padre è una guida esemplare. Ma la discesa nei gironi del malaffare è dietro l’angolo. Il padrino Torrio lo attira in quella macelleria d’America chiamata Chicago, città all’epoca più sanguinaria, ma più ricca di New York. La famiglia lo segue. In soli tre anni Capone diventa una potenza ed entra, da avido autodidatta, nel pantheon del crimine italo – americano.

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AL CAPONE RE DI CHICAGO

Compra leader politici e poliziotti, giornalisti e giudici. E’ come un Robin Hood: dà lavoro agli italiani, protegge i deboli, pone riparo alle ingiustizie. Per dieci anni, tra il 1922 e il 1931, coprendo l’esatta parabola del Proibizionismo, Al Capone diventa quello che nessun pezzo da novanta, nessun capofamiglia di ‘Cosa Nostra‘ è mai riuscito a diventare: il re incontrastato di una città intera, il sovrano rispettato di una Chicago dove non si eleggeva un sindaco che lui non volesse. Al Capone controlla ogni attività illegale: dalle bische allo smercio clandestino di alcolici; dai traffici di cocaina (che lui stesso consuma in abbondanza) ai bordelli da cui riceve una commissione fissa di 20 centesimi per ogni dollaro; dal racket alle scommesse.

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Le donne e il gioco lo rendono sfacciatamente ricco. Nel 1927, l’ex barista sfregiato di Brooklyn, arriva a guadagnare una fortuna sterminata: cento milioni di dollari in un anno, quando cento dollari al mese rappresentavano un salario da nababbo. L’idea innovativa e vincente di Capone è quella di investire parte dei ricavi delle attività illegali, in attività pulite e legali, separando la gestione contabile: questa mossa porta all’organizzazione rilevanti introiti leciti che coprono quelli illeciti. Un genio del male.

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Al Capone, bulimico fruitore di sesso, ama ‘testare’ di persona le prostitute che animano i suoi bordelli, come quello gigantesco, di 400 stanze, ospitato al Lexington Hotel di Chicago. Il vizio, secondo errore della sua vita, gli costa la sifilide, malattia feroce che lo avrebbe reso folle. Un contrappasso in vita. Proprio la sifilide e la cocaina altereranno progressivamente il suo carattere, fino a farne un mostro.

IMPERATORE DEL CRIMINE

Sul Proibizionismo, la legge entrata in vigore il 16 gennaio 1920 – voluta dall’immigrato norvegese Andrew Volstead – e che vietava la produzione, il commercio e il consumo di ogni bevanda con un tasso alcolico superiore allo 0,5%, Capone costruisce il suo impero. La concorrenza è spietata. Gli scontri a fuoco con le bande rivali sono all’ordine del giorno. In un’imboscata il suo capo Torrio rimane ferito. Al Capone, ricevuta l’investitura dal vecchio boss, ha carta bianca e campo libero. Hanno inizio i massacri: muore il fratello minore Frank, il suo prediletto; scoppia una guerra mafiosa; in un decennio, le vittime saranno circa 500. Scarface passa indenne tra le carneficine, fuori della portata della legge. Nasce il mito. Tra i suoi amici annovera i grandi nomi dello star system: dal tenore Enrico Caruso all’asso della boxe Jack Dempsey.

