IL CASO LAVORINI

Tratto da: “Il Giallo e la Nera” in Wonderland – RAI 4

Per la generazione nata tra la fine degli anni 50 e l’inizio dei ’60, il rapimento e l’omicidio di Ermanno Lavorini, tredicenne di Viareggio (foto sotto), rappresentò la fine dell’infanzia o dell’adolescenza ovvero la perdita dell’innocenza. Siamo nel 1969. La vicenda che sconvolse l’Italia democristiana, minata ormai dalla forte crisi del dopo-boom, è il primo terribile distillato di bugie e fake-news, gogna mediatica, omofobia e pedofilia, speculazione sul dolore, giustizialismo, coperture, vendette e folle estremismo politico. Un misfatto dal quale, purtroppo, non abbiamo imparato nulla. Ecco perché il caso Lavorini, con i suoi vizi immortali, è ancora attualissimo.

Il 1968, in Versilia, si è concluso con una nuova contestazione della sinistra extra-parlamentare davanti al night “La Bussola” e con i colpi di pistola sparati dalle forze dell’ordine ad altezza uomo. Una pallottola si conficca nella schiena del sedicenne Soriano Ceccanti. Un mese dopo Viareggio torna alla ribalta nazionale per una sconvolgente notizia di cronaca, in apparenza lontana dalle tensioni politiche.

Un bambino di 12 anni, Ermanno Lavorini, figlio di un commerciante di tessuti, esce di casa per fare un giro in bicicletta. “Tornerò fra un’ora” dice. Tre ore più tardi al negozio dei Lavorini arriva una telefonata: “Stasera Ermanno resta a cena con noi. Preparate 15 milioni”.

La famiglia del dodicenne è benestante, ma non così ricca e l’idea di un rapimento appare strana. Tuttavia i genitori trovano i 15 milioni di riscatto, ma dopo la prima telefonata cala un drammatico silenzio. Il quotidiano toscano “La Nazione”, l’11 febbraio titola: “Il segreto della scomparsa nel mondo del terzo sesso”. Nell’articolo si legge che i responsabili devono essere cercati nella “squallida umanità che bazzica i sentieri fra i pini della Riviera”. E’ l’inizio di un processo mediatico contro l’ambiente degli omosessuali. La Polizia segue la pista senza ottenere risultati concreti, a parte la persecuzione di innocenti bollati dalla stampa come ‘invertiti’, ‘capovolti’, ‘pederasti’, ‘anormali’, finché il 9 marzo viene casualmente rinvenuto sulla spiaggia di Vecchiano il corpo di Ermanno.

Gli inquirenti, concentrati sul gruppo di amici del piccolo Lavorini, arrivano a identificare un sedicenne, Marco Baldisseri (foto sotto), che per mesi si farà beffa dei magistrati inventando decine di versioni diverse. L’istrionico meccanico racconta storie di sesso, droga, orge, violenze. Si accusa, ritratta, e fa nomi che si rivelano tutti senza fondamento. Fra gli altri indica Adolfo Meciani, 39 anni, sposato, con un figlio piccolo, proprietario di uno stabilimento balneare e accusato di essere “segretamente omosessuale”. Prima dell’arresto Meciani rischia il linciaggio. Poi in carcere, da innocente, non regge all’infamia e si uccide impiccandosi con un lenzuolo. E’ la seconda vittima del mare di fango che ha travolto la cittadina toscana. Un anno dopo é la volta di Giuseppe Zacconi (figlio del leggendario attore Ermete) esercente cinematografico morto per un infarto da stress.

Amici del Baldisseri, i due ventenni Rodolfo Della Latta detto ‘Foffo’ e Pietro Vangioni, sono estremisti di destra vicini al Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante e membri di un misterioso groppuscolo con vocazione eversiva, il Fronte Monarchico Giovanile. Tra menzogne e depistaggi alla fine emerge una prima verità: morto poche ore dopo la scomparsa, Ermanno Lavorini è la vittima di un maldestro e brutale sequestro di persona organizzato dai tre neofascisti con l’obiettivo di ottenere un cospicuo bottino per finanziare la loro attività politica. Il processo comincia nel gennaio 1975 e alla fine, il 6 marzo, Marco Baldisseri e Rodolfo Della Latta sono rispettivamente condannati a 15 e 19 anni di reclusione, mentre Vangioni, che si scoprirà essere figlio di un informatore della Polizia, è assolto per insufficienza di prove. La sentenza suscita lo sdegno di molti osservatori perché la Corte d’Assise di Pisa ha accolto la tesi del Pubblico Ministero il quale aveva negato il movente politico e affermato che il delitto era maturato in un ambiente di omosessuali.

Il 13 maggio 1977, la sentenza della Corte di Cassazione ribalta il giudizio e stabilisce che i tre devono essere condannati per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona al fine di raccogliere fondi per la loro associazione sovversiva. Queste le pene: 11 anni e 10 mesi di carcere a Della Latta, 9 anni a Vangioni e 8 anni e mezzo a Baldisseri. Tutti e tre sarebbero poi usciti dal carcere in anticipo rispetto alla scadenza. In una recente intervista, a proposito dei lati oscuri della vicenda, Marco Baldisseri ha dichiarato: “Qualcuno ci aveva detto di fare così…Qualcuno ci guidava…degli adulti”.

