di Tania Brando – Genoa News Chronicle / Io reporter
Nel 1975 l’Italia aveva già pianto per i sequestri e le abominevoli uccisioni di due bambini: Milena Sutter ed Ermanno Lavorini; era stata sconvolta dalla madre di tutte le stragi, la bomba assassina di Piazza Fontana; era diventata il campo di battaglia delle prime guerre di mafia e degli scontri di piazza. L’opinione pubblica era quasi assuefatta…ma poi…poi ecco il massacro del Circeo, il crimine che scardinò le nostre difese rendendoci davvero più vulnerabili; il crimine che costrinse gli uomini, tutti gli uomini, a guardare in fondo al pozzo dove oscillano, deformi, i paesaggi oscuri della mente.
San Felice Circeo – La villa dell’orrore. Oggi è in stato di abbandono
1975, COME ERAVAMO
Nel 1975 la società italiana è percorsa da straordinari cambiamenti. Le donne si inoltrano su un nuovo terreno: quello della libertà e dell’autodeterminazione. Il movimento femminista è in prima linea per l’approvazione del divorzio e dell’aborto.
Accadono fatti importanti. Nel mese di marzo viene approvata la legge che abbassa la maggiore età da 21 a 18 anni, nascono come funghi le prime tv locali e le radio libere, dilagano le discoteche e si riduce da 24 a 12 mesi il servizio militare obbligatorio di leva. Nello sport l’Italia scopre lo sci grazie alle imprese della valanga azzurra guidata da Gustavo Thoeni e dal commissario tecnico Mario Cotelli. In tv va in onda l’ultima edizione della popolare Canzonissima, gara cult vinta da Wess e Dori Ghezzi con “Un corpo e un’anima”. I dischi più venduti dell’anno sono “Sabato pomeriggio” di Claudio Baglioni, “L’importante è finire” di Mina e “Piange il telefono” canzone strappalacrime recitata da Domenico Modugno e dalla piccola Francesca Guadagno. Il 9 aprile Federico Fellini vince con “Amarcord” il suo terzo Oscar. Al cinema trionfa “Amici miei“ con la regia di Mario Monicelli, mentre il 27 marzo esce il primo film di “Fantozzi”, l’indimenticabile maschera di Paolo Villaggio. Si ride, ma il clima è pesante. Il paese entra nella fase più feroce degli anni di piombo. Gli scontri di piazza tra neofascisti e gruppi dell’estrema sinistra generano un rosario di morti. Il 13 ottobre viene approvata la nuova legge sull’ordine pubblico proposta dal ministro Oronzo Reale: le forze dell’ordine possono sparare.
IL BAGAGLIAIO
L’anno è il 1975, la notte è quella che segna il passaggio tra settembre e ottobre, tra un martedì e un mercoledì. E’ una notte di vigilia per migliaia di bambini e ragazzi. Mancano, infatti, poche ore al primo giorno di scuola. Sì perchè negli anni ’70, il primo ottobre, San Remigio, coincideva sempre con la riapertura delle scuole. Davanti ai cancelli, accolti dal suono della campanella, si sarebbero radunati i remigini, gli alunni di prima elementare, e gli altri studenti attesi dalla ripresa delle lezioni dopo le lunghe vacanze estive.
Siamo a Roma. Via Pola è una traversa di via Nomentana ed è equidistante dai due celebri polmoni verdi della capitale, Villa Borghese e Villa Ada. La tarda serata sta per essere inghiottita dalla notte fonda, quando improvvisamente accade qualcosa. Il sonno del quartiere è turbato da raffiche ravvicinate di colpi sordi. Una signora si affaccia al balcone, scruta tra la luce pallida dei lampioni. Non vede nessuno, ma quei rumori adesso si sentono meglio. Sembrano manate vibrate contro una superficie, provengono da un ambiente chiuso, sicuramente angusto, e sono accompagnate da lamenti gravi, ma flebili, quasi soffocati, simili a miagolii. Qualcuno, evidentemente oppresso da una costrizione claustrofobica, sta implorando aiuto. L’attenzione della donna si concentra su una Fiat 127 bianca parcheggiata a bordo strada. I colpi arrivano proprio dall’utilitaria…Strano però…l’abitacolo è vuoto…eppure quei battiti febbrili si sprigionano, ovattati, dal ventre dell’auto, più precisamente dal bagagliaio che visibilmente sussulta. Sul posto arriva un metronotte che allerta una pattuglia dei Carabinieri con un messaggio grottesco diventato tristemente celebre:
«Cigno, cigno… c’è un gatto che miagola dentro una 127 in viale Pola»
Sono le 22.50 del 30 settembre 1975 e quello che sta per accadere rappresenterà la parte più ombrosa della memoria collettiva di un intero Paese. I carabinieri che si affannano intorno all’auto non sanno ancora che il portellone di quell’inquietante bagagliaio é il diaframma fisico che delimita le atrocità del male; ed ovviamente non possono supporre che stanno per svelare l’immagine più orrendamente iconica e solenne della cronaca nera di quegli anni violenti.