Dal suo quartier generale, ricavato nell’Hotel Metropole, Al Capone, circondato dalla sua corte, governa con potere assoluto. La macchina organizzativa che lo sostiene è perfetta. Il suo immenso patrimonio è mascherato: ufficialmente non possiede nulla. Addebitargli un reato diventa un’impresa impossibile. Mezzo distretto di Polizia è sul suo libro paga. Gli alibi che puntualmente fornisce sono inattaccabili e nulla può essergli contestato direttamente. Tutti lo temono. Chi viene arrestato nel suo entourage  è colpito da improvvise e definitive amnesie, mentre chi osa rendergli l’esistenza difficile cade dalla tromba delle scale, rimane vittima di strani incidenti o chiude la bocca per sempre dopo una morte tanto improvvisa, quanto violenta. Almeno 80 i suoi rivali uccisi. Nei casi particolarmente delicati Al Capone non disdegna l’intervento risolutivo diretto. E’ capace di atrocità inimmaginabili: armato di mazza da baseball, il suo sport preferito, sfonda il cranio ai sospetti traditori, ma rispetta le donne, ama i bambini, è attaccato alla famiglia e si commuove all’Opera. I processi a suo carico si concludono con sistematiche assoluzioni grazie a cavilli e false testimonianze o per l’impegno di giudici corrotti.

Un profilo criminale, quello di Al Capone, entrato nell’immaginario collettivo, attraverso narrazioni letterarie e cinematografiche. Robert De Niro offre in assoluto l’interpretazione più fedele del boss nel film ‘The Untouchables – Gli intoccabili‘, diretto nel 1987 da Brian De Palma.



Durante la cruenta guerra di mafia Al Capone rafforza il proprio apparato di sicurezza. Corre voce che i suoi gregari siano in grado di svuotare un intero albergo in 15 minuti scomparendo nel sottosuolo.

*Nel 1985 a Chicago, sotto il marciapiedi del vecchio Hotel Lexington, è stato localizzato un bunker di cemento armato dove il gangster si rifugiava assieme alle sue donne e agli elementi eccellenti della sua banda. Secondo i massimi studiosi di Al Capone, all’inizio degli Anni ’30, il celebre gangster avrebbe fatto venire dall’Italia un gruppo di operai incaricati di scavare un sistema di cunicoli e passaggi segreti che doveva collegare l’hotel con le vicine gallerie della metropolitana*.

La banda di Al Capone utilizza l’ingegnoso labirinto per trasferire clandestinamente, e in gran fretta, gli alcolici di contrabbando o i bottini delle rapine. Grazie alle ‘talpe’, dislocate nei distretti di polizia, il clan è informato in anticipo sull’imminenza delle perquisizioni. Dopo ogni ‘soffiata’ il materiale compromettente viene messo al sicuro nei nascondigli sotterranei o svanisce attraverso la rete delle vie di fuga.

LA MATTANZA DI SAN VALENTINO

Al Capone è anche il mandante della famigerata Strage di San Valentino, la regina di tutte le mattanze di mafia: il 14 febbraio 1929 invia una squadra di sicari in un garage al numero 2212 di North Clark Street, indirizzo del quartier generale di George ‘Bugs‘ Moran, il suo principale concorrente nel mercato degli alcolici. Il commando mafioso è guidato dall’autista e luogotenente di Capone, Sam Giancana, con al seguito altri quattro uomini. Come data viene scelto il 14 febbraio proprio perché quel giorno Capone si trova a Miami convocato da un giudice federale per un interrogatorio, circostanza che per il boss equivale ad un alibi di ferro. Così, gli uomini di Scarface, travestiti da poliziotti, si presentano al cospetto dei rivali: colti di sorpresa, i gangsters di Bugs Moran si lasciano disarmare.

strage-di-san-valentinoAllineati contro una parete vengono crivellati a colpi di mitragliatore. Un diluvio di piombo. Almeno cinquanta proiettili scaricati su ogni corpo. Frank Gusenberg, una delle vittime, è ancora vivo all’arrivo della polizia. Alla domanda chi gli avesse sparato, risponde seguendo il codice omertoso della mala: “Nessuno mi ha sparato“. Morirà dopo tre ore di agonia, fedele al silenzio fino all’ultimo fiato. Per molti anni l’alibi di Al Capone regge, anche perché i pochi testimoni della scena avevano visto dei poliziotti aggirarsi sul luogo della strage. La tesi sposata fu, a lungo, quella di un’esecuzione messa a segno da agenti corrotti che volevano tappare la bocca a testimoni scomodi che sapevano troppo.