“Il Giallo e la Nera” in Wonderland – RAI 4

GIALLI ITALIANI – IL CASO ALINOVI

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di Edoardo Montolli – tratto da GQ Italia

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Si chiama Francesca Alinovi, ha 35 anni, insegna al Dams. È considerata la migliore tra i critici d’arte di nuova generazione, è già affermata a livello internazionale, è decisamente anticonformista. Vive in una mansarda nel centro storico di Bologna, in via del Riccio 7. Ed è lì che la trovano, nel suo salotto, in una pozza di sangue, con due cuscini sul volto. Di fianco al corpo, un fiore di plastica. È morta da quasi tre giorni, ha addosso gli stessi abiti della domenica pomeriggio, maglietta a righe e calzoni bianchi. Un amico pittore, Marcello Iori, che non riusciva a trovarla al telefono da 48 ore, si era preoccupato e aveva allertato i Vigili del Fuoco.

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È così che sono arrivati a scoprire il cadavere. La donna ha 47 tagli in tutto il corpo, profondi meno di tre centimetri: nessuno è letale. Alcuni sulle braccia, alzate a proteggere il viso. Nessun segno di effrazione. Sulla finestra del bagno, una scritta fatta con la matita da sopracciglia, in inglese sgrammaticato e in stampatello: “Your not alone, anyway”, ossia “comunque non sei sola”.  Si pensa sia stata uccisa il 12 giugno, tra le 17 e le 23.

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Siamo nel 1983. E quello dell’Alinovi non è l’unico delitto che coinvolge persone che gravitano attorno all’università: sei mesi prima, il 30 dicembre, era scomparso da casa Angelo Fabbri, studente del Dams, ritrovato la mattina dopo in un burrone in Val di Zena, il corpo trafitto da dodici coltellate. E dopo Fabbri e Alinovi, il 3 luglio 1983, su una spiaggia di Torretta dei Crucoli, a Catanzaro, viene ritrovato il cadavere di un’altra studentessa del Dams: è Liviana Rossi (foto sotto), è di Ferrara, ha 22 anni, è in Calabria a lavorare come animatrice in un villaggio turistico. L’hanno strangolata.

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Il 29 novembre, infine, sparisce dal proprio garage Leonarda Polvani, 28 anni, anche lei iscritta al Dams, ritrovata cinque giorni più tardi nelle grotte di Croara, San Lazzaro di Savena, i vestiti sollevati, un laccio sul collo e un colpo 6.75 sparato al cuore.

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Presto in città si parla di un possibile mostro, del “killer degli intellettuali”. Ma solo in città. Perché le indagini hanno preso piste diverse, senza collegare i casi. L’ipotesi del mostro è suggestiva, ma sembra poco concreta. Di fatto, non troveranno mai un colpevole né per l’omicidio Fabbri né per il delitto Polvani, per il quale l’ultimo imputato sarà assolto 19 anni dopo. Per Francesca Alinovi, invece, l’assassino viene individuato subito: Francesco Ciancabilla, 23 anni, pittore di spicco del movimento lanciato proprio dalla vittima, gli “enfatisti”, quindi suo allievo prediletto e, si dice, anche amante.

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Lui racconterà di non aver mai voluto avere rapporti sessuali con lei. Un amante platonico? Un rapporto particolare, diciamo. Soprattutto per il carattere del ragazzo, dicono le voci. Una volta l’avrebbe inseguita con le forbici. Era geloso, violento. Le voci rimbalzano sulle cronache e dipingono un cuore nero. Un movente vero, però, non si trova. E l’Italia si divide tra innocentisti e colpevolisti.

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Di certo, Ciancabilla è rimasto con la donna fino alle 19,30 di domenica, prima di tornare a Pescara, dai genitori, in treno. Alla stazione ha incontrato un’amica, che ricorderà di non aver notato nulla di particolare sui suoi vestiti, gli stessi che gli aveva visto indossare poche ore prima: niente sangue, nonostante sia stato accusato di aver sferrato 47 coltellate. Non profonde, è vero, ma tante. Il ragazzo dice che con Francesca hanno sniffato coca, ma che quando è andato via lei era viva. Nel corpo della vittima non c’è traccia di cibo, quindi niente cena. Nessuno dei vicini ha sentito rumori dopo le 19,30. E alle 17 Francesca era sicuramente viva. A che ora è morta?

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Il problema sta qui: perché la perizia medico legale stabilisce che il delitto è avvenuto tra le 17 e le 23, quando Ciancabilla poteva o non poteva essere sulla scena del crimine. Mentre la situazione sembra arenarsi, la soluzione del caso, come in un film, arriva da un orologio, il Rolex con carica a polso di Francesca, che si ferma dopo 35 ore di cessazione del battito: fatti due conti, possono essere le 18,12 di domenica o le 6,12 di lunedì. Ma le 6,12 è tardi. Mentre alle 18,12 Ciancabilla era lì.

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Il caso si chiude con un colpo di scena, ma Ciancabilla è già sparito. Assolto per insufficienza di prove in primo grado il 31 gennaio 1985, un anno più tardi, il 3 dicembre, viene condannato in appello a 15 anni. Ma prima della sentenza, confermata il 9 maggio 1988 dalla Cassazione, l’uomo si è dato alla latitanza. Verrà arrestato a Madrid solo il 22 gennaio 1997. Scontata la pena, nel 2006 tornerà a vivere a Madrid, finché l’arte non lo riporta sui suoi passi: nel 2014 è in tour in Emilia Romagna con una mostra: Black Hours.

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Francesco Ciancabilla si è sempre dichiarato innocente.


Edoardo Montolli è autore di Fronte del blog – www.frontedelblog.it