Quando il cofano viene forzato e aperto, i carabinieri sono sopraffatti dall’orrore. Quello che emerge dal baule è il volto stravolto, grondante di sangue, di una ragazza nuda, il corpo percorso da lividi e ferite. Nello sguardo sospeso i segni di un’esperienza terrificante. La sua espressione è un lago d’angoscia. Cosa avranno visto quegli occhi? Sarà possibile raccontare ed essere creduti? La ragazza è ancora viva, ma è terrorizzata, devastata dallo choc. Donatella Colasanti, questo il nome della creatura, è l’immagine più vicina a Gesù Cristo crocifisso. E’ come se avesse conosciuto Auschwitz, il napalm in Vietnam, le violenze di una dittatura sudamericana. E’ come se avesse assorbito tutto il male del mondo. In quella tiepida notte di inizio autunno, Donatella passa dalle tenebre della pre-morte alla condanna della testimonianza. Per tutta la sua breve vita sarà una sopravvissuta segnata dallo stigma del dolore incarnato. Un fotoreporter al seguito dei Carabinieri, Antonio Monteforte, ferma l’istante: il suo flash abbagliante su quel volto martoriato diventa l’immagine-simbolo della violenza universale sulla donna. Il documento è una frustata alle coscienze.
Ma non è tutto. La visione di quello strazio irripetibile è ancora parziale. Nel baule, accanto a Donatella Colasanti, c’è un’altra ragazza avvolta in un bozzolo di plastica, il corpo pietrificato, il respiro assente. E’ un angelo rannicchiato, si chiama Maria Rosaria Lopez ed è morta.
Il portabagagli diventa così la metafora del nostro inconscio, il luogo recondito dove si agitano i nostri demoni, il nascondiglio di segreti inconfessabili e nefandezze. Da quella notte, l’ordine impartito da Carabinieri e Polizia ai posti di blocco – “Prego, apra il portabagagli! – risuonerà più inquietante. Anche per le sue particolari modalità, il ritrovamento delle due ragazze anticipa, alla stregua di un lugubre annuncio, il fatto epocale che cambierà la Storia italiana: tre anni dopo, il 9 maggio 1978, sempre a Roma, ma in un altro bagagliaio, quello di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, verrà fatto ritrovare il corpo di Aldo Moro.
LE BELVE
I loro compagni di classe li ricordano ancora oggi con l’epiteto di “piccoli bastardi”. Angelo Izzo e Gianni Guido erano nella stessa classe: sezione A, liceo classico San Leone Magno, istituto esclusivo, cattolicissimo e privato, frequentato dai rampolli dell’aristocrazia nera e dell’alta borghesia pariolina. Una scuola dove la retta mensile, agli inizi degli anni ’70, raggiungeva quasi i due milioni di lire. Roba per pochi insomma. Il terzo boia del Circeo, Andrea Ghira (foto sotto, ultimo a destra), andava invece al liceo Giulio Cesare, istituto di rango, ma pubblico.
Fascisti legati ai gruppi dell’eversione nera, sbruffoni e spavaldi. Trascorrevano le giornate tra Corso Trieste, Via Salaria e Corso Parioli, rintanati spesso al bar Tortuga, il ritrovo dei fascisti della zona, o imbucati in festini organizzati da altri giovani pariolini. Facile immaginarli mentre si atteggiavano con i jeans alla moda (marca Ufo, Fiorucci o Spitfire), le magliette Lacoste, gli occhiali da sole Ray-Ban, i mocassini color cuoio a punta e il giubbotto di pelle nera dal quale lasciavano intravedere il calcio di una pistola. Sicuri di poterla sempre fare franca: guidare senza patente, picchiare, spacciare, violentare, distruggere. Tanto c’era sempre l’avvocato di papà a tirarli fuori dai guai.
Giovanni Gianni Guido (foto sopra) viveva nel quartiere Nomentano, in un elegante palazzo tra Villa Paganini e Villa Torlonia. Il padre era un alto dirigente di banca, la madre figlia di una nota famiglia di armatori napoletani. Angelo Izzo (foto sotto), figlio di un ingegnere edile, occhi vibranti e tiroidei, era, per sua stessa ammissione, un maniaco sessuale. Lo psichiatra che lo aveva in cura gli aveva diagnosticato una nevrosi maniaco-depressiva e alterazioni della sessualità derivanti da iposviluppo anatomico. Narcisista e istrione, era conosciuto per la sua prepotenza e le sue deliranti teorie sulla divisione in classi dell’umanità: i dominanti, i poveri cristi, i pidocchiosi. Roba da far rabbrividire anche i camerati più convinti. Si racconta che persino Teodoro Buontempo, il capo dei giovani missini romani, il temuto leader del Fronte della Gioventù, gli avesse ordinato di stare alla larga. Già alla fine del 1969 Izzo e Ghira erano stati espulsi dall’associazione studentesca di destra “Giovane Italia” per una disonorevole abitudine: alcuni camerati li avevano sorpresi a nascondere moto rubate all’interno della sezione missina Trieste-Salario.
Andrea Ghira (foto sotto), figlio del costruttore ed ex campione olimpico di pallanuoto Aldo Ghira, era un giovane violento che aveva aderito alle formazioni squadriste di estrema destra. Al Giulio Cesare aveva fondato la fazione Drago che teorizzava il crimine come mezzo di affermazione sociale. I suoi modelli erano Jacques Berenguer e Albert Bergamelli, noti criminali marsigliesi, che nei primi anni ’70 avevano messo a segno, anche a Roma, alcuni sequestri a scopo di estorsione. Una banda di giovani pazzi, insomma, cresciuti nel mito della violenza, “drughi pariolini” che non imitavano solo Arancia Meccanica, ma una vera e propria setta, la Rosa Rossa che univa neofascisti e massoni, notabili e satanisti. Ghira e Izzo erano orgogliosamente pregiudicati: nel 1973 avevano messo a segno una rapina a mano armata per la quale avevano scontato venti mesi nel carcere di Rebibbia; qualche mese dopo ancora Izzo, assieme a due amici, aveva violentato due ragazzine e perciò era stato condannato a due anni e mezzo di reclusione, mai scontati per una provvidenziale sospensione condizionale della pena. La vasta aneddottica ricavata dalle loro miserabili biografie rimanda a scene sconvolgenti: Ghira che, appena sedicenne, scendeva dalla Jaguar rosa pallido del padre tenendo al guinzaglio un alano nero. Un cane – racconta il giornalista Fabrizio Roncone in un memorabile articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 4 maggio 2005 – che lui bastonava prima di uscire di casa e che, perciò, arrivava davanti al bar Tortuga sbavando inferocito.