*Solo 40 anni dopo un vecchio gangster di origini lituane, Alvin Karpis, ha gettato nuova luce sui fatti: Bugsy Moran fu l’unico superstite. Una delle vittime, particolarmente sfortunata, gli somigliava moltissimo e venne uccisa al suo posto; Moran invece fuggì e sparì per sempre*.

L’INIZIO DELLA FINE

Al Capone rimane così, ma ancora per poco, l’unico e incontrastato padrone di Chicago. Il boss dei boss. La sua foto campeggia sulla copertina del prestigioso ‘Time‘. E’ tra gli italiani più famosi del mondo, alla stregua di Primo Carnera, Rodolfo Valentino, Benito Mussolini e Guglielmo Marconi.

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L’espansione del suo impero malavitoso si traduce nella colonizzazione di interi quartieri: il sobborgo di Forest View viene da tutti ribattezzato in Caponeville, un’area dove gli uomini del clan girano armati per le strade al pari di una forza di polizia.

In questo eccezionale documento filmato viene descritta  una delle auto blindate appartenute ad Al Capone. Tra le dotazioni della vettura, vetri antiproiettile, radio e sirena della Polizia.



Proprio a Caponeville, sempre nel 1929, Scarface finisce in manette per possesso illegale di un’arma da fuoco, ma viene subito rilasciato. L’episodio, tuttavia, è un segno allarmante. Il vento sta per cambiare.

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Al tramonto dei ruggenti Anni ’20 Capone è ancora sulla cresta dell’onda. Molti continuano a rispettarlo. La gente lo ama per la solidarietà concreta che rivolge ai poveri. Dopo il crac di Wall Street del 1929, migliaia di americani sono in ginocchio, ridotti alla fame. Capone organizza per loro mense gratuite. Attraverso alcune sue aziende, specializzate in ristorazione e abbigliamento, distribuisce cibi e vestiti. Migliaia di famiglie riescono, così, a tirare avanti con il pane e le minestre della mafia.

Attraverso le opere di beneficienza Al Capone conquista consensi popolari, ripulisce la propria immagine pubblica, guadagna credibilità sul terreno sociale e politico. Per molti osservatori è il suo errore più grande, quello che scatena la reazione dell’establishment politico americano. L’ex barista di Brooklyn inizia a dare fastidio. Invade campi che non gli appartengono e va fermato ad ogni costo. Il nuovo decennio sarà per lui messaggero di guai e dispiaceri. Quando il vento inizia a soffiare in direzione contraria, Al Capone gode di una rete di protezione ancora solidissima. Anni di indagini sui delitti non avevano prodotto un solo testimone, un solo indizio, frustrando la tenacia degli incorruttibili agenti speciali che l’FBI gli aveva messo alle calcagna. Inattaccabile sul terreno dei reati criminali, Al Capone deve e può essere aggredito su altri fronti, quello fiscale ad esempio. Ad intaccare la forza del boss intervengono, nel frattempo, altri fattori. Capone è minacciato dagli appetiti, mai sopiti, dei clan concorrenti. Dal 1930, quando i pezzi da novanta di New York, Lucky Luciano e Frank Costello, gli tarpano le ali, la figura di Scarface assume una dimensione quasi scespiriana. Teme di essere ucciso ed è tormentato dagli incubi. Il cerchio attorno a lui si stringe.

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NELLA RETE DEGLI ‘INTOCCABILI’

Il Governo americano dibatte sulla possibilità di tassare i redditi provenienti da attività illecite: ottenuto l’avallo legislativo, una squadra di agenti federali dell’ufficio delle imposte, comandata da Elliot Ness (l’agente che sarebbe stato interpretato sul grande schermo da Kevin Kostner nel già citato ‘The Untouchables – Gli intoccabili‘) si guadagna l’opportunità di indagare sugli affari riconducibili al boss. La squadra, definita appunto Gli intoccabili, è sempre alle costole di Capone.