Si racconta che tra le tante ragazze cadute nel giro di questa nostrana Arancia Meccanica, nessuna abbia ricevuto fiori, baci e carezze. Quelli che sarebbero diventati gli aguzzini del Circeo ripudiavano le tenerezze e preferivano – per usare un eufemismo – le maniere forti: pizzicotti, sberle e stupri. “Le feste – scrive Roncone – venivano organizzate di nascosto. Se arrivavano loro, Izzo e i suoi, era finita. Case saccheggiate e molte ragazze che forse, ancora adesso, tengono nascosto un segreto tremendo. Il giovedì mattina, però, questi piccoli delinquenti andavano regolarmente a messa. Può sembrare pazzesco, ma è così: il giovedì, al San Leone Magno, era giorno di funzione religiosa e loro erano lì, in prima fila, a mani giunte. La verità è che avevano paura di Padre Barnaba, il loro insegnante di religione. Lo vedevano e tremavano. Izzo, più di tutti. Un comportamento tipico, sembra, nei serial killer”.
Nel libro di “Io sono l’uomo nero” scritto dalla giornalista Ilaria Amenta, Izzo consegna alcune memorie: “Gli stupri (o sfasci come Izzo chiama le violenze sessuali) per lungo tempo furono per alcuni di noi una specie di hobby cui ci dedicavamo con una frequenza diciamo settimanale. Era persino difficile distinguere le orgette con le nostre schiave sessuali, magari consenzienti, dagli stupri veri e propri”. Un gruppo di ragazzi, di adolescenti, della buona borghesia di Piazza Euclide, a Roma, che provava l’ebbrezza del potere, del dominio, del sopruso sopra una donna. Sempre Izzo racconta: “In quelle situazioni sfogavo molto più che la mia libidine compulsiva. Provavo qualcosa di ben più profondo e mostruoso che mi albergava dentro e che sentivo che premeva per irrompere. Ero nel cuore dell’odio, un po’ le stesse sensazioni che ho provato uccidendo. Quando uccidevo mi eccitavo”. Quegli stupri precedono di un anno e mezzo il massacro del Circeo del 1975 e valgono al gruppo una prima condanna a due anni e sei mesi di carcere. Il tribunale scrive che i condannati hanno dimostrato “una insensibilità che lascia sgomenti”. Poco dopo, però, i tre sono già liberi con la condizionale. C’è una frase, in sentenza, che farà molto discutere, dopo il massacro del Circeo: “Gli imputati, tutti di ottima famiglia, una volta usciti dal carcere imboccheranno la strada giusta”.
Sulla vicenda e sui mostri del Circeo sono stati realizzati film, scritti centinaia di articoli e decine di libri. Un loro compagno di scuola, Edoardo Albinati, nel romanzo “La scuola cattolica”, vincitore nel 2016 del Premio Strega, racconta in maniera magistrale ambienti, dinamiche e segreti di quella “mala educaciòn” all’origine della degenerazione:
Roma, anni Settanta: un quartiere residenziale, una scuola privata. Sembra che nulla di significativo possa accadere, eppure, per ragioni misteriose, in poco tempo quel rifugio di persone rispettabili viene attraversato da una ventata di follia senza precedenti; appena lasciato il liceo, alcuni ex alunni si scoprono autori di uno dei più clamorosi crimini dell’epoca, il delitto del Circeo.
L’INCONTRO
La vita è fatta di incontri. Alcuni possono salvarti ed arricchirti, altri distruggerti ed annullarti. Nell’elegante bar ai piedi del ‘Fungo’, nel cuore dell’Eur, Donatella, 17 anni, e Rosaria, 19, prendono il caffè con due simpatici ragazzi ventenni. Angelo, corporatura minuta, occhi enormi ed eloquio brillante con accenti fanatici, e Gianni, anche lui magro, ma decisamente più attraente, con un folto ciuffo che gli ricade sugli occhi e lo sguardo da seduttore imbronciato. In realtà Angelo Izzo (particolare non secondario) si presenta alle ragazze con il nome di Stefano. Dopo l’arresto rivelerà: “Avevamo l’abitudine di non dare i nostri nomi veri da quando, l’anno prima, io e altri avevamo commesso violenze carnali e pensavamo che usando nomi falsi non potevamo più essere incastrati”. Dunque, Gianni e Angelo/Stefano sono due ragazzi del quartiere Parioli, hanno frequentato le scuole migliori, sono iscritti all’università e alle due ragazze della Montagnola appaiono affascinanti. Tra una chiacchiera e l’altra i due invitano le amiche a una festa fuori Roma, in una villa sul mare. Perchè rifiutare? Non c’è motivo di dire di no. “Noi maschi saremo in tre, portate un’amica!”. “Va bene”, rispondono serene Rosaria e Donatella (foto sotto).
La vita è fatta di incontri, ma anche di “sliding doors”, cioè elementi assolutamente imprevedibili che possono cambiare la vita di una persona in modo altrettanto imprevedibile. Ad esempio perdere un aereo che poi precipita. Ebbene, nella terribile vicenda del Circeo, c’è una ragazza di nome Nadia, invitata alla festa da Rosaria e Donatella, che all’ultimo momento non si reca all’appuntamento per una provvidenziale indisposizione. Sarà la sua salvezza.
E’ il 29 settembre 1975: Gianni Guido e Angelo Izzo si presentano al rendez-vous con mezz’ora di ritardo. Rosaria e Donatella li hanno attesi, probabilmente trepidanti. Sono due ragazze di umili origini, semplici, pulite, ingenue. Due figlie del popolo, lontane anni-luce dai due pariolini (non a caso molti analisti, a tragedia compiuta, classificheranno il massacro del Circeo come un crimine di classe). Rosaria Lopez non ha finito le scuole medie, lavora in un bar e vive – con il fratello, la sorella e i genitori anziani e malati – in due stanze, in via di Grotta Perfetta all’Ardeatino. Anche Donatella Colasanti, studentessa, vive con la famiglia: padre impiegato, madre casalinga, un fratello di un anno più grande di lei. Una vita serena arricchita da un sogno: diventare attrice teatrale. I quattro salgono a bordo di una 127. Alle 17.50 giungono a San Felice Circeo, davanti al cancello di Villa Moresca, residenza affacciata sul promontorio del Parco Naturale con vista spettacolare sull’Isola di Ponza. La villa, spiegano i due ragazzi, è dei genitori di un loro caro amico, il terzo della compagnìa (Andrea Ghira ndr). Era davvero come l’avevano descritta: grande, due piani, taverna e garage, immersa nel verde e isolata. A un passo dal nulla. Le due ragazze vengono accompagnate in giardino. L’atmosfera è serena, qualche chiacchiera, i primi approcci, quel mare mitologico che sembra ancora estivo.
Dal romanzo “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese
“…Una paura indefinita di quell’aria così dolce, quel cielo così chiaro, quelle colline lunghe come lunghe onde che chiudevano nella loro serenità tante inquietudini ed orrori. Eppure, tutto sembrava così gaio e armonioso”.
Sono quasi le 18 e 30 e basta un gesto per precipitare nell’abisso. Sulla scena, all’apparenza idilliaca, irrompe una pistola: ad estrarla è Gianni Guido. Quello che segue è il racconto di un horror reale.
UN MARTIRIO LUNGO 36 ORE
Alla vista dell’arma spianata contro di loro, le ragazze reagiscono con un sorriso di stupore, ma ben presto si rendono conto che non si tratta di uno scherzo. Quei ragazzi così simpatici si trasformano in lupi e sanno essere convincenti: “Apparteniamo al clan dei Marsigliesi. Il nostro capo Jacques Berenguer ci ha ordinato di rapirvi”. Scatta il sequestro, cominciano le sevizie. Le due ragazze vengono legate e chiuse a chiave in un piccolo bagno senza finestre. Picchiate, umiliate, derise, insultate, brutalizzate. I loro corpi usati come lavagne dove esercitare istinti disumani e pulsioni psicopatiche. Donatella e Rosaria, in balìa dei torturatori, diventano oggetti. A un certo punto, particolare raccapricciante, Guido interrompe le sevizie. Deve recarsi a Roma dove per cena lo attendono i genitori: “Perché non dovrei mangiare tranquillamente coi miei?”. Poi tornerà indietro per terminare lo scempio.
Dalla deposizione di Donatella Colasanti:
“Angelo Izzo ci ha fatto uscire a turno dal bagno, ci ha fatto spogliare e ci ha obbligate a stare con lui, ma non è riuscito ad avere rapporti completi nè con me, nè con Rosaria. Verso le 11 di sera è tornato Gianni Guido. Piangevamo, volevamo andare via. Loro ci minacciavano di sverginarci. Questo inferno è continuato per un paio d’ore, fino a quando ci hanno rinchiuso di nuovo nel bagno”.
E’ l’alba del 30 settembre. Donatella e Rosaria sono stremate, hanno bevuto solo acqua, cominciano a sentire freddo. I due aguzzini ricompaiono, ma questa volta, eccitati dalle anfetamine, riversano sulle vittime un cataclisma di ferocia. E’ un delirio di calci, pugni e sevizie che dura fino alle 5 del pomeriggio. Ormai l’unico pensiero delle ragazze è cercare di resistere, non soccombere, non morire.
Dal romanzo-verità “Stupro” di Patrizia Carrano
“No, questo no, per piacere, questo no”. Non l’avrebbe sopportato, ne sarebbe morta. Sbuzzata come un pollo, aperta su un tavolo di marmo e gli intestini rovesciati, colle budella di fuori. Le pareva d’essere artigliata dentro, s’aspettava d’essere rivoltata come un guanto. Una bestia appesa al gancio dei macellai, un capretto aperto e battuto per essere sistemato nella tiella del forno, il boccone del prete unto d’olio per chi se lo sarebbe mangiato…
Il peggio, forse, è passato, ma ecco che improvvisamente la sceneggiatura criminale premeditata dal branco subisce un mutamento che risulterà devastante. In villa, ad animare ulteriormente quel pomeriggio “divertente”, fa il suo ingresso un terzo aguzzino, il ventiduenne Andrea Ghira, il padrone di casa, già condannato per lesioni aggravate, rapina, ricettazione e violazione di domicilio. Di fronte alle ragazze si cala nei panni del suo modello, Jacques Berenguer, il temuto boss del clan dei Marsigliesi. A raccontare quella pantomima folle e brutale è sempre Donatella Colasanti. Lo sconvolgente passaggio è stato pubblicato dalla trasmissione investigativa Chi l’ha visto? E’ il momento della massima abiezione.