Gli integerrimi agenti dell’FBI analizzano ogni più piccolo movimento finanziario sospetto senza arrivare però a nulla: nulla infatti è direttamente intestato a Capone, il quale agisce sempre attraverso prestanome. Ma proprio quando ogni sforzo investigativo  sembra infrangersi contro muri di gomma, ecco saltar fuori una minuscola traccia. Accade che nel corso delle minuziose verifiche l’attenzione degli uomini di Ness venga sollecitata da una piccola anomalia, un’impercettibile crepa rappresentata da un minuscolo foglietto di carta nel quale compare il nome di Al Capone. Tutto conduceva a un reddito che Scarface avrebbe dovuto denunciare. Il pizzino diventa, così, la prova dell’evasione fiscale, la chiave di volta dell’intera indagine e viene utilizzato per arrivare ad altre prove e, alla fine, per delineare un vasto impianto accusatorio. Grazie al lavoro del pool, Al Capone viene rinviato a giudizio per evasione fiscale, con ben 23 capi d’accusa.

Al, sicuro di farla franca, ingaggia i due migliori avvocati di Chicago, con una parcella allora astronomica di 72mila dollari, abbastanza per comperare una decina di immobili in città. Il giornalista Vittorio Zucconi, dalle pagine de la Repubblica’ di domenica 21 gennaio 2007, ricostruisce così l’atto finale di quel processo:

Al Capone si dichiarò colpevole, convinto dagli avvocati di poter patteggiare col giudice in cambio della ammissione che in effetti doveva al fisco 282mila dollari. Ma era una trappola. Appena ricevuta l’ammissione scritta, il giudice ritirò l’offerta del patteggiamento”.

IL CARCERE E LA FOLLIA

Capone è imbestialito e gioca l’ultima, disperata carta: corrompe la giuria popolare che però all’ultimo istante, la sera prima del verdetto, viene sostituita completamente. I nuovi giudici raggiungono una sentenza di colpevolezza, il massimo che la legge consentisse: 10 anni in penitenziari federali più 1 anno in un carcere di massima sicurezza.



Nel maggio del 1932, la stella di Alphonse Capone, spuntata con il Proibizionismo, tramonta con la fine del Proibizionismo. Nella prima cella dove viene rinchiuso, nel penitenziario federale di Atlanta, chiede di portare tre cose: un mazzo di carte, una foto del figlio Sonny e l’Enciclopedia Britannica che legge avidamente dalla A alla Z. Ottiene lussi e privilegi: dalla cella continua a gestire i suoi interessi.

Viene allora trasferito nel carcere-fortezza di Alcatraz, struttura dalla fama sinistra situata su un’isola al largo di San Francisco. Tutti i suoi contatti con l’esterno vengono interrotti. Di notte, narrano le cronache, l’ex boss di Chicago è scosso dagli incubi. Urla, implora, immagina di essere trucidato a raffiche di mitra dai suoi avversari. Si aggrappa alla religione, è colto da crisi mistiche. Sono i segni della sifilide, ormai all’ultimo stadio, che ha piantato nella sua mente il germe della follia. Il feroce gangster di un tempo è ormai un idiota, un mite e inoffensivo demente.

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Alphonse Capone viene liberato nel 1939 (due anni gli vengono condonati per la buona condotta) e si ritira in Florida, con la moglie, nella villa che aveva comperato per 52mila dollari.

Chi lo visita dopo la scarcerazione, a meta’ degli Anni ’40, lo trova ancora di buon aspetto, ma la famiglia sa che ormai vive in un mondo a parte. Muore di arresto cardiaco, in seguito a ictus, il 25 gennaio 1947 a soli 48 anni. Sulla sua tomba, nel cimitero del Monte Carmelo a Chicago, è incisa una preghiera. My Jesus Mercy. Pietà, Mio Gesù“.


di Patrice Mersault – Genoa News Chronicle / Io, reporter