“Jacques appena arrivato nella villa non è stato cattivo con noi, non mi ha obbligato ad andare a letto con lui. Poi però ci ha ordinato di fare l’amore tra di noi, io e Rosaria…Poi Jacques ha preso Rosaria per la mano e l’ha portata in una stanza. Io sono rimasta con Izzo e Guido. Angelo Izzo ha provato ripetutamente a prendermi, ma senza riuscirci e siccome a Guido non piacevo mi hanno preso a calci sulla schiena. Approffittando di un attimo di distrazione ho raggiunto il telefono e ho chiamato il 113, riuscendo solo a dire: ‘mi stanno amazzando’. In quel momento sono stata colpita da una spranga di ferro e sono crollata a terra. Mentre mi prendevano a calci sentivo le urla di Rosaria. Dopo un po’ ho visto Jacques. Dietro di lui la mia amica era sporca di sangue e lo implorava di lasciarci andare”.
Sono le 19,30 del 30 settembre 1975. Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira comunicano alle ragazze che le avrebbero addormentate per riportarle a Roma. Preparano due siringhe con del liquido rosso. Guido e Izzo portano Rosaria Lopez al piano superiore della villa, mentre Donatella Colasanti rimane in balìa di Ghira. E’ una separazione drammatica e definitiva. Donatella vede l’amica trascinata dai due carcerieri. E’ l’ultima sconvolgente visione di Rosaria viva. L’epilogo è feroce. Quelle belve senza morale si nutrono della paura delle loro prede. Le iniezioni del misterioso sedativo vengono inoculate, ma non fanno effetto. La situazione precipita. Donatella Colasanti percepisce l’orrore attraverso l’udito: sente che al piano superiore è stato aperto il rubinetto della vasca da bagno…sente l’acqua scorrere, sente l’amica morire. A quel punto Donatella comprende d’istinto che l’unica possibilità di salvezza è fingersi morta.
“Angelo è rimasto nel bagno con Rosaria tutto il tempo, mentre Gianni e Andrea si alternavano per aiutarlo. Sentivo le grida di Rosaria che si interrompevano come se le stessero immergendo la testa nell’acqua. Dopo un po’ non ho sentito più niente. Io ero con Guido e dalle scale sono scesi Ghira e Izzo. Erano affannati e stanchi, in particolare Izzo. Anche su di me l’iniezione non aveva avuto effetto e così hanno cominciato a colpirmi con il calcio della pistola, mi hanno riempito di pugni. Mi hanno legato una cinghia al collo e mi hanno trascinata nuda per tutta la casa. Hanno tirato così forte che alla fine la fibbia si è rotta. Sono svenuta per una decina di minuti e quando mi sono risvegliata ho sentito il piede di uno di loro che mi premeva sul petto. Qualcuno ha detto: ‘Questa qui non vuole morire’, e hanno cominciato a colpirmi in testa con una spranga di ferro. A questo punto ho pensato che la sola cosa da fare per salvarmi era fingermi morta…I morti non provano dolore. Poi la stessa voce di prima ha detto: ‘Finalmente siamo riusciti ad ammazzarla’.
“Guarda come dormono bene queste due morte”: sono le ultime parole che Donatella Colasanti sente pronunciare da Angelo Izzo. I tre aguzzini caricano i poveri corpi delle due ragazze nel portabagagli della Fiat 127. Due corpi martoriati avvolti in teli di plastica. Sono le 21 di martedì 30 settembre 1975. Nelle case italiane il secondo canale della Rai trasmette “Piccola ribalta”, varietà condotto da Mariolina Cannuli, conturbante “signorina buonasera” ed Enzo Cerusico, attore-rivelazione di quegli anni. L’utilitaria, con il suo carico di dolore e morte, parte alla volta di Roma; a bordo ci sono Gianni Guido e Angelo Izzo. Andrea Ghira li segue al volante della sua Mini Minor. Alle 23.30, giunti in via Pola, parcheggiano e, appagati, si recano in pizzeria in attesa di liberarsi dei cadaveri. E’ l’ultimo oltraggio.
Quei corpi nel bagagliaio parlano. L’Italia “scopre” l’immensa gravità dello stupro e della morte per stupro. Non sarà più possibile voltare le spalle, svilire, minimizzare, insinuare, screditare, assolvere… In quell’attimo lancinante crolla l’impalcatura millenaria della bestialità maschilista: “Se lo meritano…li avranno provocati…se sono andate in quella villa vuol dire che ci stavano…se fossero rimaste a casa non sarebbe accaduto“. Questi commenti circoleranno ancora tra la gente? Risuoneranno ancora nelle aule dei tribunali?
GLI ARRESTI E IL PROCESSO
Gli autori del massacro vengono identificati nel giro di poche ore. I media si tuffano sul caso in modo compatto e compulsivo; i giornali catturano le immagini di Angelo Izzo (foto sopra) che sfila mostrando sorridente le manette. Anche Gianni Guido viene arrestato. Andrea Ghira no; gode di protezioni importanti: messo in allarme da una soffiata, sparisce ed evita la cattura. La sua famiglia si attiva per coprirlo e c’è un primo episodio che lo dimostra: i Carabinieri, accorsi nella villa del massacro, sorprendono la madre e il fratello del fuggitivo intenti a lavare il sangue. Trascorrono dieci giorni, e dalla latitanza Andrea Ghira fa pervenire agli amici in carcere un messaggio gonfio di odio e delirio di onnipotenza:
“Vi assicuro che quella bastarda (Donatella Colasanti ndr) la faccio fuori. per voi non c’è pericolo. A fine anno 1976 uscirete tutti per libertà provvisoria. Anche se sanno tutto, questi bastardi, faranno una brutta fine anche loro. Comunque non vi preoccupate per la mia latitanza, ho circa 13 milioni di lire, forse andrò via da Roma. Per quanto riguarda quella stronzetta farà la fine della Lopez. State calmi. A presto. Berenguer Ghira”.
Per tutta la sua vita Andrea Ghira sarà un fantasma; per lui, nonostante quell’orrore, neppure un giorno di carcere.
Donatella Colasanti durante un sopralluogo nella villa dell’orrore
l primi di ottobre del ’75, accompagnata dai carabinieri e dagli avvocati, Donatella Colasanti deve tornare al Circeo per i sopralluoghi di rito sulla scena delle sevizie. Ad uno dei sopralluoghi partecipa – assieme agli aguzzini – anche l’avvocato Nino Marazzita, legale della famiglia Lopez. Tempo dopo racconterà: “Si capiva che qualcuno era andato via in fretta, c’erano bottiglie e cicche di sigarette: ma quando si entrava in bagno e nella camera in cui si consumarono le torture, la vista era ripugnante. C’era un mare di sangue. E i responsabili erano impassibili, pareva guardassero l’arredamento”.
Si avvicina il processo. Per Donatella Colasanti, all’epoca minorenne (aveva solo 17 anni), dovrebbe essere il momento sacro della verità e della giustizia, ma paradossalmente si tratta della prova più difficile. Dovrà sostenere il fuoco di sbarramento e gli attacchi della difesa degli imputati. Cercheranno di demolire la sua credibilità, tenteranno di annullare le differenze tra parte lesa e incriminati, la dipingeranno come adescatrice, avrà persino la sensazione di essere lei la colpevole, metteranno in campo tutte le strategie che da sempre, in Italia, connotano i processi per stupro. Dovrà subire una seconda violenza, sarà costretta a rispondere a domande ripugnanti, la colpiranno con un diluvio di commenti retrogradi e dovrà mettersi a nudo. La dignità di una ragazza offesa inchiodata ad una croce.
Estate del 1976: si alza il sipario sul processo. Al banco dei testimoni – che per lei si trasformerà in un banco degli imputati – c’è Donatella Colasanti, sostenuta da centinaia di attiviste femministe. Il suo avvocato, Tina Lagostena Bassi (foto sotto), leonessa e pioniera della lotta per i diritti delle donne, l’ha messa al corrente: “ti cuciranno addosso l’abitino della colpevole”. Le ha spiegato che il dibattimento non sarà una passeggiata, ma un’arena dove chi rischierà di essere sbranato non saranno gli imputati, ma lei, la vittima.
Come previsto, le vite di Donatella e Rosaria vengono frantumate. Ma alla fine gli italiani si accorgono per la prima volta che il paese è diventato, forse, più civile. Il 29 luglio 1976 viene pronunciata la sentenza di primo grado: ergastolo senza attenuanti a Gianni Guido, Angelo Izzo e in contumacia ad Andrea Ghira. La sentenza viene modificata in appello per Gianni Guido: il 28 ottobre 1980 la condanna gli viene ridotta a trent’anni, dopo una dichiarazione di pentimento e l’accettazione da parte della famiglia Lopez di un risarcimento pari a cento milioni di lire. Tutto finito dunque? Decisamente no. Gli anni successivi sono segnati da fughe, coperture, misteri, finti pentimenti, depistaggi ed altri omicidi. Uno dei tre, Andrea Ghira, scomparirà per sempre, senza aver fatto neppure un giorno di carcere. Sulla vicenda del Circeo, insomma, non sarà mai scritta la parola ‘fine’.
ANDREA GHIRA, LATITANZA ED EROINA
Andrea Ghira è ancora oggi il simbolo assoluto della giustizia negata. Sulla sua latitanza c’è ancora moltissimo da scoprire. Gli interrogativi si rincorrono. Chi lo ha coperto? Lo Stato italiano lo ha davvero cercato? La Spagna, il paese dove Ghira si era rifugiato, non ha mai collaborato alla sua cattura. Perchè? Partiamo dall’inizio. Dopo il massacro, mentre Izzo e Guido vengono arrestati, Ghira riesce a fuggire. Dalla latitanza scrive il delirante messaggio rivolto ai suoi complici, poi scompare definitivamente. Sulla base dei documenti noti è possibile ricostruire solo una parte dei suoi spostamenti. Almeno fino al Natale del 1975, Andrea Ghira si sarebbe nascosto a Roma. Forse, per mantenersi in “allenamento”, ha preso parte a un rapimento: nel dicembre di quell’anno, Ezio Matacchioni indica proprio Ghira tra i malviventi che lo hanno tenuto prigioniero in una villetta di Tor San Lorenzo, ma le sue dichiarazioni non convincono i giudici. Il 6 febbraio 1982 un testimone dichiara con assoluta certezza di aver visto Andrea Ghira ad Aprilia. Scattano le ricerche, ma del massacratore del Circeo non c’è traccia.
La latitanza di Ghira è al centro di un’inchiesta realizzata nel 1985 da Pino Buongiorno. Il giornalista raccoglie testimonianze più o meno attendibili sulla presenza del neofascista in Kenia; riferisce che ogni due mesi una donna viaggia tra Roma e Malindi per rifornire di soldi un italiano che si fa chiamare Lorenzo. Ghira gode, probabilmente, di protezioni molto forti. Lo segnalano a Londra, in Sudafrica, ma anche in Sudamerica – tra Brasile, Argentina e Paraguay – dove da decenni trovano rifugio le “primule” di mezzo mondo: nazisti, terroristi neri e rossi e criminali comuni. Qualche investigatore ipotizza più realisticamente che sia fuggito in Francia tramite la zia, che gestiva a Lourdes la struttura destinata ai malati che l’Unitalsi porta in pellegrinaggio al santuario mariano, magari proprio su uno dei cosiddetti treni bianchi, e che da lì abbia trovato riparo nella vicina Spagna ancora franchista. Quell’aiuto è stato confermato in tempi recenti. Nel corso degli anni è pure emerso che Andrea Ghira avrebbe trascorso sei mesi in un kibbutz israeliano per poi approdare a Madrid ed arruolarsi, il 26 giugno 1976, nel Tercio de Armada, la legione straniera spagnola, sotto il falso nome di Massimo Testa de Andres.
Con queste generalità fittizie il super-latitante, nella sua nuova veste di militare, viene arrestato il 28 maggio 1980 a Ceuta, città autonoma spagnola in Marocco. Le autorità lo bloccano con un quantitativo di hashish. Nei primi anni ’80, tra le autorità italiane e spagnole, intercorrono 23 note ufficiali, ma a nessuno sembra sia venuto il dubbio che Massimo Testa de Andrès potesse essere Andrea Ghira. Sarebbero state sufficienti una sua foto e le impronte digitali per risalire alla sua vera identità e decretarne l’estradizione in Italia, invece, ancora una volta, Ghira-De Andres viene ignorato e sottoposto alla giurisdizione militare. Prima di essere espulso dalla legione straniera spagnola a causa della sua tossicodipendenza da eroina, Andrea Ghira ha potuto indossare la divisa militare per 17 lunghi anni. Nel 2005 la Procura di Roma intercetta le conversazioni tra una domestica e alcuni familiari del latitante, conversazioni che vengono rilanciate in tv dalla trasmissione investigativa Chi l’ha visto?. E’ la svolta: messa alle strette, la famiglia Ghira riferisce agli inquirenti che Andrea è morto nel 1994 per overdose di eroina. La salma, riesumata nel cimitero di Melilla, viene sottoposta a due consulenze medico-legali: il riscontro sul dna evidenzia che le ossa appartengono certamente al “ceppo” della famiglia Ghira, ma non è possibile appurare che si tratti proprio di Andrea. Caso chiuso? Non proprio. Il dubbio che l’aguzzino del Circeo sia ancora vivo non si è mai completamente dissolto. Andrea Ghira protetto da una finta morte, il più beffardo e definitivo tra i depistaggi possibili.
“STUPRO E TORTURO”. IO, ANGELO IZZO
Anche dopo l’arresto, magistrati e giornalisti si occupano a più riprese di Angelo Izzo. Sono costretti a farlo. Il suo dopo-Circeo è costellato da fughe, catture, rivelazioni e da un secondo feroce massacro. Nel corso degli anni si autoaccusa di svariate imprese criminali e fornisce le proprie versioni su stragi neofasciste, omicidi eccellenti, fatti di mafia e terrorismo. E’ sicuramente il primo a parlare dello stupro subito nel 1973 da Franca Rame. Compare nel ruolo di testimone e collaboratore di giustizia in diversi processi. Si dedica allo studio e alla scrittura. In carcere intrattiene rapporti con terroristi e criminali di spessore. Prova e riesce ad evadere. Nel gennaio del 1977, assieme a Gianni Guido, tenta l’evasione dal carcere di Latina, ma l’operazione non riesce. Nel 1986 prova a fuggire dal supercarcere di Paliano. Il 25 agosto 1993, approffittando di un permesso-premio, si allontana dal carcere di Alessandria ed espatria in Francia. Catturato a Parigi dopo due settimane, viene estradato in Italia.
Trascorrono altri anni. In una celebre intervista televisiva concessa in carcere a Franca Leosini per il programma Storie Maledette, Angelo Izzo ripercorre la sua storia. Si dice pentito per il massacro del Circeo, ma accompagna la dichiarazione a un sorriso luciferino. E infatti qualche mese dopo (sembra impossibile) uccide ancora. E’ il 2005: dopo aver ottenuto la semilibertà dal carcere di Campobasso, viene associato alla cooperativa Città futura che lui stesso finanzia. Offre assistenza a Maria Carmela e Valentina Maiorano rispettivamente moglie e figlia di un detenuto che ha conosciuto in carcere. Nella sua veste di operatore sociale promette alle due donne aiuti economici e un lavoro, ma è una trappola. L’impulso di Izzo è quello di replicare, con modalità ancora più efferate, il massacro compiuto trent’anni prima nella villa del Circeo. Il 28 aprile, con la complicità di due disperati (Guido Palladino e Luca Palaia), uccide le due donne e le sotterra. L’Italia è incredula e sgomenta. Dopo un drammatico processo Angelo Izzo colleziona il suo secondo ergastolo.
Gianni Leoni, ex nerista del Resto del Carlino che lo ha intervistato in carcere, ha detto di lui: «Racconta fatti agghiaccianti come se raccontasse una favola o come se questi fossero stati commessi da un altro. Mi disse che dopo aver ucciso la moglie e la figlia di Maiorano, avrebbe distrutto un’altra famiglia se non lo avessero fermato. Questa è la sua logica. Una logica agghiacciante, una logica da mostro. Ma Izzo non si offenderebbe».
GIANNI GUIDO, UOMO LIBERO
L’espiazione e il pentimento non appartengono nè al brodo culturale nazifascista, nè al più animalesco ed arcaico maschilismo. I concetti sono più o meno questi: la donna è semplicemente un giocattolo che se rompo pago. Dominare e sottomettere una donna è nell’ordine naturale delle cose, se perdipiù è povera è lecito infierire. Gianni Guido, allineato a questi terrificanti orientamenti, ottiene, come abbiamo visto, una consistente riduzione della pena grazie ad un risarcimento di 100 milioni di lire pagato alla famiglia della ragazza trucidata. Il pentimento e il rimorso, seppur dichiarati, non sembrano nelle sue corde. Appena può evade, scappa all’estero e si rifà una vita. Alla fine, tra indulti, benefici, regime di semilibertà e affidamento in prova ai servizi sociali, sconta 20 anni sui 30 comminati. La sua pena si è esaurita nel 2009. Ripercorrere il suo “post-Circeo” è istruttivo. Nel 1977 tenta di evadere dal carcere di Latina assieme a Izzo. Il 27 ottobre 1980, grazie al risarcimento pagato alla famiglia di Rosaria Lopez, si vede ridurre la pena dell’ergasolo a 30 anni. Il 25 gennaio 1981 evade dal carcere di San Gimignano; i suoi genitori, sospettati di aver corrotto un agente della penitenziaria, vengono assolti. Il 27 gennaio 1983 viene arrestato a Buenos Aires. In attesa di essere estradato in Italia, riesce nuovamente a fuggire da un ospedale della capitale argentina dove era ricoverato per un’epatite. Per avere sue notizie bisogna attendere l’estate del 1994 quando la sua lunga latitanza viene interrotta dalla cattura a Panama dove si era riciclato vendendo auto sotto il falso nome di Andrea Mariani.
L’11 aprile 2008 Gianni Guido viene affidato ai servizi sociali dopo 14 anni passati nel carcere di Rebibbia. Ha finito di scontare definitivamente la sua pena il 25 agosto 2009, fruendo di uno sconto di 8 anni grazie all’indulto. Oggi (foto sotto) è un uomo libero.
DONATELLA E ROSARIA
Donatella Colasanti e Rosaria Lopez sono due simboli. Dopo il loro sacrificio sono state introdotte misure più severe e nuove norme per contrastare i crimini a sfondo sessuale e rafforzare le tutele della donna. Tuttavia, la strada (soprattutto culturale) da compiere è ancora molta. A mezzo secolo dai fatti del Circeo, femminicidi e violenze sessuali sono in pauroso aumento. Sproloqui che sembravano assopiti, tornano pericolosamente in auge. Così, eccoci costretti a ribadire, dopo l’ennesima violenza sessuale di gruppo, che ad esempio il sì di una donna ubriaca non è mai un consenso, ma uno stupro con l’aggravante della minorata difesa della vittima; e che lo stupro è una rapina, e che non si può essere consenzienti a uno stupro; e che in tutti i processi per stupro l’unico argomento che viene tirato fuori è sempre quello che lei era consenziente…Per queste ed altre ragioni, il massacro del Circeo è ancora attuale e non potrà essere dimenticato.
Il 4 ottobre 1975 si celebrano i funerali di Rosaria Lopez.
Il popolo della Montagnola (oggi quartiere residenziale tra l’Eur e la Garbatella) si raduna davanti alla Chiesa del Buon Pastore. “Era nella bara, vestita di bianco e aveva una lacrima, proprio sotto l’occhio destro”, ricorda la sorella Letizia. Ad officiare l’omelia è un vecchio prete partigiano, Don Pietro Occelli. Le sue parole risuonano ancora oggi come un monito:
«Vi è qui una sperequazione evidentissima che il delitto sottolinea: “loro” hanno avvocati di altissimo grido, hanno una magistratura che guarda benevola, hanno sempre la libertà provvisoria: e hanno anche le smaccate evasioni fiscali di padri ricchissimi che erano e sono rimasti fascisti. I figli di queste canaglie possono ammazzare, spendere e spandere, assassinare per non annoiarsi….».
Donatella Colasanti, la cui intera esistenza è stata segnata dalla notte al Circeo, non si è mai sposata e non ha mai avuto figli. E’ morta di cancro il 30 dicembre 2005 nella sua Roma. Aveva solo 47 anni. Su di lei è stata scritta la frase più vera: “Si è salvata fingendosi morta, ha passato la vita a fingersi viva”.
È passata alla storia per aver fatto condannare i suoi aggressori e per aver condotto alcune importanti battaglie, come quella per il riconoscimento dello stupro come reato contro la persona e non contro la morale pubblica. La immagino in una dimensione di pura luce abbracciata alla sua compagna di quelle giornate maledette.
Donatella e Rosaria, ricordiamole con un fiore.
In questo servizio della redazione di Fanpage le toccanti e preziose testimonianze di Roberto Colasanti e Letizia Lopez, fratello e sorella delle due vittime.
I PERCHE’ DI UN CRIMINE
1975 – Sulla stampa Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini si scontrano in un acceso dibattito nell’analizzare le ragioni profonde del massacro del Circeo. Calvino pone in evidenza il conflitto di classe tra i carnefici, ricchi pariolini neofascisti, e le vittime di umili origini provenienti da una zona periferica di Roma Sud. Per Pasolini questa contrapposizione non vale più: la cancrena non si diffonde da alcuni strati della borghesia, contagiando il Paese e quindi il popolo; c’è una fonte di corruzione assai più lontana e totale: “è il consumismo prescritto dal capitale – dice Pasolini – che ha generato una devastante mutazione antropologica”. La disputa si interrompe brutalmente la mattina del 1 novembre 1975 quando si scopre il cadavere martoriato dell’intellettuale bolognese. Ma questa (forse) è un’altra storia…
di Tania Brando – Genoa News Chronicle / Io reporter